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Articolo 1453 Codice Civile

(R.D. 16 marzo 1942, n. 262)

[Aggiornato al 27/03/2024]

Risolubilità del contratto per inadempimento

Dispositivo dell'art. 1453 Codice Civile

Nei contratti con prestazioni corrispettive, quando uno dei contraenti non adempie le sue obbligazioni, l'altro può a sua scelta chiedere l'adempimento(1) o la risoluzione del contratto(2), salvo, in ogni caso, il risarcimento del danno(3).

La risoluzione può essere domandata anche quando il giudizio è stato promosso per ottenere l'adempimento; ma non può più chiedersi l'adempimento quando è stata domandata la risoluzione.

Dalla data della domanda di risoluzione l'inadempiente non può più adempiere la propria obbligazione.

Note

(1) In tal caso agisce con l'azione c.d. di manutenzione del contratto, con la quale chiede che la controparte sia condannata ad eseguire la prestazione cui è tenuta.
(2) Con l'azione di risoluzione il contraente esercita un diritto potestativo. La risoluzione, in tal caso, è di tipo giudiziale, in quanto esige una pronuncia costitutiva del giudice.
(3) Il risarcimento è diverso a seconda che il contraente chieda la manutenzione o la risoluzione del contratto: nel primo caso esso si affianca alla prestazione, comunque dovuta, mentre nel secondo caso si sostituisce a questa.

Ratio Legis

Se il contratto è a prestazioni corrispettive, ciascuna di esse trova giustificazione nell'altra, per cui il venir meno di una legittima la controparte a chiedere la risoluzione, sempre che questa non preferisca insistere per l'adempimento. In tale ultimo caso, a fronte del persistere dell'inadempimento, la parte può ancora agire per la risoluzione, altrimenti sarebbe penalizzata proprio dal suo tentativo di mantenere in vita il contratto. Se, però, ha agito per sciogliersi dal vincolo, si presume non abbia più interesse alla prestazione e, quindi, le è precluso cercare di ottenerla ed è precluso alla controparte eseguirla.

Brocardi

Electa una via non datur recursus ad alteram

Spiegazione dell'art. 1453 Codice Civile

L'azione di risoluzione. Legittimazione attiva e passiva

Due punti devono subito essere messi in evidenza:

a) l'azione in risoluzione è da configurarsi come un'azione di accertamento costitutivo (infra, n.4);

b) la stessa sentenza di risoluzione opera la trasmissione del diritto dal convenuto all'attore (infra, n. 4).

Rimangono così superate tanto la questione circa la natura personale o reale dell'azione in risoluzione, quanto la questione sulla natura dell'azione tendente alla restituzione del bene (rei vindicatio, oppure condictio ob causam finitam).

Il carattere di accertamento costitutivo proprio dell'azione in risoluzione esclude poi la possibilità di far valere il potere di risoluzione in via di eccezione, in quanto una sentenza costitutiva non si può avere che per via di azione.

Legittimazione attiva. — L'azione in risoluzione spetta alla parte a danno della quale si è verificato l'inadempimento, quando, dal canto suo, sia pronta ad eseguire la propria prestazione o l'abbia già eseguita. In tema di legittimazione attiva giova tener presente il seguente principio: il potere di risoluzione presuppone l'esistenza ed è legato al rapporto giuridico sorto dal contratto che si impugna, più precisamente è legato al diritto del contraente deluso: di conseguenza, la titolarità dell'azione presuppone normalmente (eccezione: 2900) la titolarità del diritto.

Questo principio ci permette di risolvere anzitutto il problema dell'onere della prova: siccome la risoluzione è un rimedio apprestato per la salvaguardia del diritto derivante dal contratto, l'attore in risoluzione è tenuto a provare soltanto la conclusione del contratto stesso (cioè il fatto costitutivo del suo diritto), mentre sarà il convenuto a dover provare l'eventuale fatto estintivo di tale diritto, quale ad es., l'adempimento, la prescrizione estintiva, l'impossibilità sopravvenuta per caso fortuito, ecc.

Il principio sopra posto ci permette anche di risolvere le numerose questioni che possono sorgere in tema di legittimazione attiva.

Così, il cessionario del diritto di credito (es., il cessionario del prezzo della vendita) può agire in risoluzione contro il compratore inadempiente.

Il caso di cessione parziale del diritto di credito va risolto inquadrandolo nel più vasto problema della pluralità di titolari del diritto (pluralità originaria e pluralità susseguente per avvenuta successione all'originario titolare), problema che va risolto tenendo distinti due casi:

a) caso in cui tutti i titolari sono d'accordo nell'esercitare insieme la medesima azione contro l'inadempiente;

b) caso in cui manca detta azione concorde dei titolari del diritto. Mentre il primo caso non presenta difficoltà di sorta, nel secondo caso la questione della possibilità di domande separate è in conflitto tra di loro va risolta tenendo presente la divisibilità o meno del bene che è dovuto dal debitore inadempiente. Se si tratta di bene divisibile, anziché un rapporto unico si avrà una pluralità di rapporti le cui vicende non hanno reciproca influenza, per cui, in caso di inadempimento, uno dei soggetti può chiedere l'adempimento specifico e un altro la risoluzione. Se si tratta di un bene indivisibile, dovranno trovare applicazione, per analogia, le norme dettate dal legislatore in tema di obbligazioni indivisibili (in particolare le disposizioni contenute negli articoli 1319 e 1320 cod. civ.).

In ogni caso, la risoluzione parziale presuppone che anche l'oggetto della attribuzione a carico dell’attore sia divisibile, perché altrimenti non sarebbe possibile un'estinzione parziale del suo debito.

Legittimazione passiva. — L’azione in risoluzione spetta contro la parte inadempiente.

In forza dell'art. 1458, si potrà parlare di azione contro terzi unicamente nel caso in cui il bene acquistato dall'inadempiente in forza del contratto sinallagmatico possa essere perseguito anche in mani di terzi: fuori di questo caso l'azione in risoluzione non potrà fare riottenere la titolarità dello stesso bene, ma soltanto il suo equivalente.

Ma quand'è che la risoluzione può pregiudicare i terzi? Questo può avvenire soltanto nei seguenti casi:

1) sempre, quando il diritto acquistato dall'inadempiente sia un diritto di credito;

2) trattandosi dell'acquisto di un diritto reale, solo quando i terzi subacquirenti non abbiano adempiute le formalità necessarie per l'efficacia del loro acquisto di fronte a tutti i terzi (trascrizione per gli immobili ed i mobili iscritti, acquisto del possesso per i mobili non iscritti.)

Peraltro, nei casi in cui si tratti di un diritto di credito, occorre distinguere l'ipotesi in cui la cessione del diritto di credito fatta dall'inadempiente al terzo sia stata notificata od accettata ai sensi dell’art. 1264 cod. civ., contraria: nella prima ipotesi, per riottenere la titolarità del diritto, l'attore in risoluzione dovrà proporre duplice domanda (contro l'inadempiente e contro il terzo: potrà, qui trovare applicazione il principio del litisconsorzio facoltativo [art. 103 cod. proc. civ.]); nella seconda ipotesi, si applicherà lo stesso principio che vale per il caso di acquisto da parte del terzo di un diritto reale senza che siano state adempiute le formalità per l'efficacia dell'acquisto di fronte a tutti i terzi: sarà cioè qui sufficiente la domanda contro l'inadempiente, come se egli fosse ancora titolare del diritto.

Per quanto riguarda il caso di una pluralità (originaria o successiva) di legittimati passivi nell'azione in risoluzione, hanno da valere i seguenti principi:

a) Pluralità successiva (cioè posteriore all'inadempimento). Occorre qui distinguere i due casi:
α) di divisibilità degli oggetti di entrambe le attribuzioni: si avrà in tale caso una pluralità di rapporti indipendenti tra di loro, per cui si potrà agire con un'unica e identica domanda contro tutti i soggetti passivi, oppure con domande diverse e distinte (dom. di risoluzione, dom. di adempimento specifico);
β) indivisibilità di uno o di entrambi gli oggetti: anche qui vanno applicate, per analogia, le norme sulle obbligazioni indivisibili, e in particolare la disposizione dell'art. 1317 (secondo il quale le obbligazioni indivisibili sono regolate dalle norme dettate per le obbligazioni solidali quindi ogni debitore potrà essere perseguito per intero).

In ogni caso, anche qui per poter chiedere la risoluzione «pro parte» sarà necessario che l'oggetto dell'attribuzione dovuta dall'attore sia divisibile, perché altrimenti non sarebbe possibile l'estinzione pro parte del suo debito.

b) Pluralità originaria (cioè anteriore all'inadempimento). Valgono in generale gli stessi principi visti precedentemente per il caso di plu­ralità successiva.

Qui però occorre considerare anche l'ipotesi in cui l'inadempimento sia imputabile ad uno solo dei soggetti: in questo caso, se l'oggetto dovuto è indivisibile si applicherà per analogia l’art. 1307 (richiamato dall'art. 1317), cioè all'oggetto originario si sostituisce l'equivalente, al quale saranno tenuti tutti i condebitori.


I presupposti per la risoluzione

Sono tre:

I) la presenza di un contratto con attribuzioni corrispettive;
II) l'inadempimento, quando esso presenti i seguenti due caratteri: a) sia imputabile, b) sia grave;
III) l'attore in risoluzione deve avere eseguita la sua prestazione o dev'essere pronto ad eseguirla.

Mentre su quest'ultimo presupposto non occorre spendere parola, e del primo già si è parlato, occorre considerare il secondo presupposto e specialmente i due caratteri che esso deve presentare.

A) Come è noto, il debitore dicesi inadempiente quando non ha eseguito esattamente il pagamento al quale era tenuto (1218).

A questo proposito occorre distinguere :

1) l'inadempimento assoluto o definitivo, detto così perché la prestazione è diventata definitivamente impossibile (1256), o perché è cessato oramai ogni interesse del creditore a riceverla (1256).

2) il ritardo nell'adempimento, che si ha quando, pur non avendo il debitore adempiuto tempestivamente, la prestazione è ancora possibile, e sussiste pur sempre l'interesse del creditore a riceverla.

Tanto l’inadempimento assoluto quanto il ritardo, possono essere non imputabili .al debitore, oppure a lui imputabili.

L'inadempimento assoluto non imputabile al debitore è considerato dal legislatore in una sezione a sè stante (articoli 1463-1466) per cui esso non può dar luogo alla risoluzione per inadempimento ex art. 1453 e segg. [la diversità di disciplina dei due casi è evidente].

Il ritardo non imputabile costituisce la figura della impossibilità temporanea ad adempiere: qui il rapporto obbligatorio non solo non si estingue, ma il debitore non incorre neppure in responsabilità di sorta, perché nessun danno deve risarcire al creditore (1256) dunque neanche in questo caso sarà applicabile la risoluzione ex art. 1453 e segg.

Di conseguenza, il principio che qui deve porsi non può che essere questo: l'istituto della risoluzione ex art. 1453 e segg. è applicabile soltanto quando si abbia: a) l'inadempimento assoluto imputabile al debitore oppure b) il ritardo imputabile al debitore (mora debendi).

Nel caso di mora debendi (infra, n. 3) , si viene ad avere una modifica oggettiva dell'obbligazione che fa capo all'inadempiente, in quanto all'oggetto originario di detta obbligazione si aggiunge l'ammontare dei danni da risarcire.

Nel caso di inadempimento assoluto imputabile al debitore, si viene ad avere pure una modifica oggettiva dell'obbligazione dell'inadempiente [in quanto questa non rimane estinta, ma semplicemente modificata nel suo oggetto: perpetuatio obligationis]: all'oggetto originario di essa si sostituisce un altro oggetto (l'equivalente in denaro, oltre l'ammontare dei danni).

B) Per la risoluzione ex art. 1453, l'inadempimento ha poi da essere grave (1455): di questo carattere si parlerà tra poco (sub articolo 1455).


La domanda giudiziale

Sul problema, molto discusso per il passato, se la scelta, attribuita al non inadempiente, tra l'adempimento e la risoluzione possa essere successivamente variata, se cioè sia ammissibile un cambiamento di domanda, il nuovo legislatore ha troncato ogni discussione: esso, a mio avviso, è partito dal principio che tanto la risoluzione quanto l'esecuzione forzata costituiscono due sanzioni per l'inadempimento imputabile al debitore, e, più precisamente, due sanzioni alternative, tra le quali la scelta ha da spettare all'interessato. Peraltro, siccome l'esecuzione forzata costituisce la forma sanzionatoria ordinaria e normale, mentre la risoluzione ha carattere speciale, così, scelta quest'ultima, mediante proposizione della domanda di risoluzione non datur recursum ad alteram, cioè non è più dato ritornare sulla propria scelta e domandare l'esecuzione del contratto abbandonando la risoluzione; invece, dopo la domanda di adempimento della prestazione rimane pur sempre la facoltà di chiedere la risoluzione.

Peraltro, in quest'ultimo caso può sorgere — come era sorta sotto il vecchio codice — la questione se nel cambiamento della domanda di adempimento in quella di risoluzione debba ravvisarsi la proposizione di una domanda nuova e, come tale vietata in appello ex articolo 345 cod. proc. civ.

Noi siamo per la risposta negativa, cioè riteniamo che si possa in appello chiedere la risoluzione, pur avendo domandato in primo grado l'adempimento. Già nel processo di cognizione il cambiamento della domanda di adempimento in quella di risoluzione è da ammettersi anche dopo la prima udienza di trattazione, nonostante il disposto degli articoli 183 e 184 cod. proc. civ., in quanto la disposizione del Codice Civile contenuta nell'art. 1453 ha da considerarsi come norma che deroga al codice di rito, come ben ha dimostrato Bigiavi. Ammesso questo principio, e tenendo presente la ratio che sta a base dell'art. 1453, non vi è ragione alcuna perché la norma civilistica non abbia ad applicarsi anche al caso in cui dal giudizio di primo grado si passi in appello: e ciò si sostiene non certo ricorrendo ad un procedimento di estensione analogica, bensì in vista di una interpretazione logica, ricercando nella lettera, ed oltre la lettera dell'art. 1453, il suo spirito.

In forza dell'ultimo capoverso dell'art. 1453, non è più dato all'inadempiente di adempiere la propria obbligazione dalla data della domanda di risoluzione. Sotto l'impero del codice civile del 1865, la dottrina e la giurisprudenza riconoscevano generalmente al debitore la possi­bilità di un tardivo adempimento (cfr. Pestalozza, Ritardo e risoluzione del contralto, in Riv. del dir. comm., 1920, II, 320; Cass. 14 aprile 1931, in Mass. Foro it., 1934, n. 1121; Cass. 23 luglio 1928, in Mass. Foro it., 1928, n. 1295): con la disposizione contenuta nell'ultimo capoverso dell'art. 1453 si è voluto evitare la tardiva speculazione del debitore, dando al creditore la possibilità di procurarsi diversamente il bene dedotto nel contratto inadempiuto.

Si deve qui fare qualche considerazione sulla domanda giudiziale di risoluzione per ritardo imputabile al debitore: in questo caso, come è ovvio, si rende necessario che possa parlarsi di mora del debitore.

Nessuna questione si ha nel caso di mora ex re (1219).

Nel caso invece di mora ex persona (1219), in cui per la costituzione in mora occorre un apposito atto [ci riferiamo, per il momento, unicamente al caso di debiti portabili (1182), è necessario coordinare il principio contenuto nell'ultimo capoverso dell'art. 1453 (« dalla data della domanda di risoluzione l'inadempiente non può più adempiere la propria obbligazione») con il principio, ammesso comunemente, che la stessa domanda giudiziale di risoluzione vale come atto di costituzione in mora ex art. 1219.

Si rende necessario coordinare quei due principi, perché l'atto di costituzione in mora ha da presupporre, di per sé, che con tale atto venga ancora lasciata al debitore la possibilità di adempiere (infatti, come dice testualmente l'art. 1219, il suddetto atto ha da consistere in una intimazione o richiesta di adempimento fatta dal creditore al debitore), mentre la costituzione in mora mediante domanda giudiziale di risoluzione verrebbe a togliere al debitore ogni possibilità di eseguire la sua prestazione, ex art. 1453.

Il vero è che l'ultimo capoverso dell'art. 1453 è stato dettato per il solo caso in cui la domanda giudiziale di risoluzione sia stata preceduta da un apposito atto di costituzione in mora: è indubitabile infatti che, nel caso di domanda di risoluzione non preceduta da alcun fatto di costituzione in mora del debitore, questi non può considerarsi come già inadempiente nel preciso momento in cui è stata proposta la domanda giudiziale. Ora, l’art. 1453, dicendo testualmente che «dalla data della domanda di risoluzione l'inadempiente non può più adempiere», ha inteso riferirsi al solo caso corrente in cui il convenuto sia già inadempiente, cioè sia già stato precedentemente costituito in mora, onde tale disposizione non può applicarsi che a tale caso. Pertanto, non applicandosi l'art. 1453 al caso in cui la domanda di risoluzione non sia stata preceduta dalla costituzione in mora del debitore, non si può che arrivare alla seguente conclusione: nel caso in cui la domanda giudiziale di risoluzione ha da valere anche come atto di costituzione in mora del debitore ex art. 1219, è necessario ammettere che questi possa ancora adempiere dopo che a lui e stata notificata la citazione.

Ma fino a quando?

Rubino, il solo che si sia occupato del problema, afferma che, nel caso in esame, «il convenuto può adempiere fino alla prima udienza della causa» (Riv. d. dir. comm., 1947, I, 58).

Questa affermazione del citato autore non pare da accogliere, non solo perché, come Rubino stesso ammette, essa non si fonda su alcuna norma di diritto positivo, ma anche perché con essa si viene a favorire arbitrariamente il debitore, dato che tra il momento della notifica della citazione e quello della prima udienza della causa passano normalmente dei mesi.

Pare che, nel nostro caso, abbia a trovare applicazione l'articolo 1183, e le ipotesi da considerare sono qui essenzialmente le seguenti:

I) se all'obbligazione (si parla sempre di debiti portabili) non era stato apposto alcun termine di adempimento, per cui essa deve adempiersi a semplice richiesta del creditore, il debitore potrà ancora adempiere nonostante la domanda di risoluzione e dovrà adempiere senza altro (statim) non appena a lui è stata notificata la citazione del creditore, per cui è a dirsi, se il debitore adempie in quel breve lasso di tempo che la materialità della esecuzione della prestazione richiede, il giudice [che riconosca il pagamento (o l'offerta di esso) come avvenuto nel tempo materialmente necessario per la sua esecuzione, a partire dall'avvenuta notifica della citazione] dovrà respingere la domanda di risoluzione dell'attore in quanto il convenuto non può in detto caso ritenersi inadempiente;
II) se all'obbligazione non era stato apposto alcun termine, ma, in virtù degli usi o per la natura della prestazione, ovvero, per il modo o il luogo dell'esecuzione, sia necessario, come dice l’art. 1183, un termine, il convenuto potrà chiedere al giudice la fissazione di tale termine (o, addirittura, potrà senz'altro adempiere entro un congruo termine, salvo poi fare riconoscere dal giudice la legittimità del suo operato).

Concludendo: in tutti questi casi la domanda di risoluzione proposta dal creditore avrà da essere respinta per le seguenti due ragioni: α) perché, dovendo qui la domanda giudiziale di risoluzione valere anche come atto di intimazione o richiesta di adempimento ex art. 1219, un tale atto deve pur sempre, come si è visto, lasciare al debitore la possibilità materiale di adempiere dopo di esso; β) perché in tali casi non potrà affatto ravvisarsi la figura di un inadempimento del debitore, in quanto manca qui ogni colpa da parte sua. Peraltro, se il debitore non adempie entro quei due lassi di tempo visti sub I e II, si avrà allora inadempimento da parte sua e sarà di conseguenza senz'altro applicabile l'ultimo comma dell'art. 1453.

Si rende qui subito evidente il fatto che al creditore, il quale [fuori dei casi di mora ex re (1219)] intenda agire in risoluzione contro il debitore, converrà, al fine di evitare il pericolo di vedersi respingere dal giudice la propria domanda, seguire una di queste due vie: 1) fare precedere, alla notifica della citazione, un separato atto di costituzione in mora, lasciando intercorrere un congruo tempo tra i due atti; oppure, 2) nella stessa citazione per risoluzione, intimare al debitore di adempiere, assegnandogli un congruo termine, con espresso avvertimento che, alla scadenza di quel termine, si insisterà sulla domanda di risoluzione (ipotesi questa che non ha a che vedere con quella prevista dall'art. 1454 cod. civ.).

Fin qui, come ho detto, ho limitato le mie osservazioni al caso di costituzione in mora del debitore nelle ipotesi di debiti portabili. Per quanto riguarda i c.d. debiti chiedibili (cioè i debiti per il cui adempimento il creditore deve esplicare una data attività che normalmente è quella di andare esso stesso a richiedere e ricevere la prestazione), è di per sé evidente che non potrà aversi costituzione in mora del debitore prima che il creditore non abbia esplicato quell'attività che costituisce un suo onere, e ciò tanto se all'obbligazione non era stato apposto dalle parti alcun termine di adempimento, quanto se il termine esisteva ed è scaduto. Pertanto, finché il creditore non abbia esplicato detta attività, dovrà essere respinta dal giudice non solo la domanda di risoluzione proposta dal creditore, ma anche quella di adempimento. Sul coordinamento dell'ultimo comma dell'art. 1453 con l’art. 663 cpv. cod. proc. civ., rinvio alle osservazioni di Funaioli G. B. (Domanda di risoluzione per inadempimento e adempimento, in Riv. d. dir. comm. 1943, II, 159).

Si deve ancora osservare che, nel caso di inadempimento assoluto imputabile al debitore (per effetto del quale inadempimento si viene ad avere una modifica oggettiva nel rapporto obbligatorio: retro, n. preced. A), qualora il creditore intenda domandare, non la risoluzione ex art. 1453, ma l'adempimento, nella domanda giudiziale dovrà essere richiesto l'equivalente in denaro dell'originaria prestazione, appunto perché in quel rapporto obbligatorio si è verificata una sostituzione di oggetto.


La sentenza di risoluzione

Per l'art. 1453, il giudice non ha che da verificare se esistono i presupposti per la risoluzione, oppure no: se esistono, deve pronunziare la risoluzione; se non esisitono deve negarla.

Ma questa attività del giudice costituisce un ulteriore presupposto affinché l'effetto previsto dall'art. 1453 si produca: vale a dire, la risoluzione dipende dalla dichiarazione giudiziale, la quale di conseguenza ne forma un fatto costitutivo.

Questo carattere della sentenza di risoluzione viene posto in esatta luce confrontando il caso, che qui si considera, di risoluzione giudiziale (1453) e i1 caso di clausola risolutiva espressa (1456).
Nell'uno e nell'altro caso il giudice esplica sostanzialmente la stessa attività: accerta se esistono i presupposti per la risoluzione del contratto, ma ciò che il giudice fa nel primo caso (1453), e non nel secondo (1456), forma un fatto costitutivo della produzione dell'effetto, cioè della risoluzione. Questa, se vi è clausola risolutiva espressa, ha luogo senza necessità dell'intervento del giudice e da questi la risoluzione viene semplicemente riconosciuta e dichiarata [ex tunc: non però dal momento dell'inadempimento, ma dal momento in cui la parte interessata ha dichiarato all'altra che intende valersi della clausola risolutiva (1456)], invece, ex art. 1453 la risoluzione non avviene fino a che il giudice non abbia accertato l'inadempimento, cioè avviene nel momento della sentenza. In quest'ultimo caso pertanto l'accertamento non è soltanto un fenomeno processuale, ma è anche un fatto giuridico materiale, onde ha da dirsi che la sentenza non ha soltanto un'efficacia di accertamento, ma ha altresì un'efficacia costitutiva dell'effetto, e che quindi la risoluzione giudiziale ex art. 1453 concreta un'ipotesi di processo di accertamento costitutivo. In che cosa si concretino questi effetti giuridici costituiti dalla sentenza di risoluzione occorre ora vedere [si v. anche retro, Cap. I, § III ; si v. pure infra (sugli effetti della risoluzione) sub art. 1458].

Devo qui richiamare il principio per cui, verificandosi l'inadempimento assoluto imputabile al debitore, si viene ad avere una modifica oggettiva dell'obbligazione non adempiuta all'oggetto originario si sostituisce un altro oggetto (l'equivalente in denaro, a cui si aggiunge l'ammontare dei danni). Verificandosi invece la «mora debendi», si viene pure ad avere una modifica oggettiva dell'obbligazione dell’inadempiente, ma diversa da quella che si ha nel caso precedente: all'oggetto originario si aggiunge semplicemente l'ammontare dei danni. Ciò premesso, con la sentenza di risoluzione ex art. 1453 si ottiene questo risultato.
I) Inadempimento totale. — In caso di inadempimento totale, la risoluzione viene a neutralizzare entrambe le attribuzioni nel seguente modo :

a) se l'attore non ha ancora adempiuta la sua obbligazione (risoluzione «re adhuc integra»), detta obbligazione rimane estinta, mentre l'obbligazione dell'inadempiente subisce una nuova modificazione oggettiva la quale consiste nella riduzione dell'oggetto al semplice ammontare dei danni.
Per fare un esempio: un contratto di trasporto in cui il corrispettivo doveva pagarsi anticipatamente dal mittente, la risoluzione di quel contratto per mancato pagamento del corrispettivo da parte del mittente opera così: l'obbligazione del vettore rimane estinta; l'obbligazione del mittente si riduce all'ammontare dei danni subiti dal vettore

b) se l'attore ha già adempiuto la sua obbligazione, o, comunque, già si è verificata la trasmissione del diritto all'inadempiente, con la risoluzione si ha il ritorno all'attore della titolarità del diritto stesso, ed inoltre si ha il sorgere dell'obbligazione a carico dell'inadempiente di restituire il (possesso del) bene ricevuto (sempre che questo fosse già stato a lui trasmesso dall'attore). Peraltro, se quel diritto trasmesso all'inadempiente fosse stato nel frattempo da quest'ultimo trasmesso a terzi ai quali non sia opponibile la risoluzione ex art. 1458, si avrà semplicemente il sorgere, a carico dell'inadempiente, dell'obbligo di pagare all'attore l'equivalente in denaro della sua prestazione adempiuta.

Così pure, se l'inadempiente avesse costituito a favore di terzi diritti sul bene a lui trasmesso, opponibili all'attore in risoluzione, si avrà, bensì il ritorno all'attore della titolarità del bene stesso, ma questo continuerà ad essere gravato dei diritti concessi ai terzi, e la diminuzione di valore subita dal bene, per effetto di tali diritti, dovrà essere corrisposta all'attore dall'inadempiente.

Per quanto riguarda l'obbligazione non adempiuta dal convenuto, questa subisce anche qui una nuova modificazione oggettiva la quale consiste nella riduzione dell'oggetto al semplice ammontare dei danni.

Esempio: contratto di compravendita di cosa certa. Se il compratore non paga il prezzo, la risoluzione opera così:

a) il venditore riacquista la proprietà della cosa, che sia ancora nel patrimonio del compratore, il quale rimane obbligato a restituire (il possesso de) la cosa stessa se questa era stata a lui consegnata dal venditore;

b) l'obbligazione del compratore di pagare il prezzo si riduce all'ammontare dei danni subiti dal venditore.

Si vede subito come la risoluzione re adhuc integra (sub A) porti ad un risultato molto migliore, per l'attore, di quello che può ottenersi nella risoluzione di un contratto unilateralmente adempiuto: si pensi poi al caso di risoluzione di un contratto ad esecuzione continuata o periodica (1458). E’ questo il punto sul quale avrò ancora occasione di ritornare.

II) Inesatto adempimento. — Se il convenuto non ha adempiuto esattamente la sua obbligazione (es., il compratore ha pagato solo una parte del prezzo; il venditore ha consegnato una cosa diversa da quella pattuita), e sempre che non si tratti di inadempimento avente scarsa importanza (1455), la risoluzione opera in questo modo: fermo restando quanto si è detto precedentemente (sub I, A, B,), la risoluzione fa anche sorgere a carico dell'attore l'obbligazione di restituire quanto esso ha ricevuto dal convenuto.

Esempio: il venditore ha consegnato solo una parte della merce venduta. Per effetto della sentenza di risoluzione, l'attore (compratore) non sarà più tenuto a pagare il prezzo pattuito (cioè sarà liberato dalla sua obbligazione), ma dovrà restituire quella parte di merce che ha ricevuto.

Per il convenuto (venditore) si avrà l'inefficacia della sua attribuzione patrimoniale a favore del compratore, e nello stesso tempo sarà tenuto a risarcire i danni.

In questo caso, pertanto, alla modificazione giuridica domandata dall'attore (liberazione dall'obbligo di pagare il prezzo) è connessa l'imposizione di un obbligo a suo carico: l'obbligo di restituire quanto ha ricevuto.

Qui bisogna subito ricordare che, in linea di principio, tutte le volte in cui ci troviamo di fronte ad una sentenza costitutiva siffatta, in cui agli effetti giuridici domandati dall'attore si accompagna l'imposizione di un obbligo a suo carico, ha da valere un principio generale che è fondamentale nel nostro ordinamento giuridico: il principio cioè dell'uguaglianza di trattamento delle parti in giudizio il quale esige che l'attuazione dell'interesse di una parte si accompagni all'attuazione dell'interesse dell'altra parte e che, pertanto, l'adempimento dell'obbligo a carico dell'attore deve costituire il presupposto, a seconda dei casi, per l'acquisto da parte di esso della titolarità del diritto domandato, o quanto meno per l'esercizio di esso, oppure per l'estinzione del proprio obbligo: così la legge stabilisce espressamente che per l'acquisto della comunione forzosa del muro di confine, il pagamento dell'indennità ha da essere il presupposto per l'acquisto della comunione stessa (874); in tema di servitù coattive, il pagamento dell'indennità ha da costituire il presupposto per l'esercizio della servitù (1032).

Applicando questo principio al caso della risoluzione giudiziale per inesatto adempimento, deve dirsi, in linea generale, che l’adempimento dell’obbligo di restituzione da parte dell'attore costituisce il presupposto necessario per l’acquisto della titolarità del diritto da lui domandato, oppure l’estinzione del suo obbligo.

Ne deriva, come conseguenza, che tutte le volte in cui la parte non inadempiente si trova in condizioni di non potere più restituire quanto ha già ricevuto, viene meno per essa il potere di chiedere la risoluzione del contratto, proprio come stabilisce esplicitamente l'art. 1492, in tema di azioni edilizie nella compravendita, per cui «se la cosa è perita per caso fortuito o per colpa del compratore, o se questi l’ha alienata o trasformata, egli non può domandare che la riduzione del prezzo» (il compratore non potrà dunque esercitare l'azione redibitoria ma solo l'azione quanti minoris).

Rimane pure in tal modo spiegato logicamente il perché non sia possibile pensare ad una trasformazione dell'obbligo di restituzione specifica (che incombe alla parte non inadempiente) in obbligazione di restituzione per equivalente: si viene così a dare, in base al suddetto principio, una base dogmatica all'insegnamento, correntemente accolto dalla nostra giurisprudenza, che la trasformazione, distruzione colpevole, o alienazione, da parte del contraente non inadempiente, della cosa prestata dall'altro contraente (nel caso di inesatto adempimento) preclude il potere di risoluzione, principio accolto testualmente nei §§ 351 e segg. B.G.B., ed al quale anche gli interpreti del Codice svizzero giungono applicando per analogia l'art. 207.


I danni da risarcire

Rimane da vedere brevemente in che cosa consistano i danni da risarcire all'attore in risoluzione.

Dice l'art. 1453 che il risarcimento del danno ha da avere la medesima portata tanto nel caso in cui l'attore domandi l'adempimento, quanto nel caso in cui esso domandi la risoluzione del contratto.

A mio avviso, detta disposizione non può che significare questo: la prestazione dei danni deve essere tale da porre l'attore nella stessa situazione economica in cui si troverebbe se l'inadempimento non si fosse verificato. I danni da risarcire sono pertanto diretti a realizzare l'interesse dell'attore all'adempimento, e cioè essi dovranno comprendere tutti i danni positivi, nei quali è da fare rientrare anche l'eventuale differenza tra il maggior valore della prestazione che si doveva ricevere e il valore della prestazione che si doveva dare.

Circa il momento rispetto al quale l'ammontare del danno va determinato, è da osservare che nessuna limitazione sussiste nel nostro ordinamento giuridico riguardo alle circostanze di tempo del verificarsi del danno, dimodoché tutto ciò che è posteriore al verificarsi del fatto dannoso va preso in considerazione al fine di determinare l’ammontare del danno risarcibile (Cass. 6 agosto 1945, n. 707, Foro it. 1944-46, I, 96; Cass. 29 gennaio 1943, n. 239, Mass. Foro it., 1943, 61; Cass. 5 giugno 1942, in Foro it., Repertorio 1942, voce «danni per inadempim. contratt.», n. 18; App. Torino, 23 gennaio 1942, Foro it., Repertorio 1942, voce cit., n. 24; App. Palermo, 13 gennaio 1937, Foro it., Repertorio 1937, voce cit., n. 30; Cass., 8 marzo 1933, Foro it., 1933, I, 649 con nota di richiami).

Pertanto deve dirsi che se il risarcimento è chiesto: giudizialmente (1453), il tempo rilevante per la determinazione del danno avrà da essere quello della pronunzia giudiziale; e se dopo il giudizio di primo grado si verificassero degli ulteriori danni risarcibili (che non era stato possibile accertare nel primo stadio del giudizio) essi potranno essere oggetto di cognizione del giudice di appello (341 cod. proc. civ.).


Cause che impediscono il sorgere o che estinguono l’azione di risoluzione

Tali cause sono: l'adempimento tardivo dell'obbligazione originaria ex art. 1453; la risoluzione convenzionale, la rinunzia, la prescrizione estintiva.

A) L' adempimento tardivo. - Ex art. 1453, il debitore che, dopo la scadenza ma prima della data della domanda di risoluzione, adempie la sua obbligazione, estingue l’azione che spettava alla controparte.

Naturalmente, il debitore dovrà pagare anche l'ammontare dei danni in quanto, per il fatto di non aver adempiuto alla scadenza, la sua obbligazione ha subito una modificazione oggettiva per l’aggiunta all'oggetto originario dei danni di mora.

A nostro avviso l’estinzione dell'azione di risoluzione per adempimento tardivo ex art. 1453 può aversi solo nel caso di mora solvendi, e non nel caso di inadempimento assoluto perché qui il debitore non potrebbe affatto prestare l'equivalente della prestazione originaria con l'aggiunta dei danni senza il consenso del creditore (1197), in quanto questi è completamente libero di scegliere tra tale equivalente e la risoluzione ex art. 1453.

B) La trasformazione o distruzione colpevole, l'alienazione, da parte del contraente non inadempiente, della cosa prestata dalla controparte (nel caso di inesatto adempimento): di questo argomento già si è parlato precedentemente.

C) La risoluzione convenzionale. - La risoluzione può prodursi anche con un mezzo diverso dal processo: infatti essa può attuarsi direttamente per mezzo del consenso delle parti (1372). Si ha in tal caso un contratto il quale assume la figura di l'atto costitutivo della risoluzione.

A causa dell'identità di funzione con la sentenza costitutiva, il contratto di risoluzione opera nello stesso modo di quello visto precedentemente in tema di risoluzione giudiziale (1458): qui peraltro le parti potrebbero escludere ogni efficacia retroattiva della risoluzione, cioè anche quella semplicemente obbligatoria prevista dall'art. 1458: qui peraltro le parti potrebbero escludere ogni efficacia retroattiva della risoluzione, cioè anche quella semplicemente obbligatoria prevista dall’art. 1458. Quello che le parti non potrebbero fare è attribuire alla risoluzione efficacia retroattiva reale.

Nel caso in cui non ricorressero tutti i presupposti della risoluzione (retro, n. 2), il contratto posto in essere dalle parti si identificherebbe con la figura c.d. del «contrarius consensus».

Il contratto di risoluzione ha da essere sottoposto alle norme che valgono per i contratti in generale: ad esso andranno applicate quindi le disposizioni relative alla capacità dei contraenti, ai vizi del consenso, ecc.

Per quanto riguarda la forma, il contratto di risoluzione dovrà essere accompagnato dalla documentazione scritta delle dichiarazioni di volontà delle parti, nei casi in cui esso debba farsi rientrare nella categoria dei negozi chiamati solenni o formali, secondo le norme comuni.

Per quanto riguarda la sua pubblicità, ha da valere lo stesso principio: tale pubblicità sarà richiesta in tutti i casi in cui il contratto di risoluzione, in quanto produce una nuova vicenda del diritto, rientra in una di quelle categoria di contratti per i quali la legge richiede la pubblicità.

Nei casi in cui il contratto di risoluzione importi il trasferimento della proprietà di una cosa determinata, oppure la costituzione o il trasferimento di un diritto reale, ovvero il trasferimento di un altro diritto, avrà da trovare applicazione il disposto dell'art. 1376.

D) La rinunzia al potere di risoluzione. - A nostro avviso, la rinunzia, re aut verbis, al potere di risoluzione è pienamente ammissibile, come, a nostro avviso, deve pure ritenersi valido il patto per cui il potere di risoluzione abbia a spettare ad una sola delle parti contraenti.

α) Se la rinunzia è posteriore all'inadempimento, per la liceità della rinuncia si può argomentare con sicurezza dall’art. 1444. Se poi si inquadra il potere di risoluzione nella categoria dei poteri di impugnazione il principio qui difeso diventa ancora più sicuro in quanto, come è noto, ai poteri di impugnazione si può sempre rinunziare.

β) Più delicato si presenta il problema nel caso di rinunzia preventiva al potere di risoluzione. Ma anche qui la soluzione affermativa non pare dubbia.

La risoluzione trova il suo fondamento nella rilevanza indiretta, esterna e reattiva della causa: la causa cioè esplica la sua rilevanza anche nel rapporto (nato dal contratto), e tale rilevanza tende a prevenire o ad ovviare alla rottura del rapporto di corrispettività tra gli arricchimenti, voluto dalle parti contraenti.

Ora il problema da risolvere è questo se siano assolutamente essenziali e necessari tutti quei rimedi accordati dall'ordinamento giuridico nei contratti con attribuzioni corrispettive per prevenire o ad ovviare alla rottura del rapporto di corrispettività tra gli arricchimenti, rimedi che costituiscono l'espressione concreta della volontà causale delle parti contraenti, per cui sia da ritenersi preclusa all'autonomia dei soggetti ogni potere di modificazione in proposito; oppure se sia lecita una deroga convenzionale ad essi.

La risposta pare debba essere senz'altro affermativa.

Anzitutto è da ricordare che, in questo suo rilievo esterno ed indiretto, la causa non è più da considerarsi come elemento costitutivo del contratto, perché, come tale, essa ha già esaurita la sua funzione in seno al contratto: manca quindi ogni ragione di precludere all'autonomia delle parti ogni potere di modificazione.

Se poi l’istituto della risoluzione del contratto è da ricondursi alla volontà causale delle parti, è logico che a questa volontà debba riconoscersi la possibilità di modificare la disciplina dell'istituto stesso. Ciò è tanto vero che, sul terreno dello stretto diritto positivo, non si è mai dubitato da alcuno che quel periculum obligationis che, in via di principio, ricade sul debitore (1463), possa, per patto speciale, venire addossato al creditore.

Si prenda poi l'azione redibitoria nella compravendita. È noto come quest'azione venga configurata come un'azione di risoluzione del contratto (testualmente 1493): ora, l'art. 1490, con l’ammettere esplicitamente la validità del patto con cui si esclude la garanzia per i vizi della cosa venduta ci dà l'esempio più significativo di una rinunzia preventiva, accolto dal nostro legislatore, all'azione di risoluzione del contratto.

E Ferrara non dà alcuna dimostrazione della illiceità del patto di rinunzia preventiva alla risoluzione con il dire semplicemente che in quel patto si ha la rinunzia a servirsi in futuro di un mezzo protettivo accordato dalla legge in difesa di propri diritti violati: forse che non è possibile rinunziare preventivamente all'azione redibitoria nella vendita?

D'altra parte l'autonomia delle parti ha un largo riconoscimento nel campo contrattuale, e l'art. 1322 stabilisce espressamente che tale autonomia può trovare dei limiti soltanto in disposizioni di legge: ora nel nostro diritto, non esiste alcuna norma generale o speciale che vieti la rinunzia ad un mezzo di difesa di diritto sostanziale (v. infra sub articolo 1463, n. 3) accordato ai contraenti (su questo punto si vedano le esatte considerazioni di Piras: La rinunzia nel diritto privato, Napoli 1940, pag. 77 e segg.); anzi, a questo riguardo, si richiama qui la disposizione dell'art. 1462 la quale, ammettendo espressamente la validità della clausola del «solve et repete», implicitamente ma necessariamente viene a riconoscere la possibilità di una rinunzia preventiva al potere di risoluzione per inadempimento re adhuc integra: infatti, con la clausola del «solve et repete» una parte viene a rinunziare preventivamente a detto potere.

E se — come è noto — solamente l'importanza sociale dell'istituto della prescrizione ha indotto a porre la norma dell'art. 2937, per la quale si può rinunziare alla prescrizione solo quando questa è compiuta, pare che si debba così concludere:

a) che il principio contenuto nell'art. 2937, essendo stato sancito espressamente per la prescrizione, ha carattere eccezionale, in quanto si riconnette ad un interesse pubblico insito nell'operare della prescrizione stessa;

b) che non si può affatto dire che interessi l'ordine pubblico l'esistenza di un potere di chiedere la risoluzione di un contratto in seguito all'inadempimento di una parte, dal momento che a favore della controparte esiste il potere di chiedere l'adempimento dell'obbligazione contro l'inadempiente e quest'ultimo potere è quello che rappresenta la sanzione normale posta dall'ordinamento per ogni inadempienza e quindi costituisce la tutela normale di ogni creditore.

E) La prescrizione estintiva. — Posto il principio che il potere di risoluzione presuppone l'esistenza, ed è legato al rapporto giuridico sorto dal contratto che si impugna, più precisamente è legato al diritto del contraente deluso, non è possibile parlare di prescrizione del potere di risoluzione distinta dalla prescrizione del diritto, trattandosi appunto di un rimedio accordato a tutela del titolare del diritto stesso, rimedio di cui pertanto ci si può valere solo e fino a che quel diritto esiste.

Relazione al Libro delle Obbligazioni

(Relazione del Guardasigilli al Progetto Ministeriale - Libro delle Obbligazioni 1941)

228 Nel regolare l'inadempimento del contratto ho considerato, anzitutto, il ristretto limite entro cui funziona l'articolo 1165 cod. civ.
Esso concerne i contratti bilaterali; ma la bilateralità come era definita dall'art. 1099 non comprendeva precisamente tutti i casi di contratti in cui vi è un sinallagma funzionale tra le attribuzioni reciproche delle parti, che possono avere contenuto obbligatorio. L'art. 1165 cod. civ. escludeva, quindi, ad esempio, il mutuo ad interesse, in cui, invece, l'interesse è veramente in relazione sinallagmatica con l'uso del danaro concesso al mutuatario.
Ho creduto, così, che fosse necessario allargare l'ambito dell'art. 1165 cod. civ., estendendo la sanzione della risoluzione per inadempimento a tutte le ipotesi in cui un contratto produca, per una parte, effetti patrimoniali che stanno in posizione corrispettiva ad effetti patrimoniali prodotti a vantaggio dell'altra parte. Detta corrispettività non va intesa nel senso economico di equivalenza: ma deve certo significare relazione tra le reciproche attribuzioni, che ponga l'una come giustificazione o come scopo dell'altra.
Questa soluzione non limita la sanzione della risoluzione ai contratti obbligatori in senso stretto, ai contratti, cioè, che creano obblighi per le parti, ma la estende sostanzialmente a tutti i casi in cui vi siano attribuzioni patrimoniali (anche non obbligatorie) commutative; con ciò si mantiene fermo, e anzi viene meglio chiarito nella sua portata, il principio del sinallagma funzionale, con aderenza a quella che è la realtà della vita giuridica.
229 La disciplina degli effetti dell'inadempimento del contratto andava completata con il regolamento dei rapporti tra azione di risoluzione e azione di esecuzione, che non si rinviene nel progetto della Commissione reale.
In conformità alla tradizione romanistica (L. 4 § 1 D., 18, 3) ho stabilito (art. 253) che la scelta della risoluzione è irrevocabile. La ragione è evidente: mentre lo ius variandi consentirebbe alla parte adempiente di speculare sui mutamenti contingenti intervenuti a suo favore successivamente alla proposizione della domanda di risoluzione, la posizione del debitore verrebbe ingiustamente aggravata, se, a seguito della domanda di risoluzione, egli avesse disposto altrimenti della cosa che è oggetto del contratto non adempiuto.
Non altrettanto può dirsi quando il creditore abbia scelto la domanda di esecuzione. In diritto romano sembra che valesse la regola secondo cui, chiesto il prezzo, si intendeva rinunciata la risoluzione (L. 7 D. 13, 3); ma un principio del genere non è accettabile perché, fin quando dura l'inadempimento, il diritto alla risoluzione non può estinguersi. Deve, anzi, perdurare pure dopo la sentenza di condanna, se il debitore non vi adempie, perché questa sentenza non produce conversione di situazioni.
La scelta della via risolutiva preclude anche l'esecuzione da parte del debitore, sia che il termine convenuto per l'inadempimento abbia carattere essenziale, sia che non lo abbia: vi è da evitare la tardiva speculazione del debitore e c'è da impedire che la posizione di costui risulti molto più favorevole di quella fatta al creditore. Il creditore, se non può chiedere l'esecuzione, non deve nemmeno poterla subire; e deve essere, così, lasciato libero di procurarsi diversamente la prestazione dedotta nel contratto inadempiuto.

Massime relative all'art. 1453 Codice Civile

Cass. civ. n. 36918/2021

La pronuncia di risoluzione del contratto può avere natura costitutiva o meramente dichiarativa, in conseguenza della causa di scioglimento del rapporto prospettata ed accolta; in particolare, l'azione di risoluzione del contratto per inadempimento ex art. 1453 c.c., è volta ad ottenere una pronuncia costitutiva diretta a sciogliere il vincolo contrattuale, previo accertamento da parte del giudice della gravità dell'inadempimento, e differisce perciò sostanzialmente dall'azione di risoluzione di cui agli artt. 1454, 1456 e 1457 c.c., poiché in tali ipotesi l'azione intende conseguire una pronuncia dichiarativa dell'avvenuta risoluzione di diritto del contratto, a seguito del verificarsi di un fatto obiettivo previsto dalle parti come determinante lo scioglimento del rapporto.

Cass. civ. n. 8220/2021

In tema di risoluzione per inadempimento, il giudice, per valutarne la gravità, deve tener conto di tutte le circostanze, oggettive e soggettive, dalle quali sia possibile desumere l'alterazione dell'equilibrio contrattuale. (In applicazione del principio, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che, in un caso di errato intervento chirurgico di riduzione del seno, aveva omesso di valutare l'importanza dell'inadempimento con riguardo al risultato estetico, limitandosi ad affermare che l'operazione non poteva reputarsi del tutto inutile perché aveva effettivamente prodotto, secondo le indicazioni della paziente, la riduzione della massa mammaria).

Cass. civ. n. 23193/2020

In tema di inadempimento contrattuale, mentre nella proposizione di una domanda di risoluzione di diritto per l'inosservanza di una diffida ad adempiere può ritenersi implicita, in quanto di contenuto minore, anche quella di risoluzione giudiziale di cui all'art. 1453 c.c., non altrettanto può dirsi nell'ipotesi inversa, nella quale sia stata proposta soltanto quest'ultima domanda, restando precluso l'esame di quella di risoluzione di diritto, a meno che i fatti che la sostanziano siano stati allegati in funzione di un proprio effetto risolutivo.

Cass. civ. n. 19706/2020

Quando i contraenti richiedano reciprocamente la risoluzione del contratto, ciascuno attribuendo all'altro la condotta inadempiente, il giudice deve comunque dichiarare la risoluzione dello stesso, atteso che le due contrapposte manifestazioni di volontà, pur estranee ad un mutuo consenso negoziale risolutorio, sono tuttavia, in considerazione delle premesse contrastanti, dirette all'identico scopo dello scioglimento del rapporto negoziale.

Cass. civ. n. 12637/2020

Il divieto, posto dall'articolo 1453 c.c., di chiedere l'adempimento, una volta domandata la risoluzione del contratto, viene meno e non ha più ragion d'essere quando la domanda di risoluzione venga rigettata, rimanendo in vita in tal caso il vincolo contrattuale e risorgendo l'interesse alla esecuzione della prestazione, con inizio del nuovo termine prescrizionale del diritto di chiedere l'adempimento.

Cass. civ. n. 32126/2019

La stipulazione di un contratto a prestazioni corrispettive e l'inadempimento di uno dei contraenti sono, ai sensi dell'art. 1453 c.c., i fatti costitutivi del diritto dell'altro contraente ad ottenere la risoluzione del contratto, ovvero l'adempimento, ed in ogni caso il risarcimento del danno; ma ciascuno di tali diritti, configurandosi in termini di diversità ed autonomia rispetto a ciascun altro, può legittimamente costituire oggetto di rinuncia senza che, per ciò solo, gli effetti di tale rinuncia debbano automaticamente estendersi anche agli altri (nella specie, senza che la rinuncia all'azione esperita per ottenere il risarcimento dei danni comporti, "ipso facto", rinuncia all'azione di adempimento in forma specifica), a meno che l'atto abdicativo non si atteggi, in concreto, come rinuncia "tout court" a far valere tutti i diritti conseguenti al fatto dell'inadempimento della controparte.

Cass. civ. n. 13827/2019

Nei contratti con prestazioni corrispettive, ai fini della pronuncia di risoluzione per inadempimento in caso di inadempienze reciproche deve procedersi ad un esame del comportamento complessivo delle parti, al fine di stabilire quale di esse, in relazione ai rispettivi interessi e all'oggettiva entità degli inadempimenti, si sia resa responsabile delle violazioni maggiormente rilevanti e causa del comportamento della controparte e della conseguente alterazione del sinallagma contrattuale, con la conseguenza che, qualora l'inadempimento di una delle parti sia valutato come prevalente deve considerarsi legittimo il rifiuto dell'altra di adempiere alla propria obbligazione e alla risoluzione del contratto deve seguire l'esame dell'eventuale richiesta di risarcimento del danno della parte non inadempiente.

Cass. civ. n. 12803/2019

In tema di appalto, le domande di risoluzione del contratto e quelle di riduzione del prezzo o di eliminazione dei vizi non sono tra loro incompatibili, con la conseguenza che ne è ammesso il cumulo in un unico giudizio, non ostandovi il disposto dell'art. 1453, comma 2, c.c., che, per i contratti con prestazioni corrispettive, impedisce di chiedere l'adempimento dopo che sia stata domandata la risoluzione del contratto.

Cass. civ. n. 8924/2019

La colpa dell'inadempiente, quale presupposto per la risoluzione del contratto, è presunta sino a prova contraria e tale presunzione è superabile solo da risultanze positivamente apprezzabili, dedotte e provate dal debitore, le quali dimostrino che, nonostante l'uso della normale diligenza, non è stato in grado di eseguire tempestivamente le prestazioni dovute per cause a lui non imputabili.

Cass. civ. n. 4511/2019

La speciale disposizione di cui all'art. 1669 c.c. integra - senza escluderne l'applicazione - la disciplina generale in materia di inadempimento delle obbligazioni con la conseguenza che, in caso di opera non ultimata, restando l'appaltatore inadempiente all'obbligazione contrattuale assunta, si applicano le norme generali in tema di risoluzione per inadempimento ex artt. 1453 e ss. c.c., mentre la speciale garanzia prevista dagli artt. 1667 e 1668 c.c. trova applicazione nella diversa ipotesi in cui l'opera sia stata portata a termine.

Cass. civ. n. 16682/2018

La parte che chieda la risoluzione del contratto per inadempimento nel corso del giudizio dalla stessa promosso per ottenere l'adempimento, ai sensi dell'art. 1453, comma 2, c.c., può domandare, contestualmente all'esercizio dello "ius variandi", oltre alla restituzione della prestazione eseguita, anche il risarcimento dei danni derivanti dalla cessazione degli effetti del regolamento negoziale. (Nella specie, la S.C. ha cassato con rinvio la pronuncia d'appello, che aveva dichiarato inammissibile la domanda di una società la quale, agendo inizialmente in via monitoria per l'adempimento del contratto ed il pagamento del corrispettivo delle apparecchiature elettromedicali fornite ad un'azienda sanitaria provinciale, aveva successivamente optato per una "mutatio libelli", domandando la risoluzione del contratto ex art. 1453, comma 2, c.c., per inadempimento ascrivibile alla controparte contrattuale, chiedendo inoltre, quale conseguenza logica dell'inadempimento, anche il risarcimento dei danni subiti).

Cass. civ. n. 15993/2018

La costituzione in mora di regola non è necessaria ai fini della risoluzione per inadempimento, salvo quando la risoluzione si basi sulla mora in senso stretto, cioè su di un inadempimento non definitivo relativo ad una prestazione da eseguire al domicilio del debitore; in tali casi la mancata costituzione in mora prima del giudizio di risoluzione non impedisce l'esecuzione della prestazione, in deroga al principio generale dettato dall'art.1453, ultimo comma, c.c. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che, in un giudizio instaurato da un professionista per il pagamento dell'onorario, aveva ritenuto sufficiente l'eccezione di inadempimento della cliente in mancanza della costituzione in mora e di una dichiarazione scritta del debitore di non volere adempiere, trattandosi di una prestazione da eseguire al domicilio del debitore).

Cass. civ. n. 14314/2018

Il giudice adito con contrapposte domande di risoluzione per inadempimento del medesimo contratto, può accogliere l'una e rigettare l'altra, ma non anche respingere entrambe e dichiarare l'intervenuta risoluzione consensuale del rapporto, implicando ciò una violazione del principio della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato, mediante una regolamentazione del rapporto stesso difforme da quella perseguita dalle parti.

Cass. civ. n. 6675/2018

In presenza di reciproche domande di risoluzione contrattuale fondate da ciascuna parte sugli inadempimenti dell'altra, il giudice che accerti l'inesistenza di singoli specifici addebiti, non potendo pronunciare la risoluzione per colpa di taluna di esse, deve dare atto dell'impossibilità dell'esecuzione del contratto per effetto della scelta di entrambi i contraenti ex art. 1453, comma 2, c.c., e pronunciare comunque la risoluzione del contratto, con gli effetti di cui all'art. 1458 c.c., essendo le due contrapposte manifestazioni di volontà dirette all'identico scopo dello scioglimento del rapporto negoziale.

Cass. civ. n. 24947/2017

La volontà di risolvere un contratto per inadempimento non deve necessariamente risultare da una domanda espressamente proposta dalla parte in giudizio, ben potendo essere implicitamente contenuta in un'altra domanda, eccezione o richiesta, sia pure di diverso contenuto, che presupponga una domanda di risoluzione. (Nella specie, la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza di appello che aveva ritenuto non proposta la domanda di risoluzione per grave inadempimento dell'intermediario in quanto la parte aveva chiesto la restituzione del controvalore dell'investimento effettuato per il tramite dell'intermediario).

Cass. civ. n. 19914/2017

Dopo il fallimento del debitore, il creditore non può proporre domanda di risoluzione del contratto, neanche nell'ipotesi diretta ad accertare - con riferimento ad inadempimento anteriore - l'avveramento di una condizione risolutoria, a meno che la domanda non sia stata introdotta prima della dichiarazione di fallimento, atteso che la relativa pronuncia produrrebbe altrimenti effetti restitutori e risarcitori lesivi del principio di paritario soddisfacimento di tutti i creditori e di cristallizzazione delle loro posizioni giuridiche. Ne consegue che la domanda di risoluzione del contratto, quand'anche finalizzata ad ottenere il risarcimento del danno, è attratta dal foro fallimentare ex art. 24 l. fall., e può anche essere proposta incidentalmente in sede di opposizione allo stato passivo.

Cass. civ. n. 15641/2017

In materia di risoluzione del contratto per inadempimento, in caso di accoglimento della sola domanda di risoluzione, con rigetto di quella risarcitoria sul presupposto - errato in diritto - della non imputabilità dell’inadempimento, il giudice di appello innanzi al quale sia impugnato unicamente il diniego del richiesto risarcimento non può esaminare la statuizione relativa al difetto di imputabilità dell’inadempimento e, conseguentemente, non può rigettare l’appello sulla domanda risarcitoria condividendo l’erronea affermazione del giudice di prime cure, ma deve decidere rilevando l’esistenza di un giudicato interno sul carattere imputabile dell’inadempimento, trattandosi di presupposto della pronuncia di risoluzione del contratto.

Cass. civ. n. 7108/2017

La rinuncia ad esercitare un diritto può risultare da fatti incompatibili con la volontà di avvalersene. In tal caso, al fatto diverso dalla dichiarazione espressa di rinunzia ad un diritto può essere attribuito valore di rinuncia tacita al medesimo diritto ove tra il fatto posto in essere e la volontà di esercitare il diritto sussista un rapporto di contraddizione. Ne consegue che ove una parte, in presenza dell'inadempimento dell'altra a lei noto, abbia tenuto un comportamento incompatibile con la volontà di ottenere la risoluzione del contratto, deve ritenersi che essa abbia tacitamente rinunciato al diritto di domandarla, esprimendo la volontà che il contratto continui ad avere esecuzione. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha confermato la decisione impugnata, reiettiva della domanda di risoluzione del contratto di appalto proposta dall'impresa appaltatrice in seguito a condotte inadempienti imputabili all'ente appaltante, in quanto, successivamente al loro accertamento, le parti avevano concluso uno schema di atto contrattuale aggiuntivo).

Cass. civ. n. 18932/2016

Nei contratti con prestazioni corrispettive, il giudicato formatosi sulla risoluzione del contratto per inadempienze reciproche di pari gravità non consente l'attribuzione di un inadempimento colpevole, che costituisce l'elemento fondante del giudizio di responsabilità, ed impedisce, quindi, l'accoglimento della domanda di risarcimento dei danni che ciascuna delle parti abbia proposto nei confronti dell'altra.

Cass. civ. n. 15461/2016

In tema di risoluzione del contratto per inadempimento, la facoltà di "mutatio libelli" di cui all'art. 1453, comma 2, c.c. si estende alla domanda consequenziale e accessoria di restituzione, purché la stessa sia stata proposta contestualmente o, in ogni caso, nel medesimo grado di giudizio rispetto alla domanda risolutoria.

Cass. civ. n. 2984/2016

Il giudice adito con contrapposte domande di risoluzione per inadempimento del medesimo contratto, può accogliere l'una e rigettare l'altra, ma non anche respingere entrambe e dichiarare l'intervenuta risoluzione consensuale del rapporto, implicando ciò una violazione del principio della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato, mediante una regolamentazione del rapporto stesso difforme da quella perseguita dalle parti.

Cass. civ. n. 20408/2015

Nei contratti di durata, l'azione di risoluzione non è proponibile se la scadenza contrattuale, convenzionale o legale, sia già intervenuta, non potendosi provocare la cessazione di un rapporto già cessato; ove, peraltro, l'azione per la declaratoria della cessazione per intervenuta scadenza sia "sub iudice", la domanda di risoluzione è ancora proponibile in quanto condizionata all'esito negativo del giudizio di accertamento.

Cass. civ. n. 18320/2015

In tema di risoluzione del contratto, qualora siano dedotte reciproche inadempienze, la valutazione comparativa del giudice intesa ad accertare la violazione più grave, incensurabile in sede di legittimità se congruamente motivata, deve tenere conto non solo dell'elemento cronologico ma anche degli apporti di causalità e proporzionalità esistenti tra le prestazioni inadempiute e della loro incidenza sulla funzione del contratto, sicché, ove manchi la prova sulla causa effettiva e determinante della risoluzione, entrambe le domande vanno rigettate per insussistenza dei fatti costitutivi delle pretese azionate. (in applicazione dell'anzidetto principio, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata di rigetto delle contrapposte domande di risoluzione sulla valutata equivalenza degli inadempimenti del locatore e del conduttore di un locale adibito a bar-pizzeria con annessa sala giochi, il primo per non aver fornito locali idonei all'uso pattuito e aver omesso la fornitura di videogiochi, il secondo perché moroso nel pagamento dei canoni e per non aver stipulato una polizza fideiussoria ed assicurativa).

Cass. civ. n. 26907/2014

Quando i contraenti richiedano reciprocamente la risoluzione del contratto, ciascuno attribuendo all'altro la condotta inadempiente, il giudice deve comunque dichiarare la risoluzione del contratto, atteso che le due contrapposte manifestazioni di volontà, pur estranee ad un mutuo consenso negoziale risolutorio, in considerazione delle premesse contrastanti, sono tuttavia dirette all'identico scopo dello scioglimento del rapporto negoziale.

Cass. civ. n. 8510/2014

La parte che, ai sensi dell'art. 1453, secondo comma, cod. civ., chieda la risoluzione del contratto per inadempimento nel corso del giudizio dalla stessa promosso per ottenere l'adempimento, può domandare, contestualmente all'esercizio dello "ius variandi", oltre alla restituzione della prestazione eseguita, anche il risarcimento dei danni derivanti dalla cessazione degli effetti del regolamento negoziale.

Cass. civ. n. 4211/2014

Qualora il giudice d'appello rimetta al primo giudice la causa di risoluzione del contratto per inadempimento attesa la nullità della notifica della citazione introduttiva, la riassunzione del giudizio non fa retroagire alla data della citazione stessa il divieto di adempiere sancito dall'art. 1453, terzo comma, cod. civ., trattandosi di un effetto sostanziale della domanda, che presuppone la ricezione dell'atto da parte del destinatario, non rilevando, quindi, l'efficacia retroattiva della rinnovazione della notifica, prevista dall'art. 291 cod. proc. civ.

Cass. civ. n. 24564/2013

Il creditore, dopo aver promosso il giudizio per ottenere l'adempimento del contratto, può, in corso di causa, dichiarare che intende valersi della clausola risolutiva espressa, trattandosi di facoltà riconducibile allo "ius variandi" ammesso in generale dall'art. 1453, secondo comma, c.c..

Cass. civ. n. 20899/2013

Il divieto, sancito dall'art. 1453, secondo comma, cod. civ., di richiedere l'adempimento del contratto quando sia stata domandata la risoluzione dello stesso non preclude anche la possibilità di formulare la richiesta in questione in via meramente subordinata rispetto all'altra.

Cass. civ. n. 14648/2013

Nei contratti con prestazioni corrispettive non è consentito al giudice del merito, in caso di inadempienza reciproche, di pronunciare la soluzione, ai sensi dell'art. 1453 c.c., o di ritenere la legittimità del rifiuto di adempire, a norma dell'art. 1460 c.c., in favore di entrambe le parti, in quanto la valutazione della colpa dell'inadempimento ha carattere unitario, dovendo lo stesso addebitarsi esclusivamente a quel contraente, che con il proprio comportamento prevalente, abbia alterato il nesso di interdipendenza che lega le obbligazioni assunte mediante il contratto e perciò dato causa al giustificato inadempimento dell'altra parte.

Cass. civ. n. 870/2012

Il secondo comma dell'art. 1453 c.c. deroga alle norme processuali che vietano la "mutatio libelli" nel corso del processo, nel senso di consentire la sostituzione della domanda di adempimento del contratto con quella di risoluzione per inadempimento, ma tale deroga non si estende alla domanda ulteriore di risarcimento del danno consequenziale a quelle di adempimento e risoluzione, trattandosi di domanda del tutto diversa per "petitum" e "causa petendi" rispetto a quella originaria. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata che aveva statuito sulla domanda risarcitoria, per danni relativi al pagamento di oneri condominiali straordinari, avanzata dagli attori unitamente a quella di risoluzione del contratto di compravendita immobiliare proposta nel corso di un giudizio inizialmente intentato per ottenere il trasferimento dell'immobile ex art. 2932 c.c., con connesso risarcimento da ritardo nel conseguimento del bene stesso).

Cass. civ. n. 28647/2011

La formale costituzione in mora del debitore è prescritta dalla legge per determinati effetti, tra cui preminente è quello dell'attribuzione al debitore medesimo del rischio della sopravvenuta impossibilità della prestazione per causa a lui non imputabile, ma non già al fine della risoluzione del contratto per inadempimento, essendo sufficiente per ciò il fatto obiettivo dell'inadempimento di non scarsa importanza.

Cass. civ. n. 20516/2011

Il valore abdicativo della domanda di risoluzione del contratto rispetto alla domanda di adempimento, ai sensi dell'art. 1453, secondo comma, c.c. riguarda la sola parte del rapporto per la quale è logicamente configurabile una scelta su un piano di alternatività tra risoluzione e adempimento, essendo i contraenti ancora su una posizione di parità, a fronte di prestazioni e controprestazioni ineseguite, mentre non riguarda quella parte del rapporto che rimane insensibile alla vicenda risolutiva in quanto vi è stato un adempimento, sia pure da parte di uno dei contraenti.

Cass. civ. n. 19879/2011

Ai fini della valutazione della sussistenza dell'inadempimento nei contratti sinallagmatici, il giudice - alla luce dei criteri legali e, primo fra tutti, quello dell'esecuzione del contratto secondo buona fede (art. 1375 c.c.), che impone di evitare il pregiudizio dell'interesse della controparte alla corretta esecuzione dell'accordo ed al conseguimento della relativa prestazione, non potendosi invocare a giustificazione l'altrui errore, ove agevolmente rilevabile e rimediabile senza dover sopportare sforzi o costi sproporzionati al risultato - deve tener conto di tutte le circostanze rilevanti e, segnatamente, delle eventuali negligenze di entrambe le parti, l'una nei confronti dell'altra, non essendo sufficiente che abbia riguardo alla condotta, ancorché negligente, di una sola di esse. (Nella specie, la S.C. ha cassato per vizio di motivazione la sentenza di merito che aveva ritenuto giustificato l'inadempimento del conduttore, per il mancato pagamento di quattro annualità dei canoni di locazione, sul presupposto che il locatore non lo aveva informato circa le mutate modalità di adempimento, che non erano più quelle della diretta trattenuta sullo stipendio dell'importo dei canoni, come inizialmente convenuto, senza, tuttavia, valutare in concreto se per il conduttore stesso fosse comprensibile, in base alla lettura delle buste paga, che quella specifica trattenuta a titolo di canone locatizio era venuta meno).

Cass. civ. n. 16317/2011

Qualora un contraente comunichi la dichiarazione di recesso con contestuale richiesta di restituzione della somma versata a titolo di anticipo (o caparra) e di rimborso delle spese sostenute ed il contraente asseritamente inadempiente comunichi anch'esso la volontà di recedere - pur attribuendo l'inadempimento all'altra parte - e la disponibilità alla restituzione delle somme richieste, si verifica la risoluzione del contratto, atteso che le due dichiarazioni di recesso - pur non determinando un accordo negoziale risolutorio, come nell'ipotesi del mutuo consenso, in quanto muovono da premesse contrastanti - sono tuttavia dirette all'identico scopo dello scioglimento del contratto e della restituzione delle somme versate, con la conseguenza che resta preclusa la domanda di adempimento successivamente proposta da uno dei contraenti

Cass. civ. n. 15659/2011

In tema di prova dell'inadempimento di una obbligazione, il creditore che agisca per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per l'adempimento deve soltanto provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell'inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell'onere della prova del fatto estintivo dell'altrui pretesa, costituito dall'avvenuto adempimento, ed eguale criterio di riparto dell'onere della prova deve ritenersi applicabile al caso in cui il debitore convenuto per l'adempimento, la risoluzione o il risarcimento del danno si avvalga dell'eccezione di inadempimento ai sensi dell'art. 1460 cod. civ. (risultando, in tal caso, invertiti i ruoli delle parti in lite, poiché il debitore eccipiente si limiterà ad allegare l'altrui inadempimento, ed il creditore agente dovrà dimostrare il proprio adempimento, ovvero la non ancora intervenuta scadenza dell'obbligazione). Anche nel caso in cui sia dedotto non l'inadempimento dell'obbligazione, ma il suo inesatto adempimento, al creditore istante sarà sufficiente la mera allegazione dell'inesattezza dell'adempimento, gravando ancora una volta sul debitore l'onere di dimostrare l'avvenuto esatto adempimento, perché l'eccezione si fonda sull'allegazione dell'inadempimento di un'obbligazione, al quale il debitore di quest'ultima dovrà contrapporre la prova del fatto estintivo costituito dall'esatto adempimento.

Cass. civ. n. 15290/2011

In materia contrattuale, il diritto di scelta tra domanda di adempimento e domanda di risoluzione attribuito, dal primo comma dell'art. 1453 cod. civ., alla parte adempiente non si consuma all'esito della pronunzia di condanna del debitore all'esecuzione della prestazione. Ne consegue che, ove la parte inadempiente sia stata condannata all'adempimento con sentenza passata in giudicato e l'inadempimento permanga, l'altra parte può chiedere la risoluzione del contratto, senza che si possa configurare un contrasto di giudicati tra loro incompatibili.

Cass. civ. n. 12238/2011

Nei contratti a prestazioni corrispettive è consentito sostituire, ferma restando l'identità dei fatti costitutivi, la domanda di adempimento coattivo del contratto con quella di risoluzione per inadempimento, anche in grado d'appello, derogando al divieto di "mutatio libelli" contenuto nell'art. 345 c.p.c. e anche nel giudizio di rinvio. Ne consegue che la parte appellata che intenda procedere al mutamento della domanda può esercitare tale facoltà anche nella comparsa di risposta senza dover proporre, nei termini e nelle forme previste dalla legge, impugnazione incidentale.

Cass. civ. n. 8505/2011

Ove un contratto preliminare abbia ad oggetto la compravendita di un bene appartenente a più proprietari, è possibile che il medesimo non costituisca un "unicum" inscindibile, perché ciascuno dei comproprietari può vendere la propria quota a prezzo diverso e stabilendo date diverse per la stipulazione del contratto definitivo; ne consegue, in tal caso, che, verificatosi l'inadempimento del promissario acquirente, ciascun promittente venditore può legittimamente chiedere la risoluzione della singola promessa di vendita contenuta in un documento più complesso, dovendosi ritenere ammissibile la risoluzione parziale.

Cass. civ. n. 6492/2011

La circostanza che una delle parti del contratto, nell'esecuzione degli obblighi assunti, abbia violato norme imperative, se può: comportarne la nullità, tuttavia non ne giustifica, di per sé, la risoluzione ai sensi dell'art. 1453 c.c., la quale può essere pronunciata soltanto ove si accerti che la suddetta violazione abbia concretamente e decisivamente inciso sull'interesse della controparte e, di conseguenza, sul sinallagma contrattuale. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza della corte territoriale che aveva respinto l'impugnazione di nullità di un lodo arbitrale anche in riferimento alla doglianza del rigetto della domanda di risoluzione del contratto di appalto, proposta dal committente, per aver gli arbitri escluso che integrasse grave inadempimento dell'appaltatore la violazione da parte di quest'ultimo delle norme sulla regolare assunzione dei lavoratori).

Cass. civ. n. 26152/2010

Il divieto, posto dall'articolo 1453 c.c., di chiedere l'adempimento, una volta domandata la risoluzione del contratto, viene meno e non ha più ragion d'essere quando la domanda di risoluzione venga rigettata, rimanendo in vita in tal caso il vincolo contrattuale e risorgendo l'interesse alla esecuzione della prestazione, con inizio del nuovo termine prescrizionale del diritto di chiedere l'adempimento.

Cass. civ. n. 13248/2010

Nelle locazioni di immobili ad uso diverso dall'abitazione, alle quali non si applica la disciplina di cui all'art. 55 della legge 27 luglio 1978, n. 392, l'offerta o il pagamento del canone (che, se effettuati dopo l'intimazione di sfratto, non consentono l'emissione, ai sensi dell'art. 665 c.p.c., del provvedimento interinale di rilascio con riserva delle eccezioni, per l'insussistenza della persistente morosità di cui all'art. 663, terzo comma, c.p.c.), nel giudizio susseguente a cognizione piena, non comportano l'inoperatività della clausola risolutiva espressa, in quanto, ai sensi dell'art. 1453, terzo comma, c.c., dalla data della domanda - che è quella già avanzata ex art. 657 c.p.c. con l'intimazione di sfratto, introduttiva della causa di risoluzione del contratto - il conduttore non può più adempiere.

Cass. civ. n. 13003/2010

La facoltà, di cui all'art. 1453, secondo comma, c.c., di poter mutare nel corso del giudizio di primo grado, nonché in appello, e persino in sede di rinvio la domanda di adempimento in quella di risoluzione in deroga al divieto di "mutatio libelli" sancito dagli artt. 183, 184 e 345 c.p.c., sempreché si resti nell'ambito dei fatti posti a base della inadempienza originariamente dedotta, senza introdurre un nuovo tema di indagine, comporta che, in tema di contratto preliminare di compravendita, qualora sia sostituita la domanda di adempimento con quella di risoluzione, possa essere chiesta la restituzione della somma versata a titolo di prezzo, quale domanda consequenziale a quella di risoluzione, implicando l'accoglimento di questa, per l'effetto retroattivo espressamente previsto dall'art. 1458 c.c., l'obbligo di restituzione della prestazione ricevuta, onde di tale domanda il giudice può decidere anche se su di essa non vi sia stata accettazione del contraddittorio.

Cass. civ. n. 9504/2010

Qualora le parti, nell'ambito dell'autonomia privata, abbiano previsto l'inadempimento di una di esse alle obbligazioni contrattuali quale condizione risolutiva, una volta verificatosi tale inadempimento, lo stesso non può essere invocato dalla controparte quale illecito contrattuale e fonte di obbligazione risarcitoria ai sensi dell'art. 1223 cod. civ., trattandosi del legittimo esercizio di una potestà convenzionalmente attribuita, in quanto costituente l'evento espressamente dedotto in condizione risolutiva potestativa per concorde volontà dei contraenti.

Cass. civ. n. 20623/2009

Nella cessione di cubatura si è in presenza di una fattispecie a formazione progressiva in cui confluiscono, sul piano dei presupposti, dichiarazioni private nel contesto di un procedimento di carattere amministrativo; a determinare il trasferimento di cubatura, tra le parti e nei confronti dei terzi, è esclusivamente il provvedimento concessorio, discrezionale e non vincolato, che, a seguito della rinuncia del cedente, può essere emanato dall'ente pubblico a favore del cessionario, non essendo configurabile tra le parti un contratto traslativo. Ne consegue che, qualora il cedente, con la stipulazione dell'atto unilaterale di vincolo avente come destinatario immediato la P.A., si sia prestato al compimento di tutti gli atti necessari per far ottenere al cessionario la concessione per una volumetria maggiore, il mancato rilascio della concessione edilizia maggiorata determina l'inefficacia del negozio concluso dai proprietari dei fondi limitrofi e non già la sua risoluzione per inadempimento del cedente.

Cass. civ. n. 18515/2009

L'azione di risoluzione del contratto per inadempimento e la relativa azione risarcitoria hanno differenti presupposti applicativi, perché la prima esige che l'inadempimento di una delle parti non sia di scarsa importanza, avuto riguardo all'interesse dell'altra, mentre l'azione risarcitoria presuppone che l'inesatta esecuzione della prestazione abbia prodotto al creditore un danno; ne consegue che, in tema di mediazione, la condanna del mediatore al risarcimento del danno nei confronti di una delle parti per inadempimento del proprio dovere di informazione non implica automaticamente che il contratto debba essere risolto e che il mediatore perda il diritto alla provvigione. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che - dopo aver condannato il mediatore al risarcimento del danno nei confronti del cliente per non averlo informato dell'esistenza di una locazione ultranovennale, regolarmente trascritta, sull'immobile che questi aveva poi acquistato - aveva nel contempo stabilito che al mediatore spettasse il pagamento della provvigione, poiché l'avvenuta conclusione del contratto dimostrava la scarsa importanza dell'inadempimento).

Cass. civ. n. 13874/2009

Non è accoglibile la domanda di risoluzione per inadempimento di un contratto preliminare relativo alla compravendita di un, immobile parzialmente abusivo per il quale il promittente venditore abbia presentato legittimamente la domanda di sanatoria ai sensi dell'art. 35 della legge 28 febbraio 1985, n. 47 (provvedendo alla rituale oblazione) in un termine antecedente a quello di scadenza per la stipula del contratto definitivo, sulla quale si sia poi venuto a formare il silenzio-assenso della P.A., ai sensi dell'art. 40 della legge stessa, anteriormente alla proposizione della domanda giudiziale di risoluzione, non sussistendo ostacoli alla stipula del contratto definitivo in conseguenza dell'equiparazione prevista dal citato art. 40, secondo comma, tra l'intervenuto silenzio-assenso sulla richiesta di concessione in sanatoria e il rilascio della concessione stessa, ai fini della regolarità della stipula dell'atto definitivo.

Cass. civ. n. 26325/2008

La facoltà di mutare la domanda di adempimento in quella di risoluzione, consentita dall'art. 1453, comma secondo, c.c. in deroga al divieto della mutatio libelli si estende anche alla conseguente domanda di risarcimento del danno, nonché a quella di restituzione del prezzo, essendo tali domande accessorie alla domanda sia di risoluzione che di adempimento.

Cass. civ. n. 10631/2007

La domanda di risoluzione del contratto preliminare di vendita di un suolo ad un Comune, per inadempimento consistito nell'abusiva occupazione del suolo e costruzione di un'opera, e di risarcimento del danno, comprensivo dell'occupazione del terreno, e la domanda subordinata di esecuzione del contratto, attengono ad una vicenda contrattuale di diritto comune, assolutamente diversa, per causa petendi e petitum dalla domanda di risarcimento per occupazione appropriativa, costituente istituto del diritto pubblico, e presupponente lo svolgimento di una procedura ablatoria, sicché non può il giudice esimersi dall'accertare l'inadempimento, pur costituito dall'indebita trasformazione del fondo, e liquidare i danni sofferti dal proprietario, rimasto tale.

Cass. civ. n. 9941/2006

La regola posta dall'art. 1453, secondo comma, c.c., in forza della quale la parte può sostituire la domanda di adempimento del contratto con quella di risoluzione, trova applicazione anche nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, comportando la possibilità che il creditore che abbia chiesto in via monitoria la prestazione pattuita domandi, nel successivo giudizio di opposizione, la risoluzione del contratto per inadempimento.

Cass. civ. n. 5100/2006

La domanda di risarcimento dei danni per inadempimento contrattuale può essere proposta congiuntamente o separatamente da quella di risoluzione, poiché l'art. 1453 c.c., facendo salvo, in ogni caso, il diritto al risarcimento, esclude che la relativa azione presupponga il necessario esperimento dell'azione di risoluzione, che costituisce un rimedio a tutela dell'equilibrio sinallagmatico del contratto e non ha funzione accertativa dell'inadempimento, il quale sussiste o meno - con tutte le conseguenze sul piano del diritto al risarcimento del creditore della prestazione inadempiuta - indipendentemente dall'eventuale pronuncia di risoluzione. Ne consegue che, ai sensi dell'art. 2935 c.c., il termine di prescrizione, in relazione al risarcimento di ogni danno da inadempimento, inizia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere, indipendentemente dalla data della pronuncia risolutiva.

Cass. civ. n. 10927/2005

L'art. 1453 c.c., derogando ai principi di ordine processuale che vietano la mutatio libelli in corso di causa, consente di sostituire in qualsiasi fase e grado del giudizio alla originaria domanda di adempimento in forma specifica quella di risoluzione, ma tale facoltà è attribuita solamente alla parte che abbia chiesto l'adempimento e non anche a quella che in giudizio ad essa si opponga, la quale è pertanto tenuta a spiegare tempestivamente eventuale domanda di risoluzione.

Cass. civ. n. 9926/2005

La stipulazione di un contratto a prestazioni corrispettive e l'inadempimento di uno dei contraenti sono, ai sensi dell'art. 1453 c.c., i fatti costitutivi del diritto dell'altro contraente ad ottenere la risoluzione del contratto, ovvero l'adempimento, ed in ogni caso il risarcimento del danno; questi diritti, benché abbiano in comune gli stessi fatti costitutivi (l'obbligazione e l'inadempimento), sono tuttavia diversi, in quanto permettono al titolare di conseguire utilità differenti, e diverse sono anche le azioni proponibili per ottenerne il soddisfacimento, con la conseguenza che la rinuncia all'una non equivale a rinuncia alle altre e, pertanto, in riferimento al contratto di compravendita di beni mobili, la rinuncia da parte del compratore all'azione di risoluzione del contratto non impedisce l'esperimento dell'azione di risarcimento dei danni per i vizi della cosa.

Cass. civ. n. 6733/2005

La categoria dell'accertamento costitutivo in via incidentale si può considerare categoria generale, in quanto le norme degli artt. 1442 quarto comma, e 1449, secondo comma, c.c., che espressamente la prevedono, sono suscettibili di applicazione analogica, non potendo qualificarsi come norme eccezionali. Ne consegue che, in tema di azione costitutiva non necessaria (quale deve ritenersi quella avanzata ai sensi dell'art. 1453 c.c., in relazione alla quale l'effetto giuridico della risoluzione del rapporto negoziale non necessariamente deve verificarsi per via giudiziale, potendo trovare realizzazione anche attraverso un accordo di scioglimento del contratto), l'effetto giuridico della risolubilità del contratto per inadempimento può essere invocato anche in via di eccezione dalla parte non inadempiente che sia stata convenuta in giudizio dall'altra per la tutela di un qualche effetto giuridico che debba ricollegarsi alla vigenza attuale o pregressa del contratto, realizzandosi in tal modo un fenomeno per cui l'accertamento incidentale della risolubilità per via di eccezione è funzionale alla elisione dell'effetto giuridico del negozio (principio affermato dalla S.C. in relazione ad un giudizio di opposizione a precetto, nel quale l'opponente, per paralizzare gli effetti del titolo esecutivo giudiziale azionato nei suoi confronti, aveva invocato una intervenuta transazione e l'opposto aveva dedotto in appello in via di azione riconvenzionale la risolubilità della transazione non avente carattere novativo ed il giudice d'appello aveva dichiarato inammissibile, perché nuova, la riconvenzionale e non aveva esaminato la risolubilità sub specie di eccezione, come tale ammissibile, trattandosi di processo pendente al 30 aprile 1995 e, quindi, soggetto all'art. 345 c.p.c. nel testo previgente alla riforma di cui alla legge n. 353 del 1990). La categoria dell'accertamento costitutivo in via incidentale si può considerare categoria generale, in quanto le norme degli artt. 1442 quarto comma, e 1449, secondo comma, c.c., che espressamente la prevedono, sono suscettibili di applicazione analogica, non potendo qualificarsi come norme eccezionali. Ne consegue che, in tema di azione costitutiva non necessaria (quale deve ritenersi quella avanzata ai sensi dell'art. 1453 c.c., in relazione alla quale l'effetto giuridico della risoluzione del rapporto negoziale non necessariamente deve verificarsi per via giudiziale, potendo trovare realizzazione anche attraverso un accordo di scioglimento del contratto), l'effetto giuridico della risolubilità del contratto per inadempimento può essere invocato anche in via di eccezione dalla parte non inadempiente che sia stata convenuta in giudizio dall'altra per la tutela di un qualche effetto giuridico che debba ricollegarsi alla vigenza attuale o pregressa del contratto, realizzandosi in tal modo un fenomeno per cui l'accertamento incidentale della risolubilità per via di eccezione è funzionale alla elisione dell'effetto giuridico del negozio (principio affermato dalla S.C. in relazione ad un giudizio di opposizione a precetto, nel quale l'opponente, per paralizzare gli effetti del titolo esecutivo giudiziale azionato nei suoi confronti, aveva invocato una intervenuta transazione e l'opposto aveva dedotto in appello in via di azione riconvenzionale la risolubilità della transazione - non avente carattere novativo - ed il giudice d'appello aveva dichiarato inammissibile, perché nuova, la riconvenzionale e non aveva esaminato la risolubilità sub specie di eccezione, come tale ammissibile, trattandosi di processo pendente al 30 aprile 1995 e, quindi, soggetto all'art. 345 c.p.c. nel testo previgente alla riforma di cui alla legge n. 353 del 1990).

Cass. civ. n. 1664/2005

Nel caso di proposizione congiunta della domanda di risoluzione del contratto per inadempimento e di risarcimento dei danni il giudice è tenuto, in ogni caso, a pronunciare sulla prima domanda e, solo se la rigetta, può ritenersi esonerato dal pronunciare espressamente sull'altra, dovendosi la medesima considerare implicitamente rigettata.

Cass. civ. n. 1077/2005

Il principio dell'inammissibilità della domanda di adempimento proposta successivamente a quella di risoluzione (art. 1453 c.c.) deve ritenersi applicabile alla duplice condizione: 1) che la domanda di risoluzione sia stata proposta senza riserve, in quanto, alla luce del principio di buona fede oggettiva, il comportamento del contraente che chieda incondizionatamente la risoluzione è valutato dalla legge come manifestazione di carenza di interesse al conseguimento della prestazione tardiva — sicché l'esercizio dello ius variandi deve, per converso, ritenersi consentito quando la domanda di risoluzione e quella di adempimento siano proposte nello stesso giudizio in via subordinata; 2) che esista un interesse attuale dell'istante alla declaratoria di risoluzione del rapporto negoziale — di talché, quando tale interesse venga meno per essere stata la domanda di risoluzione rigettata o dichiarata inammissibile, la preclusione de qua non opera, essendo venuta meno la ragione del divieto di cui al ricordato art. 1453 c.c.

Cass. civ. n. 21179/2004

In tema di contratto preliminare di vendita il promissario acquirente il quale ignori che il bene, all'atto del preliminare, appartenga in tutto o in parte ad altri, non può agire per la risoluzione prima della scadenza del termine per la stipula del contratto definitivo in quanto il promittente venditore fino a tale momento può adempiere all'obbligazione di fargli acquistare la proprietà del bene, o acquistandola egli stesso dal terzo proprietario o inducendo quest'ultimo a trasferirgliela.

Cass. civ. n. 13079/2004

Nei contratti a prestazione continuata o periodica, la domanda di risoluzione del contratto per inadempimento è alternativa alla domanda di accertamento dell'esercizio del recesso, atteso che, mirando essa a una pronuncia di carattere costitutivo che faccia risalire la risoluzione al momento dell'inadempimento, il suo accoglimento preclude l'esame delle altre cause di scioglimento del medesimo rapporto contrattuale; le due domande non sono tuttavia incompatibili, poiché l'attore può proporle entrambe nello stesso giudizio, di guisa che il giudice, in caso di rigetto della prima, dovrà esaminare se sia fondata la domanda di declaratoria di legittimo esercizio del diritto di recesso, potendo inoltre in detta ipotesi essere fatte valere, indipendentemente dalla gravità dell'inadempimento, anche le ragioni di danno — relative al rapporto — sorte anteriormente ma non quelle conseguenti all'estinzione del contratto per recesso, poiché queste ultime non trovano causa nell'inadempimento del debitore. (Fattispecie relativa al contratto atipico di concessione di vendita). 

Cass. civ. n. 11967/2004

In un contratto a prestazioni corrispettive, qualora la rinunzia all'azione di risoluzione venga ravvisata in un comportamento di effettiva esecuzione del contratto, posto in essere dal rinunziante ed accettato dall'altra parte, non assume rilievo la regola prevista dall'art. 1453, terzo comma, c.c., secondo cui il debitore inadempiente non può più adempiere dopo che sia stata chiesta la risoluzione, poiché si tratta di norma a carattere dispositivo. Pertanto, nulla vieta che il creditore, nell'ambito delle facoltà connesse all'esercizio dell'autonomia privata, possa accettare l'adempimento della prestazione, successivo alla domanda di risoluzione, rinunciando agli effetti della stessa, anche quando questa si sia già verificata per una delle cause previste dalla legge (artt. 1454, 1455, 1457 c.c.), o per effetto di pronuncia giudiziale (art. 1453 c.c.).

Cass. civ. n. 10490/2004

In caso di proposizione della domanda di risoluzione del contratto per inadempimento prima che si verifichi l'esigibilità della prestazione, se questa diviene esigibile nel corso del giudizio e il convenuto non adempia, egli non si sottrae ad una pronuncia di risoluzione, essendo l'inadempimento una condizione dell'azione che può maturare in corso di causa e fino al momento della sentenza.

Cass. civ. n. 6450/2004

L'esecutività della sentenza del tribunale amministrativo regionale di annullamento del provvedimento presupposto del contratto ad evidenza pubblica già stipulato (nella specie, di nomina a direttore generale di ASL) determina immediatamente l'inefficacia dell'atto negoziale, con la conseguenza che, riformata in appello la sentenza di primo grado, non è configurabile, in relazione alla mancata esecuzione del contratto nelle more, un inadempimento imputabile all'ente pubblico (che è parte vittoriosa nel giudizio amministrativo), fonte di danno risarcibile per il contraente privato, dovendosi il pregiudizio ricondurre all'esercizio del potere giurisdizionale, non suscettibile di ristoro fuori delle ipotesi specificamente contemplate dall'ordinamento.

Cass. civ. n. 6161/2004

Il secondo comma dell'art. 1453 c.c. deroga alle norme processuali che vietano la mutatio libelli nel corso del processo nel senso di consentire la sostituzione della domanda di adempimento del contratto con quella di risoluzione per inadempimento, non già anche con quella di risarcimento del danno (fatto "salvo in ogni caso" dal primo comma), la quale integra un'azione del tutto diversa per petitum dalle altre due, con la conseguenza che urta contro tale divieto, e quindi è inammissibile, la domanda di risarcitoria introdotta in corso di causa, in luogo di quella (iniziale) di adempimento. (Fattispecie relativa alla domanda di alcuni piloti di declaratoria della costituzione del rapporto dalla data di ammissione al corso di addestramento, ovvero da quella di sei mesi da essa, e al pagamento delle connesse differenze retributive, mutata in corso di causa nella richiesta del risarcimento del danno per l'incidenza della retrodatazione della costituzione del rapporto sull'anzianità di servizio).

Cass. civ. n. 5964/2004

In tema di inadempimento contrattuale, l'eccezione di improponibilità della domanda in tema di adempimento ai sensi dell'art. 1453 c.c. (per essere stata in precedenza chiesta la risoluzione del contratto), essendo fondata su una norma posta nell'esclusivo interesse dell'altra parte contraente, può essere sollevata solo da quest'ultima e nel rispetto delle previste preclusioni, dovendo pertanto escludersi che possa essere rilevata d'ufficio ovvero dedotta per la prima volta in sede di legittimità.

Cass. civ. n. 4415/2004

Nell'ambito del contratto preliminare, qualora la promessa di vendita sia sottoposta alla condizione sospensiva del rilascio di un benestare da parte di una autorità amministrativa, finché l'evento dedotto in condizione non si verifica l'obbligazione di trasferire la proprietà del bene rimane sospesa, ed il relativo lasso di tempo non può essere considerato ritardo imputabile ai fini del giudizio sulla sussistenza o dell'inadempimento e sulla gravità. (Nel caso di specie, la società autostrade aveva promesso in vendita alcuni terreni ma prima della conclusione del contratto definitivo era necessario il placet da parte dell'Anas).

Cass. civ. n. 3378/2004

Anche quando la parte convenuta in giudizio per la risoluzione di un contratto per inadempimento risulti, con riferimento all'epoca della domanda giudiziale, non essere adempiente per inesigibilità, a quella data, della prestazione dedotta in giudizio, la sopravvenuta esigibilità di questa in corso di causa, senza che il convenuto l'adempia, comporta la rilevanza della sopravvenuta inadempienza ai fini della pronuncia di risoluzione, costituendo l'inadempimento, agli effetti della risoluzione del contratto, una condizione dell'azione che, in quanto tale, è sufficiente che sussista al momento della sentenza.

Cass. civ. n. 2992/2004

Deve escludersi che costituisca requisito essenziale per l'accoglimento della domanda di risoluzione contrattuale per inadempimento, a prescindere dalla difesa del convenuto, l'aver l'attore eseguito la prestazione a suo carico, o l'aver offerto l'esecuzione della prestazione, in quanto tale requisito non è previsto dall'art. 1453 c.c.; soltanto ove fi convenuto sollevi eccezione di inadempimento o proponga a sua volta domanda di risoluzione contrattuale per inadempimento della controparte, ampliando il thema decidendum, occorrerà accertare, nell'ambito di una valutazione comparativa degli inadempimenti reciprocamente dedotti dalle parti, s e colui che ha introdotto in giudizio la domanda di risoluzione ex art. 1453 c.c. sia a sua volta inadempiente rispetto agli obblighi contrattualmente assunti.

Nel valutare la sussistenza o meno di un inadempimento contrattuale, occorre interpretare le clausole contrattuali e valutare il comportamento delle parti nell'esecuzione del contratto anche in relazione al rispetto da parte dei contraenti dei doveri di correttezza e buona fede. (Nel caso di specie, in particolare, la S.C. ha ritenuto che la corte di merito non avesse adeguatamente indagato se l'obbligo della alienante di procurare la cancellazione dei vincoli gravanti sull'immobile, previsto nel contratto come coincidente al più tardi con la data del rogito notarile, avrebbe dovuto in realtà essere adempiuto in epoca precedente, e comunque in tempo utile per consentire l'eventuale concessione ed erogazione del mutuo fondiario in favore dei promittenti acquirenti, essendo tale concessione subordinata alla possibilità di iscrivere garanzia ipotecaria sul predetto bene).

Cass. civ. n. 12644/2003

Ove il ricorrente proponga mia domanda di risarcimento del danno per inadempimento contrattuale e alleghi fatti rilevanti ai fini sia di una pronuncia dichiarativa dell'avvenuta risoluzione automatica ai sensi dell'art. 1454 c.c., sia di una pronuncia costitutiva di risoluzione del contratto, ai sensi dell'art. 1453 c.c., la menzione esclusiva, nel ricorso introduttivo del giudizio, dell'art. 1454 c.c. non preclude al giudice il potere-dovere di delibare la domanda ex art. 1453 c.c., trattandosi di domanda minore contenuta in quella più ampia ex art. 1454 c.c.

Cass. civ. n. 7829/2003

In tema di risoluzione del contratto per inadempimento, qualora la parte adempiente abbia proposto domanda di risoluzione e di risarcimento dei danni da inadempimento, non limitandosi a chiedere la condanna generica, il danno può essere liquidato esclusivamente se la parte che si assume danneggiata fornisca la prova della sua effettiva esistenza.

Cass. civ. n. 5313/2003

In tema di contratti, le domande giudiziali di annullamento e di risoluzione possono essere proposte in via alternativa perché, sebbene entrambe aventi ad oggetto lo scioglimento di un vincolo giuridico, sono affidate ad azioni distinte e basate su presupposti diversi, tuttavia non possono essere considerate tra loro incompatibili in base al principio logico di non contraddizione. Ne consegue che la scelta tra l'azione di annullamento e quella di risoluzione di un contratto o anche del loro esercizio alternativo nel processo rientra nel potere discrezionale della parte.

Cass. civ. n. 940/2003

Il divieto di premi in danaro in concorsi banditi da privati, posto dall'art. 51 del R.D.L. 19 ottobre 1938, n. 1933, convertito in legge 5 giugno 1939, n. 973, opera soltanto sul piano della necessaria autorizzazione amministrativa e non svolge alcuna influenza sul rapporto fra il soggetto che ha bandito il concorso ed il soggetto vincitore, sicché a tale rapporto si applicano tutte le norme ed i principi in tema di obbligazioni e, in particolare, quelli in tema di risarcimento del danno in forma pecuniaria, in caso di inadempimento dell'obbligazione di consegna, a titolo di premio, di beni mobili determinati. La reintegrazione del diritto leso mediante il risarcimento in danaro rappresenta infatti, alla luce dei principi posti dall'art. 24 Cost., un naturale e necessario mezzo per assicurare, in via giurisdizionale, la tutela dell'interesse sostanziale che non ha ottenuto, o non può ottenere, soddisfacimento attraverso la prestazione cui il soggetto si era originariamente obbligato, di talché la sua negazione si traduce nell'esclusione della pienezza della tutela del diritto, la quale va assicurata non solo con gli strumenti processuali, ma anche, e soprattutto, sul piano sostanziale.

Cass. civ. n. 16291/2002

Ai fini della risoluzione del contratto, l'art. 1453 c.c. richiede chela responsabilità del debitore per il ritardo nell'adempimento sia imputabile a dolo o colpa, non essendo sufficiente che lo stesso sia stato diffidato ad adempiere ex art. 1454 c.c. mediante richiesta fatta per iscritto dal creditore. Ne consegue che, ove ricorrano circostanze obiettivamente apprezzabili, idonee a far escludere l'elemento psicologico, l'inadempimento deve essere ritenuto incolpevole e non può pronunziarsi la risoluzione del contratto.

Cass. civ. n. 14744/2002

In caso di inadempimento del contratto, la parte adempiente può chiedere, oltre alla risoluzione dello stesso, anche il risarcimento del danno, fermo rimanendo che, se lo scioglimento anticipato del rapporto è di per sé un evento potenzialmente generatore di danno, occorre, tuttavia, che la parte adempiente ne provi l'esistenza. Peraltro, le spese erogate in adempimento di un obbligo contrattuale non possono rappresentare, in caso di risoluzione, un danno, trovando la loro causa non già nell'inadempimento, ma unicamente nel contratto, salvo il caso in cui dette spese, per effetto dell'inadempimento di controparte e della risoluzione, si rivelassero, in tutto o in parte, inutili e non suscettibili di un qualunque proficuo risultato.

Cass. civ. n. 13925/2002

Nell'azione di adempimento, qualora il creditore eccepisca non un inesatto adempimento ma un integrale inadempimento, è tenuto soltanto a provare l'esistenza del titolo, mentre incombe sul debitore l'onere di fornire la prova di avere adempiuto e, quindi, anche la corrispondenza dell'oggetto della prestazione resa, a quello pattuito.

Cass. civ. n. 27/2002

Nei contratti con prestazioni corrispettive non è consentito al giudice del merito di pronunciare la risoluzione del contratto ai sensi dell'art. 1453 c.c. odi ritenerne la legittimità del rifiuto di adempiere a norma dell'art. 1460 stesso codice, in favore di entrambe le parti, perché la valutazione della colpa nell'inadempimento ha carattere unitario e l'inadempimento deve essere addebitato esclusivamente a quel contraente che, con il proprio comportamento colpevole prevalente, abbia alterato il nesso di reciprocità che lega le obbligazioni assunte con il contratto, dando causa al giustificato inadempimento dell'altra parte.

Cass. civ. n. 13533/2001

In tema di prova dell'inadempimento di una obbligazione, il creditore che agisca per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per l'inadempimento deve soltanto provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell'inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell'onere della prova del fatto estintivo dell'altrui pretesa, costituito dall'avvenuto adempimento, ed eguale criterio di riparto dell'onere della prova deve ritenersi applicabile al caso in cui il debitore convenuto per l'adempimento, la risoluzione o il risarcimento del danno si avvalga dell'eccezione di inadempimento ex art. 1460 (risultando, in tal caso, invertiti i ruoli delle parti in lite, poiché il debitore eccipiente si limiterà ad allegare l'altrui inadempimento, ed il creditore agente dovrà dimostrare il proprio adempimento, ovvero la non ancora intervenuta scadenza dell'obbligazione). Anche nel caso in cui sia dedotto non l'inadempimento dell'obbligazione, ma il suo inesatto adempimento, al creditore istante sarà sufficiente la mera allegazione dell'inesattezza dell'adempimento (per violazione di doveri accessori, come quello di informazione, ovvero per mancata osservanza dell'obbligo di diligenza, o per difformità quantitative o qualitative dei beni), gravando ancora una volta sul debitore l'onere di dimostrare l'avvenuto, esatto adempimento. (Nell'affermare il diritto di principio che precede, le SS.UU. della Corte hanno ulteriormente precisato che esso trova un limite nell'ipotesi di inadempimento delle obbligazioni negative, nel qual caso la prova dell'inadempimento stesso è sempre a carico del creditore, anche nel caso in cui agisca per l'adempimento e non per la risoluzione o il risarcimento).

Cass. civ. n. 4123/2001

Il principio dettato dall'art. 1453 c.c. che riconosce al creditore il diritto di domandare la risoluzione del contratto per inadempimento del debitore anche quando sia stato domandato l'adempimento, non soffre eccezioni neppure nel caso in cui il creditore, prima di agire per la risoluzione, abbia agito in executivis contro il debitore sulla base di titoli rilasciati da costui, non essendo l'azione esecutiva quale risulta delineata dagli artt. 2740 e 2910 c.c. un'azione di adempimento (ovvero di esecuzione specifica del contratto), ma soltanto un'azione che, sulla base di uno specifico titolo, mira a far conseguire al creditore, attraverso l'aggressione immediata del patrimonio del debitore inadempiente, quel risultato che egli non ha potuto direttamente conseguire dal debitore attraverso l'esatto adempimento.

Cass. civ. n. 1457/2000

Nel giudizio di risarcimento danni da inadempimento contrattuale, qualora il convenuto sollevi eccezione d'inadempimento, per stabilire il riparto dell'onere della prova occorre distinguere: a) se il convenuto eccepisca l'integrale inadempimento delle proprie obbligazioni da parte dell'attore (excpetio inadimpleti contractus), quest'ultimo ha l'onere di provare di avere esattamente adempiuto; b) se, invece, il convenuto si limiti ad eccepire un inadempimento soltanto parziale (exceptio non rite adimpleti contractus), è l'eccipiente stesso che ha l'onere di dimostrare l'inesattezza dell'altrui adempimento. 

Cass. civ. n. 4164/1999

La previsione del secondo comma dell'art. 1453 c.c., in forza della quale è possibile, in deroga alle norme processuali che dispongono il divieto della mutatio libelli nel corso del processo, la sostituzione — anche in appello ed eventualmente in sede di giudizio di rinvio — della domanda di risoluzione per inadempimento a quella originaria di adempimento del contratto, non può essere estesa al caso in cui la domanda originaria abbia avuto ad oggetto il risarcimento del danno, che integra un'azione avente un petitum del tutto diverso sia dalla domanda di adempimento che da quella di risoluzione. Ne consegue che l'introduzione della domanda di risoluzione nel corso del giudizio, in aggiunta all'originaria domanda risarcitoria, urta contro il suddetto divieto e la domanda di risoluzione dev'essere dichiarata inammissibile, non rilevando, peraltro, in contrario che all'atto della proposizione della domanda risarcitoria si fosse fatta espressa riserva di chiedere la risoluzione del contratto, equivalendo tale riserva a mancata proposizione della relativa domanda.

Cass. civ. n. 2382/1999

Lo scioglimento del contratto conseguente al legittimo esercizio della relativa facoltà da parte di uno dei contraenti ha efficacia soltanto "ex nunc", e produce, pertanto, la caducazione delle obbligazioni scaturenti dal contratto ormai non più esistente con riguardo alla prosecuzione del rapporto, ma non anche ad eventuali aspetti di responsabilità derivanti dal non corretto adempimento di prestazioni in precedenza già eseguite, le quali, attesane la indiscutibile autonomia funzionale, sono idonee ad incidere, "ex se", su specifici interessi (di ciascuno dei contraenti) diversi da quello cui tende l'effetto finale del contratto. Ne consegue, con riguardo ad un preliminare di vendita immobiliare, che, ove l'obbligo di consegna dell'immobile, previsto per un'epoca precedente la stipula del contratto definitivo, sia stato adempiuto con ritardo, ma anteriormente all'esercizio della facoltà di sciogliersi dal contratto da parte del promissario acquirente (cui era, nella specie, subentrato il curatore fallimentare), tale inadempimento deve ritenersi di per sé idoneo a produrre un danno, con conseguente insorgenza del diritto all'eventuale risarcimento.

Cass. civ. n. 12396/1998

L'istanza di risoluzione di un contratto di compravendita per inadempimento dell'acquirente non trova ostacolo nella sopravvenienza del fallimento del convenuto qualora essa risulti «quesita», prima della sentenza dichiarativa del fallimento stesso, attraverso la trascrizione della relativa domanda giudiziale, non potendosi essa legittimamente iscrivere, ex art. 24 legge fallimentare, nel novero delle «azioni derivanti dal fallimento» assoggettate alla vis actrativa della relativa procedura. L'eventuale (e connessa) domanda di accertamento del diritto al risarcimento del danno, avendo ad oggetto una pretesa necessariamente assoggettata alla regola del concorso, non può, per converso, sopravvivere, in sede ordinaria, alla dichiarazione di fallimento, e deve essere fatta valere, previa separazione delle cause, nelle forme di cui agli artt. 93 seguenti della legge fallimentare, mentre la domanda principale di risoluzione prosegue, del tutto legittimamente, con il rito ordinario per la relativa decisione nel merito.

Cass. civ. n. 5870/1998

E inadempiente il promissario compratore che, invocando il principio inadimplenti non est adimplendum, rifiuta la stipula del contratto definitivo di acquisto di un appartamento in un edificio di nuova costruzione perché non è previsto il contestuale trasferimento del diritto reale di uso per il parcheggio, in quanto da un lato il promittente venditore non perciò è inadempiente agli impegni assunti con il contratto, né a suo carico sorge il relativo obbligo di trasferimento ex lege; dall'altro il preliminare non è radicalmente nullo, bensì in parte qua, e la sostituzione di diritto della clausola nulla con la norma imperativa, che trasferisce il reclamato diritto reale di uso sull'area destinata a parcheggio, avviene non automaticamente, ma per effetto dell'accertamento giudiziale della nullità relativa per contrasto con la individuata norma imperativa, integrativa del contratto.

Cass. civ. n. 4361/1998

L'esercizio dello jus variandi di cui all'art. 1453 è consentito quando la domanda di risoluzione e quella d'adempimento sono proposte nello stesso giudizio in via subordinata. Non altrettanto può dirsi quando la manifestazione di volontà del contraente che agisce per la risoluzione e per l'adempimento avviene non contestualmente ma in separati giudizi. Infatti, la manifestazione di volontà diretta alla risoluzione del contratto è dalla legge valutata come mancanza in chi la emette di un interesse a conseguire la prestazione tardiva, e, per l'affidamento che essa determina, non può vincolare l'altra parte ad attendere l'esito anche delle azioni successivamente proposte nei suoi confronti.

Cass. civ. n. 2072/1998

In tema di contratti e prestazioni corrispettive, ove la domanda di adempimento sia stata rigettata con sentenza passata in giudicato, non è preclusa la possibilità di agire nuovamente in giudizio chiedendo la risoluzione del medesimo contratto, sempre che a fondamento di detta domanda sia dedotto un inadempimento diverso da quello fatto valere con la domanda di adempimento.

Cass. civ. n. 376/1998

È inaccoglibile la domanda di risoluzione contrattuale per inadempimento di un contratto a prestazioni corrispettive proposta nei confronti della controparte inadempiente che sia stata, nelle more, dichiarata fallita, potendo conseguire, ad una eventuale pronuncia di accoglimento, effetti restitutori e risarcitoci lesivi del generale principio della par condicio imposta, al contrario, dalla procedura concorsuale previa cristallizzazione delle posizioni giuridiche di ciascun creditore. Non è idonea a costituire eccezione a tale principio la domanda di risoluzione contrattuale fondata su di una clausola risolutiva espressa riferita ad un inadempimento verificatosi in epoca anteriore alla dichiarazione di fallimento, se la domanda medesima risulti proposta dopo l'apertura della procedura fallimentare.

Cass. civ. n. 7480/1997

L'eccezione inadimpleti contractus consente non solo di paralizzare la domanda di adempimento della controparte, ma pure di escludere il diritto della controparte di fare accertare o di domandare la risoluzione del contratto.

Cass. civ. n. 4013/1995

In tema di preliminare di compravendita di cosa di proprietà del promittente venditore al momento della conclusione del preliminare, il sopravvenire dell'altruità della cosa per effetto di successiva vendita della stessa ad opera del promittente medesimo costituisce definitivo e totale inadempimento di quest'ultimo tale da legittimare la domanda di risoluzione del promissario acquirente, il quale in detta ipotesi risulta altresì privato della possibilità di chiedere l'esecuzione in forma specifica dell'obbligo di concludere il contratto ossia di ottenere una sentenza con effetti immediatamente traslativi ex art. 2932 c.c.

Cass. civ. n. 2347/1995

Nei contratti con prestazioni corrispettive, ai fini della pronuncia di risoluzione per inadempimento in caso di inadempienze reciproche è necessario far luogo ad un giudizio di comparazione in ordine al comportamento di ambo le parti, al fine di stabilire quale di esse, in relazione ai rispettivi interessi ed all'oggettiva entità degli inadempimenti, si sia resa responsabile delle trasgressioni maggiormente rilevanti e causa del comportamento della controparte e della conseguente alterazione del sinallagma; tale accertamento, prendendo le mosse dalla valutazione dei fatti e delle prove, rientra nei poteri del giudice di merito ed è incensurabile in sede di legittimità se congruamente motivato.

Cass. civ. n. 1457/1995

Il divieto posto dall'art. 1453 c.c. di chiedere l'adempimento una volta domandata la risoluzione del contratto, non può essere inteso in senso assoluto, ma è operante soltanto nei limiti in cui esiste l'interesse attuale del contraente, che ha chiesto la risoluzione, alla cessazione del rapporto, per modo che, quando tale interesse viene meno, per essere stata rigettata o dichiarata inammissibile la domanda di risoluzione, la preclusione non opera, essendo cessata la ragione del divieto. Da ciò consegue che le due domande, di risoluzione e di adempimento, possono essere proposte, in via subordinata, anche nello stesso giudizio.

Cass. civ. n. 10217/1994

In presenza di reciproche domande di risoluzione, fondate da ciascuna parte su addebiti di determinati adempimenti dell'altra, al giudice — il quale accerti l'infondatezza di tali scambievoli addebiti e non possa, quindi, pronunciare la risoluzione per colpa di nessuna delle parti — non resta altro che dare atto dell'impossibilità di esecuzione del contratto per effetto della scelta, operata ex art. 1453, comma 2, c.c. da entrambi i contraenti, e decidere, di conseguenza, quanto agli effetti risolutori di cui all'art. 1458 c.c. ed, in particolare, alla restituzione della caparra.

Cass. civ. n. 9802/1994

La violazione del dovere di buona fede in sede di stipulazione del contratto, che ricorre anche nel caso di omessa comunicazione di circostanze significative rispetto alla economia del contratto e può dar luogo a responsabilità precontrattuale, ai sensi degli artt. 1337-1338-1427 c.c., non può essere dedotta a fondamento della domanda di risoluzione del contratto con prestazioni corrispettive, la quale, ai sensi dell'art. 1453 c.c., si lega solo all'inadempimento di una specifica obbligazione negoziale e presuppone, quindi, un regolamento negoziale che astringa la parte a tenere una determinata condotta ed una successiva violazione delle obbligazioni nascenti da questo contratto.

Cass. civ. n. 6887/1994

Il contraente adempiente ha diritto di chiedere il risarcimento dei danni conseguenti all'inadempimento o all'inesatto adempimento delle obbligazioni nascenti dal contratto, ai sensi dell'art. 1453, comma 1, ultima parte, c.c., «in ogni caso» e, cioè, sia quando egli chieda anche la risoluzione del contratto sia quando rivendichi la relativa esecuzione ed anche quando le conseguenze dell'inadempimento siano ancora eliminabili o fattualmente eliminate, per cui la pretesa risarcitoria è accoglibile solo in relazione al pregiudizio realizzato nel tempo dell'inadempimento e fino alla cessazione di questo.

Cass. civ. n. 4830/1994

La disposizione dell'art. 1453 comma secondo c.c. la quale in deroga agli artt. 183, 184, 345 c.p.c. consente di sostituire all'originaria domanda di esecuzione del contratto quella di risoluzione per inadempimento, trova applicazione anche nel caso in cui la condanna all'adempimento sia stata pronunciata con sentenza passata in giudicato, sempre che questa non abbia avuto esecuzione per essere proseguito l'inadempimento.

Cass. civ. n. 8192/1993

La disposizione dell'art. 1453, secondo comma, c.c. secondo cui nei contratti con prestazioni corrispettive la risoluzione può essere domandata anche quando inizialmente sia stato chiesto l'adempimento, fissa un principio di contenuto processuale in virtù del quale sono derogate le norme che vietano la mutatio libelli nel corso del processo e quindi la parte che ha invocato la condanna dell'altra ad adempiere ben può sostituire a tale pretesa quella di risoluzione, non solo per tutto il giudizio di primo grado, ma anche nel giudizio d'appello, sempre che non alleghi distinti fatti costitutivi, cioè degli inadempimenti diversi da quelli posti a base della pretesa originaria.

Cass. civ. n. 6906/1993

La domanda di risoluzione di un contratto, costituendo legittimo esercizio del potere di chiedere al giudice la tutela giurisdizionale di una situazione giuridica nascente dal contratto stesso, non manifesta, di per sé, il proposito della parte di non adempiere la propria obbligazione e non può, conseguentemente, giustificare, in mancanza di effettivo inadempimento, la risoluzione per fatto a questa imputabile.

Cass. civ. n. 5838/1993

Posto che il secondo comma dell'art. 1453 c.c., per cui non può più chiedersi l'adempimento quando è stata domandata la risoluzione, è posto nell'interesse della parte convenuta inadempiente, cui vuole evitare di dover programmare insieme la restituzione della prestazione ricevuta (effetto derivante dalla pronuncia di risoluzione, ex art. 1458 c.c.) e l'adempimento di quella corrispettiva fin lì mancata, la violazione di tale disposizione non è rilevabile d'ufficio, ma deve essere eccepita da parte convenuta.

Cass. civ. n. 1698/1993

Il mutamento della domanda di adempimento in quella di risoluzione, costituendo esercizio di una facoltà riconosciuta dalla legge (art. 1453 comma secondo c.c.), non richiede l'accettazione del contraddittorio della controparte né, per altro verso, la sottoscrizione, da parte del soggetto interessato o del suo speciale procuratore, della relativa domanda, che rientra nei poteri del procuratore alle liti; tale mutamento preclude la successiva domanda di adempimento dato che il comportamento del contraente che chiede senza riserve la risoluzione del contratto per l'inadempienza della controparte è valutato dall'art. 1453 comma secondo c.c. come manifestazione della mancanza di interesse al conseguimento della prestazione tardiva, con la conseguenza che, qualora il giudice non pronunci la risoluzione del contratto, l'obbligazione del contraente convenuto deve ritenersi comunque estinta.

Cass. civ. n. 1595/1993

Nei contratti a prestazioni corrispettive (nella specie, vendita) l'adempimento tardivo di una parte può essere legittimamente rifiutato dall'altra parte adempiente anche nel caso in cui quest'ultima non abbia ancora proposto la domanda per conseguire la risoluzione del contratto, salva la valutazione da parte del giudice della non scarsa importanza dell'inadempimento ai sensi dell'art. 1455 c.c., dovendosi escludere che l'opposto principio possa farsi derivare dalla disposizione dell'art. 1453 ultimo comma (secondo cui l'inadempiente non è più ammesso ad adempiere dopo la domanda di risoluzione), perché in tal modo si consentirebbe alla parte inadempiente di modificare a suo arbitrio e senza il concorso dell'altra parte la situazione a lei sfavorevole da essa stessa determinata.

Cass. civ. n. 8199/1991

La formale costituzione in mora del debitore è prescritta dalla legge per determinati effetti, tra cui preminente è quello del carico al debitore medesimo del rischio della sopravvenuta impossibilità della prestazione per causa a lui non imputabile, ma non già al fine della risoluzione del contratto per inadempimento, essendo sufficiente per ciò il fatto obiettivo dell'inadempimento di non scarsa importanza.

Cass. civ. n. 6880/1991

L'art. 1453 comma terzo non introduce per il convenuto un divieto assoluto di adempimento dopo la proposizione della domanda di risoluzione ma si limita a sancire l'inefficacia di un adempimento tardivo a sanare o a lenire le conseguenze del pregresso inadempimento posto a base della domanda nell'implicito presupposto che questo sia sussistente e che quindi il creditore non abbia più interesse all'adempimento. Ne consegue che se l'obbligazione debba, per accordo fra le parti, essere adempiuta a più riprese, abbia cioè più scadenze, e la domanda di risoluzione sia stata proposta quando non tutte le scadenze si siano verificate, il cennato disposto dell'art. 1453 si applica esclusivamente alle prestazioni già scadute, riguardo alle quali soltanto il giudice potrà accertare se vi sia stato inadempimento imputabile al debitore, e non alle prestazioni ancora da scadere, rispetto alle quali il comportamento del debitore non è ancora suscettibile di valutazione in termini di inadempimento, con la conseguenza che rispetto a queste ultime l'eventuale inadempienza sopravvenuta in corso di causa va anch'essa considerata e valutata dal giudice, se dedotta anche implicitamente dalla controparte, ai fini della pronuncia di risoluzione.

Cass. civ. n. 4762/1991

In tema di risoluzione per inadempimento non è ammissibile una caducazione parziale del contratto quanto all'oggetto, ossia per una sola parte della prestazione, salvo che il contratto stesso sia ad esecuzione continuata o periodica (nel qual caso trova applicazione l'art. 1458, comma primo, c.c.). Il contratto, infatti, è unico, e l'impossibilità di restituire l'oggetto nel suo stato originario esclude la risoluzione, non solo quando l'impossibilità sia totale, ma anche quando sia parziale non essendo più possibile l'esatta rimessione in pristino. In tale caso ne consegue che il contratto permane in toto, salvo, per la parte adempiente, di chiedere — ove non si siano verificate preclusioni di ordine sostanziale o processuale — la riduzione della propria prestazione, ed il risarcimento del danno nel caso di colpa della controparte.

Cass. civ. n. 2402/1991

Con riguardo alla domanda di risarcimento del danno, che sia proposta contestualmente a quella di risoluzione del contratto ai sensi dell'art. 1453 c.c., la reiezione di quest'ultima domanda per la scarsa importanza dell'inadempimento non comporta necessariamente il venir meno del presupposto per l'accoglimento della prima (come si verifica nel caso in cui la pretesa risolutoria sia respinta per difetto dell'imputabilità dell'inadempimento stesso), potendo il danno essere stato determinato da una colpevole inadempienza del debitore, ancorché inidonea per l'accoglimento della domanda di risoluzione a termini dell'art. 1455 c.c.

Cass. civ. n. 8955/1990

Il divieto per il debitore di adempiere la propria obbligazione dopo la proposizione della domanda di risoluzione (art. 1453, terzo comma, c.c.) — divieto che si basa sulla mancanza di interesse del creditore ad ottenere l'adempimento — non è assoluto, presupponendo la fondatezza di tale domanda in base ai fatti dedotti, con la conseguenza che nel caso in cui la domanda non sia fondata, per cui il comportamento del debitore anteriore alla domanda non giustifichi il disinteresse del creditore all'adempimento, lo stesso debitore non è esonerato dall'obbligo di adempiere (o di farne congrua offerta), potendo il suo persistente atteggiamento negativo trasformare il suo precedente inadempimento non grave in inadempimento grave, e perciò tale da legittimare l'accoglimento della domanda di risoluzione.

Cass. civ. n. 7875/1990

Nei contratti con prestazioni corrispettive, ove sottoposti a condizione risolutiva, la rilevanza del comportamento dei contraenti con riguardo all'inadempimento delle prestazioni a carico di ciascuno di essi ed al conseguente diritto della parte adempiente ad ottenere in giudizio la risoluzione del contratto medesimo, resta subordinata al mancato verificarsi dell'evento condizionante, con la conseguenza che avveratosi tale evento il venir meno ex tunc dell'efficacia interinalmente prodotta dal contratto preclude al giudice di prendere in considerazione le imputate inadempienze ai fini della domanda di risoluzione e di pronunciarsi sulla stessa, ancorché la domanda di accertamento dell'avveramento della condizione risolutiva apposta al contratto sia stata avanzata in giudizio subordinatamente rispetto a quelle di risoluzione per inadempimento.

Cass. civ. n. 962/1989

L'art. 1453 secondo comma c.c., il quale consente alla parte adempiente di chiedere la risoluzione del contratto anche quando il giudizio sia stato promosso per ottenere l'adempimento della controparte, introduce una deroga al divieto della mutatio libelli nel corso del processo e, quindi, anche al divieto di domanda nuova in appello, limitatamente al petitum, non anche alla causa petendi. Detta risoluzione, pertanto, al pari del risarcimento dei danni conseguenziali, non può essere richiesta per la prima volta nel giudizio di gravame, sulla base di un distinto fatto costitutivo, cioè di un inadempimento diverso da quello posto a base della pretesa originaria.

Cass. civ. n. 6959/1988

Nei contratti a prestazioni corrispettive (nella specie: vendita) l'adempimento tardivo di una delle parti non pregiudica il diritto dell'altra parte non inadempiente di chiedere successivamente la risoluzione del contratto, salva in ogni caso la valutazione del giudice in ordine alla non scarsa importanza dell'inadempimento.

Cass. civ. n. 2435/1988

Qualora un contraente comunichi la dichiarazione di recesso con contestuale richiesta di restituzione della somma versata a titolo di anticipo (o caparra) e di rimborso delle spese sostenute ed il contraente asserito inadempiente comunichi anch'esso la volontà di recedere - pur attribuendo l'inadempimento all'altra parte - e la disponibilità alla restituzione delle somme richieste, si verifica la risoluzione del contratto atteso che le due dichiarazioni di recesso - pur non determinando un accordo negoziale risolutorio, come nell'ipotesi del mutuo consenso, in quanto muovono da premesse contrastanti - sono tuttavia dirette all'identico scopo dello scioglimento del contratto e della restituzione delle somme versate, con la conseguenza che resta preclusa la domanda di adempimento successivamente proposta da uno dei contraenti.

Cass. civ. n. 4325/1987

Il mutamento in corso di giudizio della domanda di adempimento in quella di risoluzione del contratto, ai sensi dell'art. 1453 c.c., ove resti nell'ambito dei fatti posti a base dell'inadempienza dedotta non introduce un nuovo tema di indagine, onde ai fini dell'accoglimento della domanda di risoluzione ben possono trarsi elementi dalla mancata risposta della parte all'interrogatorio formale, ancorché tale mezzo istruttorio sia stato formulato con riferimento all'iniziale domanda di adempimento.

Cass. civ. n. 20/1987

L'accettazione, da parte del creditore, dell'adempimento parziale — che, a norma dell'art. 1181 c.c., egli avrebbe potuto rifiutare — non estingue il debito, ma semplicemente lo riduce, non precludendo conseguentemente al creditore stesso di azionare la risoluzione del contratto, né al giudice di dichiararla, ove la parte residuale del credito rimasta scoperta sia tale da comportare ugualmente la gravità dell'inadempimento.

Cass. civ. n. 2500/1986

Al fine della risoluzione del contratto a norma dell'art. 1453 c.c., la costituzione in mora della parte inadempiente, mentre può essere necessaria, in presenza di un inadempimento temporaneo, per escludere una presunzione di tolleranza della controparte a fronte dell'inosservanza di un termine non essenziale, non è richiesta nel caso di inadempimento di tipo definitivo (salva la sua rilevanza al diverso scopo, oltre che del risarcimento del danno, dell'assunzione del rischio per la sopravvenuta impossibilità della prestazione, ai sensi dell'art. 1221 c.c.).

Poiché nella fase di esecuzione del contratto le parti, al fine di conservare integre le reciproche ragioni, devono comportarsi con correttezza e secondo buona fede, anche la mera inerzia cosciente e volontaria, che sia di ostacolo al soddisfacimento del diritto della controparte, ripercuotendosi negativamente sul risultato finale avuto di mira nel regolamento contrattuale degli opposti interessi, contrasta con i doveri di correttezza e di buona fede e può configurare inadempimento. (Nella specie, la S.C., in applicazione del surriportato principio, ha ritenuto che correttamente la corte del merito aveva ravvisato l'inadempimento del promittente venditore, che aveva omesso di espletare tempestivamente le pratiche amministrative richieste per il rilascio della licenza edilizia, necessaria per la costruzione dell'edificio in cui era compreso l'appartamento oggetto del preliminare di vendita, tenendo conto che, pur in difetto di un termine convenzionale per il compimento di quelle pratiche, la suddetta inerzia aveva superato congrui limiti di tolleranza).

Cass. civ. n. 1588/1986

L'art. 1453 terzo comma c.c., il quale prevede che dopo la domanda di risoluzione per inadempimento il convenuto non può più adempiere, riguarda il caso in cui il convenuto medesimo sia già inadempiente al momento della domanda, e, pertanto, non osta a che possa essere eseguita la prestazione non ancora scaduta a detta data, restando in proposito irrilevante che l'attore abbia espresso il proprio sopravvenuto disinteresse all'adempimento.

Cass. civ. n. 394/1986

Il principio per cui la parte che abbia prestato completa acquiescenza alla violazione di un obbligo contrattuale, continuando a dare piena attuazione al rapporto, non può addurre tale violazione come causa di inadempimento, per avervi sostanzialmente rinunziato, trova applicazione anche in presenza di una clausola e provoca la risoluzione del contratto quando abbia con il suo stesso comportamento rinunziato alla rigorosa e puntuale osservanza dei patti concordati od a determinate modalità inserite nel contratto.

Cass. civ. n. 3516/1985

In tema di risoluzione del contratto per inadempimento (nella specie: di contratto di locazione per mutata destinazione della cosa locata), la sussistenza o meno dell'elemento soggettivo va accertata specificamente, sulla scorta delle risultanze processuali ed in base alle deduzioni delle parti, con riferimento alla natura ed all'oggetto del contratto, alle modalità del concreto svolgimento del rapporto ed all'interesse delle parti stesse. Conseguentemente l'inadempimento può essere ritenuto incolpevole solo ove emergano concrete e precise circostanze idonee ad escludere l'elemento qualificante la condotta dell'obbligato, a termini. dell'art. 1218 c.c. non bastando al riguardo il mero convincimento dello stesso senza alcun riscontro nella realtà accertata.

Cass. civ. n. 3058/1985

L'art. 1453 ultimo comma c.c., il quale non consente alla parte inadempiente di eseguire la prestazione dopo che l'altra parte abbia proposto domanda di risoluzione, postula che l'inadempienza sia colposa e grave, sì da giustificare la risoluzione, e, pertanto, non vale ad escludere la possibilità di un adempimento tardivo quando la risoluzione stessa sia stata chiesta senza il concorso dei predetti requisiti.

Cass. civ. n. 4020/1984

L'inadempimento, affinché possa avere effetto risolutorio, deve essere valutato non soltanto in ordine all'elemento obiettivo in cui si concreta la violazione contrattuale, ma anche in relazione alla sussistenza dell'elemento soggettivo, che qualifica la stessa violazione e consiste nell'effettiva volontà del debitore di sottrarsi ingiustamente alla prestazione dovuta. Ma perché tale volontà manchi, rendendo l'inadempimento non imputabile al debitore, è necessario che questi abbia usato la diligenza del buon padre di famiglia (art. 1176 c.c.), senza essere sufficiente la sola buona fede circa l'apprezzamento della propria condotta se questa non coincida con l'esaurimento di tutte le possibilità di adempiere l'obbligazione secondo la normale diligenza potendo la colpa, a differenza del dolo, sussistere anche in caso di errore, per non avere usato la diligenza che avrebbe preservato dal cadere nell'errore.

Cass. civ. n. 7078/1983

Al fine della proponibilità della domanda di adempimento del contratto a prestazioni corrispettive, l'ostacolo costituito del precedente esperimento di azione per la risoluzione del contratto medesimo (art. 1453 secondo comma c.c.) viene meno a seguito della declaratoria d'estinzione del giudizio inerente a tale domanda risolutoria.

Cass. civ. n. 3328/1983

La colpa dell'inadempiente, quale presupposto per la risoluzione del contratto, è presunta sino a prova contraria e tale presunzione è destinata a cadere solo a fronte di risultanze positivamente apprezzabili, dedotte e provate dal debitore, le quali dimostrino che quest'ultimo, nonostante l'uso della normale diligenza, non sia stato in grado di eseguire tempestivamente le prestazioni dovute per causa a lui non imputabili. (Principio enunciato in tema di inadempimento del pagamento del canone locatizio).

Cass. civ. n. 3827/1982

La materiale impossibilità di specifica reintegrazione delle posizioni giuridiche anteriori al contratto non pregiudica l'esperibilità e il favorevole esito dell'azione di risoluzione per inadempimento, potendo ciò comportare soltanto che la reintegrazione patrimoniale avvenga per equivalente pecuniario, secondo il principio pretium succedit in locum rei, attraverso una sostituzione oggettiva sancibile anche d'ufficio qualora – dall'accertamento riservato al giudice del merito risulti l'obiettiva impossibilità della restituzione specifica.

Cass. civ. n. 385/1982

Ai fini della risoluzione del contratto per inadempimento, è necessaria la costituzione in mora allorché la relativa domanda si basi sulla mora in senso stretto, e cioè su un inadempimento temporaneo del debitore, il quale, pur non avendo fornito la sua prestazione entro il termine non essenziale contrattualmente fissato, si appresti tuttavia a fornirla.

Cass. civ. n. 6635/1981

La tolleranza del creditore non può in alcun caso giustificare l'inadempimento e non comporta, per sé stessa, modificazione della disciplina contrattuale voluta dalle parti, non essendo possibile desumere una completa acquiescenza alla violazione di un obbligo contrattuale posta in essere dall'altro contraente né un consenso alla modificazione suddetta da un comportamento equivoco, come è normalmente quello di non avere preteso in passato l'osservanza dell'obbligo stesso, in quanto tale comportamento può essere ispirato da benevolenza piuttosto che essere determinato dalla volontà di modificazione del patto.

Cass. civ. n. 6553/1981

La parte che presti acquiescenza all'inadempimento della controparte (nella specie: fissando un nuovo termine di adempimento, in luogo di quello originario, inutilmente decorso) non può chiedere la risoluzione del contratto, dovendosi ritenere che vi abbia tacitamente rinunciato.

Cass. civ. n. 6247/1981

Nei contratti a prestazioni corrispettive, dal principio fissato dal terzo comma dell'art. 1453 c.c., secondo il quale dalla data della domanda di risoluzione l'inadempiente non può più adempiere la propria obbligazione, si evince che l'adempimento o la valida offerta dell'adempimento, effettuati da una parte tardivamente, quale che sia l'entità del ritardo, non possono essere legittimamente rifiutati dall'altra parte, ove questa non abbia ancora proposto domanda per conseguire la risoluzione del contratto, e che conseguentemente tale domanda non può trovare fondamento in un ritardo dell'adempimento della controparte, il quale, ancorché abbia superato i limiti della tollerabilità, sia cessato prima della data della domanda stessa.

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Consulenze legali
relative all'articolo 1453 Codice Civile

Seguono tutti i quesiti posti dagli utenti del sito che hanno ricevuto una risposta da parte della redazione giuridica di Brocardi.it usufruendo del servizio di consulenza legale. Si precisa che l'elenco non è completo, poiché non risultano pubblicati i pareri legali resi a tutti quei clienti che, per varie ragioni, hanno espressamente richiesto la riservatezza.

N. M. chiede
venerdì 29/09/2023
“Il 21-10-20222, tramite il consulente Tizio della ditta ''Alfa s.r.l.'', mi è stata fatta una proposta di ''assistenza tecnica'' per il mio impianto Fotovoltaico e per il recupero delle entrate dovutemi dal Gestore Servizi Elettrici.
Ho sottoscritto la proposta di ''assistenza tecnica'' alle condizioni generali imposte dalla Ditta.
In più occasioni ho cercato telefonicamente, e per posta elettronica, il Consulente della Ditta per sollecitare l'inizio dell'assistenza tecnica e il recupero delle entrate: ma senza trovare risposta agli indirizzi che mi aveva rilasciato.
Considerato che per circa un anno non ho avuto nessun contatto con la Ditta e/o con il suo Consulente, ho tratto la conclusione che la proposta di assistenza tecnica non fosse stata accettata o la Ditta in oggetto non fosse più attiva.
Invece, lo scorso 27 sttembre sono stato contattato dalla Ditta e ho ricevo copia del contratto firmato e ''pro-forma'' per il pagamento di 403,80 euro; leggo anche che in mancanza di pagamento la Ditta adotterà misure legali. Nessun riferimento è stato fatto al tempo trascorso; agli impegni presi e non assolti dalla Ditta.
Mi sono sentito raggirato, quanto avvenuto evidenzia che la Ditta, pur non avendo iniziato a rispettare i suoi impegni, chiede il pagamento per lavori che non ha nemmeno iniziato.
Con la presente chiedo alla ''Brocardi.it'' una consulenza che mi aiuti a difendermi da quella che sembra una truffa.
Non credo che dopo un anno trascorso senza nessuna attività iniziata dalla Ditta, il contratto sottoscritto possa ritenersi valido.
Vorrei annullare il contratto, per dolo dovuto al mancato rispetto degl'impegni sottoscritti dallaa Ditta.
Allegherò copia del contratto e di eventuali altri documenti appena sarà accertata la presente richiesta di consulenza .
Cordialmente”
Consulenza legale i 12/10/2023
Nel quesito proposto, il consumatore ha sottoscritto un contratto per assistenza tecnica per l’impianto fotovoltaico e da quel momento non è stato più contattato da parte della società incaricata.

Si analizzano le condizioni generali di contratto.
All’art. 2 “Ordini” è stabilito che l’ordine diventa vincolante per la venditrice solo con la conferma scritta della medesima anche tramite l’invio della fattura.
Sembra proprio quanto avvenuto nel caso di specie, la società ha dato conferma inviando dopo quasi un anno il contratto firmato e la pro forma.
Tale clausola contrattuale è stata specificatamente approvata per iscritto da parte del contraente consumatore ai sensi dell’art. 1341 c.c. ed è quindi per lui vincolante.

Inoltre, il fatto che la società non abbia espressamente rifiutato la richiesta di assistenza tecnica inoltrata dal cliente tramite il consulente, non libera il contraente dalle obbligazioni assunte con la firma del contratto soltanto per non avere avuto più notizie.

Certamente, però, la mancata informazione da parte della società fornitrice del servizio, sui tempi e sulle modalità di esecuzione del contratto, dimostra una carenza di buona fede della stessa.
Inoltre, il contratto di assistenza triennale con la previsione di visite e verifiche periodiche, è stato sottoscritto il 21 ottobre 2022 e la pro forma è datata 16 gennaio 2023 con scadenza per il pagamento entro il 17 marzo 2023.
La richiesta di pagamento pare però sia pervenuta al cliente a settembre 2023.
Prima di questa data sembra che non sia stata data esecuzione al contratto e nessun controllo di quelli previsti è stato eseguito.
È evidente che l’assistenza tecnica deve essere garantita quanto meno dalla data in cui è stato mandato il contratto firmato e la pro forma.

Certamente è quindi facoltà del cliente chiedere che venga comunicato per iscritto dalla società che il contratto inizia a decorrere dalla data in cui è stata inviata la conferma dell’ordine.

In mancanza di questo, il consumatore avrà diritto, a parere dello scrivente, di sostenere la risoluzione del contratto per inadempimento.

F. M. chiede
martedì 02/05/2023
“Buona sera, espongo di seguito il mio quesito.

Tizio stipula un preliminare per l'acquisto di un immobile di Caia che vive all'estero. dopo la firma del preliminare di compravendita, Tizio asserisce di aver effettuato il pagamento con bonifico ed esibisce anche un documento "distinta di bonifico" per l'estero con l’Iban di Caia, ma di fatto questa caparra confirmatoria non viene mai versata. Per cui si desume che il documento trasmesso via Wathsapp a Caia è falso. Nonostante i numerosi solleciti e le innumerevoli promesse di corrispondere la caparra Tizio non la versa. Intanto, Caia trova un nuovo acquirente per il proprio immobile, ma a prezzo inferiore… Quindi, la venditrice invia la comunicazione di risoluzione del contratto preliminare sottoscrito con Tizio per suo grave inadempimento, non avendo quest’ultimo versato la caparra nonostante le varie promesse e, successivamente, procede con la vendita dell’immobile a Sempronio, ripeto, ad un prezzo inferiore.

Ora Caia vuole fare causa a Tizio per ottenere il pagamento della caparra confirmatoria che lei avrebbe avuto diritto di trattenere per indempimento di tizio ed il risarcimento del danno subito.

Cosa suggerite per la soluzione della vicenda?
Grazie, buona serata”
Consulenza legale i 11/05/2023
Ai sensi dell’art. 1385 del c.c., “Se al momento della conclusione del contratto una parte dà all'altra, a titolo di caparra, una somma di danaro o una quantità di altre cose fungibili, la caparra, in caso di adempimento, deve essere restituita o imputata alla prestazione dovuta. Se la parte che ha dato la caparra è inadempiente, l'altra può recedere dal contratto, ritenendo la caparra; se inadempiente è invece la parte che l'ha ricevuta, l'altra può recedere dal contratto ed esigere il doppio della caparra”.
La caparra confirmatoria è espressione di una prassi consistente nel consegnare un bene a dimostrazione della serietà dell'impegno assunto.
Il primo e secondo comma della norma ne regolano l'operatività, rispettivamente, in ordine allo svolgimento fisiologico del rapporto ed in ordine allo svolgimento patologico, stabilendo che deve essere imputata alla prestazione o trattenuta in via di autotutela.
In base al terzo comma, la parte non inadempiente può anche non valersi del meccanismo contemplato dalla caparra ed agire per il risarcimento del danno ma, in tal caso, secondo le regole ordinarie.

Nel caso che occupa, come correttamente osservato, Caia, di fronte all’inadempimento di Tizio, avrebbe dovuto teoricamente poter recedere, se la caparra fosse stata materialmente consegnata, trattenendo la caparra versata da Tizio. Avrebbe anche potuto - in realtà - convenire in giudizio Tizio per l’esecuzione coattiva, ovvero per ottenere la firma del contratto definitivo (rectius: una sentenza che tenesse luogo del consenso mancato) ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 2932 del c.c..
Tuttavia, nel frattempo, Caia ha rinvenuto altro e diverso acquirente disposto a concludere fattivamente l’affare per un prezzo, però, inferiore.

A questo punto, è senz’altro interesse di Caia convenire in giudizio Tizio per fare dichiarare la risoluzione del contratto preliminare al fine di ottenere, oltre allo scioglimento del contratto, il risarcimento dei danni subiti, così come prevede l’art. 1453 del c.c. Tale disposizione, infatti, prevede che "Nei contratti con prestazioni corrispettive, quando uno dei contraenti non adempie le sue obbligazioni, l'altro può a sua scelta chiedere l'adempimento o la risoluzione del contratto, salvo, in ogni caso, il risarcimento del danno".
Più nello specifico, il danno di cui si consiglia di chiedere il risarcimento, a latere della risoluzione del preliminare, non è tanto quello corrispondente alla caparra confirmatoria mai versata bensì, se maggiore, quello corrispondente alla differenza tra il prezzo a cui l’immobile era stato inizialmente compravenduto - attraverso la stipula del primo contratto preliminare - e quello a cui è stato poi venduto successivamente, a causa dell’esclusivo comportamento inadempiente del promissario acquirente.
Tale, infatti, è la conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento della controparte, qualificabile quale pregiudizio risarcibile ai sensi dell’art. 1223 del c.c..

A fini di completezza, si ricorda che chi intenda proporre in giudizio una domanda di pagamento - a qualsiasi titolo - di somme non eccedenti cinquantamila euro, è tenuto preventivamente ad esperire un tentativo di negoziazione assistita, ai sensi del D.L. 132/2014.

R. R. chiede
martedì 04/04/2023
“A novembre ho ordinato un'auto nuova con consegna al 30/4. Non è prevista la permuta dell’usato, e nemmeno finanziamento; è stato versato a titolo di caparra confirmatoria l'importo di Euro 3.000,00. Le Condizioni Generali di vendita prevedono:
3.2 un periodo di tolleranza di 60 gg., oltre il quale il Cliente può recedere dal Contratto ricevendo il doppio della caparra (5.1)
3.3 qualora l’auto ordinata non sia disponibile al termine indicato (30/4), il Venditore propone un autoveicolo/modello alternativo, e in caso di disaccordo il Recesso prevede la restituzione dell’importo versato (non il doppio).
La Concessionaria mi comunica ora telefonicamente che non solo non sarà in grado di rispettare la scadenza del 30/4, ma nemmeno consegnerà entro il 30/6. Non offre alcuna alternativa e soprattutto garanzia per le proprie obbligazioni future, cioè la consegna dell'auto alla nuova scadenza da definire, o in caso contrario la restituzione della caparra secondo il predetto punto 3.2.
Ho contattato sul Portale della Casa produttrice anche il Servizio Clienti. Dopo 20 gg, e diversi solleciti, e solo telefonicamente (malgrado chiedessi risposta almeno via mail), mi informano che non possono sapere quando arriverà l'auto, e di rivolgersi alla Concessionaria.

Il Venditore attribuisce il ritardo a difficoltà nella produzione, mancanza di componenti, problemi nei trasporti, etc., ovviamente sottaciuti al momento del Contratto. Anzi, adesso posso pensare che il termine di consegna indicato nella stipula, sia stato ridotto (dalla Casa o dalla Concessionaria) per il rischio di perdere la vendita.
E proprio per la convinzione e l’insistenza con le quali sostiene questi argomenti nel giustificare il ritardo, temo che queste problematiche possano addirittura aggravarsi da qui in avanti.
Domanda: dal 2 maggio, posso chiedere il Recesso con restituzione del doppio della caparra?
Posso iniziare subito a cercare una nuova auto con termini di consegna più brevi, però ad esempio beneficiando di una scontistica inferiore. Non vorrei perdere ancora tempo e occasioni dovendo aspettare ancora 60 gg., quando so già da oggi che nemmeno alla nuova scadenza l'auto ordinata mi verrà consegnata. E ripeto: a dirlo è il Concessionario stesso.”
Consulenza legale i 18/04/2023
Il contratto prevede due ipotesi di recesso del compratore a seguito della sottoscrizione del contratto di compravendita del veicolo.

Innanzitutto è bene riportare che al punto 3.2 viene indicato che la data di consegna del veicolo acquistato ha carattere indicativo e previsionale.
Il periodo di tolleranza è indicato in 60 giorni, salvi i maggiori ritardi imputabili a caso fortuito o forza maggiore.

Decorso il termine, l’acquirente potrà scegliere se chiedere l’adempimento o recedere dal contratto ottenendo il versamento del doppio della caparra.

Il contratto prevede un’altra possibilità di recesso quando, in caso di indisponibilità del veicolo per qualsiasi motivo, l’acquirente non accetti l’alternativa che il venditore è tenuto a entro un termine ragionevole; in questo caso l’acquirente che non accetta ha il diritto di recedere e ricevere le somme già versate.

La prima ipotesi di recesso con restituzione del doppio della caparra è piuttosto lineare e prevede, per esercitarlo, che siano trascorsi 60 giorni dalla data stabilita per la consegna.
L’esclusione riguarda il caso fortuito o la forza maggiore che vanno intesi come tutti quegli eventi che non permettono l’adempimento ma che non avrebbero potuto essere previsti dall’obbligato secondo le regole di diligenza qualificata ai sensi dell’art. 1176 comma 2 del Codice civile (Cass. civ. n. 9997/2020).
L’analisi sulla sussistenza del caso fortuito o forza maggiore deve avvenire in concreto.
Sicuramente esiste un margine di discrezionalità tale per cui il venditore può rifiutarsi di restituire il doppio della caparra invocando le esclusioni di responsabilità citate.
Si ritiene, in ogni caso, che non si possa esercitare il recesso e richiedere il doppio della caparra prima che siano trascorsi i 60 giorni di tolleranza e quindi prima del 30 giugno 2023.

Non è chiaro, invece, se la seconda ipotesi di recesso concesso al compratore possa essere esercitata già alla scadenza del termine del 30 aprile indicato per la consegna oppure nel periodo di tolleranza dei 60 giorni o addirittura alla scadenza degli stessi.
È previsto, però, che sia stata fatta formale comunicazione da parte del venditore dell’indisponibilità del veicolo e la proposta di fornirne un altro.
È esclusa la richiesta di un risarcimento del danno.
In mancanza di questa proposta alternativa, non è previsto alcun recesso e nessuna tutela per l’acquirente che sembra dover aspettare inutilmente il decorso dei 60 giorni al termine dei quali non è neppure certo che possa riavere il doppio della caparra versata perché rischia di sentirsi opporre il caso fortuito o la forza maggiore.

In soccorso dell’acquirente, ci si può allora affidare alle regole generali del Codice civile che prevedono all’art. 1453 c.c. che il contraente possa chiedere l’adempimento o la risoluzione del contratto in caso di inadempimento dell’altra parte, oltre al risarcimento del danno.
Una volta chiesta la risoluzione, però, non è più possibile chiedere l’adempimento.

Il contratto, infatti, prevede il recesso in caso di mancata consegna del bene acquistato ma, come già detto, nulla dice riguardo alle altre obbligazioni quali, ad esempio, l’onere di avvisare in un congruo termine dell’indisponibilità del veicolo e di proporne un altro come previsto al punto 3.3.
È possibile, a parere dello scrivente, sostenere che tale obbligazione sia essenziale e il suo inadempimento sia importante ai sensi dell'art. 1455 del c.c. tale da giustificare la risoluzione.
In questo caso, verrà richiesto il pagamento di quanto versato ed eventualmente il risarcimento del danno.

Si segnala, però, che per poter procedere come descritto ai sensi dell’art. 1453 c.c. è necessaria un’ammissione formale da parte del venditore, prima dello scadere dei 60 giorni, dell’impossibilità della prestazione e della mancata proposta di un’alternativa.

Si consiglia, in ogni caso, di rivolgersi ad un legale per procedere nel modo maggiormente tutelante per la parte acquirente.

M. E. C. chiede
sabato 16/01/2021 - Lombardia
“Gentilissimo Avvocato mi chiamo M. E. C. le scrivo per una situazione inerente a mio Padre P. B. C. Mi sono imbattuto nei suoi articoli inerenti agli articoli 1523-1525-1526 del codice civile e ho deciso di scriverle sicuro di un aiuto autorevole. Le spiego. Mio papà faceva i mercati ambulanti; a ottobre 2019 ha ceduto l'azienda ad una persona. Sono state cedute tutte le licenze, i cavalletti per esporre e parte di merce con un atto notarile con riserva di proprietà ex art. 1523(le allego l'atto). il pagamento doveva avvenire come da rate scritte, ma l'acquirente ha fatto un po' come ha voluto. Noi abbiamo dato la massima flessibilità e disponibilità. Sono stati versati a noi da parte dell'acquirente un assegno di 8000 euro il 21/10/2019 e un secondo pagamento, sempre con assegno, da 11000 il 26/2/2020, dopodiché nulla è stato più pagato fino ad oggi su un totale di 28000. L'acquirente in questi giorni ci ha telefonato dicendoci che non ha soldi e non intende più pagare. E ci ha invitato anche a prendere un avvocato (è molto informato e sicuro). Così mi sono messo a leggere gli articoli dei codici da ignorante e ho capito perché. Mi dica se sbaglio: per la legge, visto che lui è inadempiente per più di 1/8 del prezzo in più rate, il fatto dà luogo alla risoluzione del contratto, volendo, da parte sua o mia. Giusto?
Domanda: E' differente se sono io venditore a chiedere la risoluzione del contratto prima che lo faccia lui con un atto?

Domanda: le licenze torneranno a mio padre, ma saremo obbligati a restituire tutto l'importo da lui versato, ovvero 19000 euro, è corretto? O lui perderà i soldi versati finora a noi e ci dovrà restituire anche le licenze?
Seconda Domanda ? Avvocato non volendo più le licenze è possibile ottenere i restanti 9000 mila euro in denaro, diventando creditore del prezzo? è possibile in questo contratto? se si come devo procedere? C'è un sistema per ottenere il denaro restante? Il problema è che papà ormai ha 73 anni e non se la sente più di andare in giro, inoltre mamma non sta più bene. Le licenze ora non valgono più niente, ci sono posti vuoti, nessuno le comprerebbe, oltre a dover riaprire il tutto, inps, partita iva, ecc. e vorremmo chiudere questa cosa.


La ringrazio tanto per la sua attenzione.”
Consulenza legale i 03/02/2021
L’esame del contratto stipulato tra le parti ha confermato che si tratta effettivamente di una vendita con riserva di proprietà ex art. 1523 c.c., la cui caratteristica fondamentale consiste nel fatto che l’acquirente consegue la proprietà del bene non al momento della conclusione dell’accordo, ma solo con il pagamento dell’ultima rata di prezzo.
Ora, passando al punto specifico oggetto del quesito, è pur vero che l’art. 1526 c.c. prevede che, in caso di risoluzione del contratto per inadempimento del compratore, il venditore deve restituire le rate riscosse (salvo, comunque, il diritto a un equo compenso per l'uso della cosa, oltre al risarcimento del danno): tuttavia, come emerge dalla lettura del testo, ciò avviene appunto nell’ipotesi in cui venga pronunciata la risoluzione del contratto, ossia lo scioglimento del vincolo contrattuale a causa della violazione da parte di un contraente degli obblighi derivanti dal contratto.
Occorre, però, precisare che i singoli contratti previsti dal codice civile, oltre ad essere regolati dalle specifiche norme che li riguardano, sono soggetti alla norme generali, tra cui anche quella dell’art. 1453 c.c., secondo cui, in presenza dell’inadempimento di una parte, l’altra può scegliere se chiedere l’adempimento o la risoluzione del contratto.
Dunque, nel nostro caso, visto che il venditore ha interesse ad ottenere che si rispetti il contratto (mentre, viceversa, non ha interesse alla restituzione di quanto ceduto), può agire in giudizio per costringere il compratore ad adempiere. Anzi, il venditore potrebbe ottenere un decreto ingiuntivo che ordini al compratore il pagamento delle residue rate di prezzo, se non addirittura iniziare direttamente una procedura esecutiva sulla base del contratto poiché, ai sensi dell'art. 474 c.p.c., anche l'atto ricevuto da notaio può costituire titolo esecutivo (va comunque verificato caso per caso).
Il problema sta, semmai, nella possibilità effettiva di recuperare quanto dovuto da controparte, perché quest’ultima potrebbe non avere beni da aggredire in via esecutiva (tramite pignoramento).
Quindi bisogna fare bene attenzione al tipo di rimedio che si vuole scegliere, tenendo presente che, sempre ai sensi dell’art. 1453 c.c., il contraente che agisce per l’adempimento può “cambiare idea” e domandare successivamente la risoluzione, mentre non è possibile il contrario, cioè non può più chiedersi l'adempimento quando è stata domandata la risoluzione.
Attenzione, poi, se si sceglie la strada del decreto ingiuntivo, anche se quest’ultima è senz’altro più veloce di una causa ordinaria: infatti la giurisprudenza (Cass. Civ., Sez. II, 12/05/2003, n. 7272) ha chiarito che, sempre con riferimento alla vendita a rate con riserva di proprietà, una volta divenuto definitivo il decreto ingiuntivo emesso per il pagamento del prezzo, non è più modificabile la scelta del creditore di ottenere l'adempimento, con conseguente rinunzia alla possibilità di chiedere viceversa la risoluzione del contratto e la restituzione del bene.
Si consiglia, dunque, di rivolgersi ad un legale per esaminare la strategia difensiva più opportuna, a cominciare dalla redazione di una formale intimazione ad adempiere da indirizzarsi all’acquirente inadempiente.

Rosa S. chiede
domenica 12/04/2020 - Puglia
“Salve
sono titolare di un ecommerce, a ottobre 2019 abbiamo sottoscritto un contratto della durata di 12 mesi per la gestione dei canali social (Facebook e Instagram), ove non vi è la possibilità di recedere prima della scadenza; preceduto da un questionario dove indicavo le richieste e gli obiettivi che intendevo raggiungere con l'affidamento del servizio. A novembre i primi problemi con il social manager, risultato poco professionale e risolto dopo diverse PEC, affidandoci un nuovo social manager. Tuttavia, nei mesi di Febbraio e Marzo, riscontriamo altri problemi in essere:
- il tipo di comunicazione che ci eravamo prefissati e concordato con il SMM non viene seguita,
- i numeri di post sono inferiori a quelli pattuiti (12 mensili) per piattaforma,
- non ci sono evidenti miglioramenti sugli obiettivi prefissati e richiesti,
- i Piani Editoriali ci vengono inviati in ritardo, quindi non vi è il tempo per apportare modifiche, o non inviato come nel mese di Marzo.
- Non vengono apportate modifiche a contenuti (post) da pubblicare e una volta pubblicato, come successo di recente, lo abbiamo fatto notare ma non abbiamo avuto riscontro, recando un potenziale danno all'immagine dell' ecommerce. Non segue le mie linee su contenuti e strategia comunicativa da mettere in atto. Non risponde sempre e prontamente ai commenti sui social come previsto da contratto.

In pratica ci sono delle mancanze nell'esecuzione del contratto anche in merito ai risultati ottenuti, inoltre non vi è traccia di una strategia convenuta da attivare come previsto da consulenza pre-contrattuale.
Contattandoli via PEC, mi hanno risposto che pretendono il pagamento delle 12 mensilità altrimenti andranno per vie legali. Posso chiedere il recesso contrattuale anche se non è previsto da contratto? E' sufficiente quanto elencato per una ipotetica rescissione, seppure non prevista? Cosa rischio?
Grazie”
Consulenza legale i 20/04/2020
Il contratto di prestazione di servizi di social media marketing trasmesso prevede all’art. 6.4 che “In caso di recesso da parte dell’Esercente durante il singolo anno di validità del contratto : […] b) Non è previsto alcun rimborso del corrispettivo annuale pattuito, con facoltà per [la società] di agire per il recupero delle mensilità ancora dovute e relative all’anno in cui avviene il recesso da parte dell’Esercente, il quale si è impegnato, con la sottoscrizione della presente proposta e successiva conclusione del contratto, a corrispondere a [la società] le dodici mensilità dovute per ciascun anno di validità del contratto”.

Nel contratto non sono previste altre forme di recesso per l’Esercente ed in particolare le disposizioni contrattuali nulla prevedono in caso di inadempimento da parte della Società prestatrice dei servizi.

Peraltro, l’art. 7.6 del contratto trasmesso prevede che “Il mancato pagamento, anche di una sola mensilità, comporta: (i) la facoltà di sospendere il Servizio prescelto, senza alcun obbligo di preavviso da parte [della società] e senza alcuna possibilità per l’Esercente di richiedere qualsivoglia somma a titolo di risarcimento del danno; (ii) in caso di ritardo nel pagamento l’esercente sarà tenuto al pagamento di una penale in favore [della società] pari ad € 15,00, somma che sarà addebitata automaticamente nella mensilità successiva.”.
L’art. 7.7 prevede infine che “in caso di mancato pagamento di due rate, anche non consecutive, l’Esercente decadrà dal beneficio del termine e [la società] sarà autorizzata a richiedere l’intero pagamento del residuo del prezzo annuo dovuto”.

In mancanza, di ulteriori disposizioni contrattuali è necessario fare riferimento alle norme generali del codice civile.

Qualificando il contratto come appalto di servizi, si potrebbe applicare l’art. 1671 c.c., secondo il quale “il committente può recedere dal contratto, anche se è stata iniziata l’esecuzione dell’opera o la prestazione del servizio, purché tenga indenne l’appaltatore delle spese sostenute, dei lavori eseguiti e del mancato guadagno”.
In questo caso, tuttavia, la previsione dell’indennizzo a favore dell’appaltatore si tradurrebbe sostanzialmente nell’obbligo per il committente di pagare tutte le mensilità residue fino al termine dell’annualità, come previsto dal contratto.

Il rimedio concesso dall’ordinamento al creditore per reagire all’inadempimento del creditore è, invece, la risoluzione del contratto per inadempimento di cui all’art. 1453 c.c.: “Nei contratti con prestazioni corrispettive, quando uno dei contraenti non adempie le sue obbligazioni, l’altro può a sua scelta chiedere l’adempimento o la risoluzione del contratto, salvo, in ogni caso, il risarcimento del danno. La risoluzione per inadempimento può essere domandata anche quando il giudizio è stato promosso per ottenere l’adempimento; ma non può chiedersi l’adempimento quando è stata domandata la risoluzione. Dalla data della domanda di risoluzione l’inadempiente non può più adempiere la propria obbligazione”.
Si tratterebbe quindi di una risoluzione giudiziale, che implicherebbe quindi l’intervento di un giudice che dichiari risolto il contratto.
Durante il giudizio, peraltro, l’esercente non sarebbe comunque esonerato dal pagamento del canone. Infatti, la proposizione della domanda non esonera dal regolare pagamento del corrispettivo nel corso del giudizio.

Il codice prevede anche una soluzione diversa, una soluzione stragiudiziale. L’art. 1454 c.c. prevede infatti che “alla parte inadempiente l’altra può intimare per iscritto di adempiere in un congruo termine, con dichiarazione che, decorso inutilmente detto termine, il contratto s’intenderà senz’altro risolto”. Il termine non potrà essere inferiore a quindici giorni. Allo scadere invano di detto termine, il contratto è risolto di diritto (ossia senza necessità di ulteriore attivazione da parte del contraente diligente).
Si tratta di una soluzione indubbiamente più rapida. Tuttavia, non è priva di rischi.

È da precisare, infatti, che sia la risoluzione del contratto, sia la diffida ad adempiere presuppongono che l’inadempimento del debitore sia grave. Per la precisione il codice usa l’espressione “di non scarsa importanza” (art. 1455 c.c.). La valutazione circa la gravità dell’inadempimento è una valutazione di fatto che deve essere condotta secondo un criterio che tenga conto, sia dell'elemento oggettivo della mancata prestazione nel quadro dell'economia generale del contratto, sia degli aspetti soggettivi rilevabili tramite un'indagine unitaria sul comportamento del debitore e sull'interesse del creditore all'esatto e tempestivo adempimento. Nel caso di specie, seppure gli inadempimenti riportati rivestano una certa importanza, non è certo che vengano considerati da un giudice tali da compromettere l’equilibrio contrattuale e giustificare quindi la risoluzione del contratto.

La società di marketing potrebbe quindi reagire alla diffida con una contro diffida o citando in giudizio l’esercente per inadempimento, asserendo che lo stesso abbia risolto il contratto in assenza di un inadempimento di non scarsa importanza.

Si consiglia di avvalersi della consulenza di un legale per valutare approfonditamente la questione ed eventualmente farsi assistere nella redazione della lettera di diffida e/o per una richiesta di risarcimento danni.

LUIGI P. chiede
martedì 31/12/2019 - Molise
“Buonasera, sono locatario di un appartamento in M. il contratto è a uso abitativo.
in tale appartamento ho trasferito le sedi legali di alcune società di capitali di mia proprietà, non avendo trovato alcuna limitazione tra le norme del codice civile.
Il proprietario sostiene che il contratto è ad uso abitativo e che quindi tali società debbano essere trasferite altrove.

Vi chiedo gentilmente un Vostro parere.
cordiali saluti”
Consulenza legale i 02/01/2020
Nei contratti di locazione di unità ad uso abitativo, soprattutto di lunga durata, sono sempre inserite delle clausole che vanno a specificare meglio l’uso dell’immobile locato. Leggendone accuratamente il testo possiamo infatti trovare delle parti degli articoli del contratto, che hanno più o meno questo tenore: "L’immobile è locato ad uso esclusivo di abitazione ed è vietato il mutamento, a qualsiasi titolo, senza il consenso scritto del locatore". A tale clausola se ne aggiunge spesso un'altra che introduce espressamente il divieto di sublocare l’unità abitativa e che, inoltre, recita: "l’immobile è concesso in locazione al solo conduttore ed alle seguenti persone con lui abitualmente conviventi…".

Il trasferire la sede legale di una società di capitali all’interno dell’abitazione dell’amministratore, o di uno dei soci, è un comportamento che seppur frequente e in parte anche tollerato dal proprietario, va espressamente a violare le clausole contrattuali sopra descritte, anche se non si crea una vera sede operativa della società ma si stabilisce un domicilio per ricevere la posta e le varie comunicazioni.

È importante precisare che giuridicamente le società, siano esse di capitali o di persone, sono dei soggetti di diritto, o meglio persone giuridiche come dice il nostro codice civile, che devono essere tenute distinte dalle persone fisiche che le compongono.

Quindi, applicando tutto ciò al quesito di specie, per la legge l’amministratore Tizio della società Alfa S.r.l., nel momento in cui trasferisce la sede legale della società presso la propria abitazione in affitto, non agisce nel mondo giuridico come la persona fisica Tizio ma come la persona giuridica Alfa S.r.l., ma non vi è alcun legame che lega la società Alfa S.r.l. al proprietario dell’appartamento locato, quindi a che titolo l’Alfa S.r.l. può stabilire in quello stabile la sua sede legale?

Inoltre, per sua stessa definizione, una società non può avere finalità abitative, ma solo produttive ed imprenditoriali. In conclusione, quindi, Tizio che arbitrariamente pone la sede legale della sua società nell’immobile da lui occupato con la famiglia a titolo di locazione, viola le norme contrattuali in quanto introduce nell’appartamento un nuovo soggetto non previsto e che per di più non può avere alcuna finalità abitativa. A fronte di tale violazione contrattuale il proprietario avrà pieno diritto di adire il giudice per chiedere la risoluzione del contratto per inadempimento ai sensi degli artt. 1453 e ss. del c.c.

Giuseppe G. chiede
giovedì 21/11/2019 - Toscana
“Buongiorno,
mi chiamo Giuseppe e due anni fa ho acquistato un appartamento in un super condominio a San Vincenzo (Li) che (sulla carta) è composto da 40 appartamenti divisi in 8 blocchi.
Attualmente sono stati costruiti solo 3 blocchi per un totale di 16 appartamenti, solo 10 venduti.

Quando ho acquistato l’appartamento come da capitolato mancava la piscina e il solarium, l’anno dopo hanno costruito la piscina e al posto del solarium hanno costruito un giardino condominiale.
Questo giardino, l’ha costruito la ditta costruttrice senza chiedere il permesso a nessuno e senza farci pagare niente, anche perché ancora non avevamo l'amministratore di condominio.

Adesso pero, per mantenerlo, il costo del solo giardiniere è di 2000 euro l’anno e non lo utilizza nessuno! Se c'era il solarium era meglio.
La ditta però dice che così è più bello!

Il miei quesiti sono:
N. 1: Posso io considerarlo innovazione e quindi come da articolo 1121 del c.c. posso chiedere di essere esonerato dalle spese di manutenzione? Perché non l'ho mai adoperato e mai lo adopererò, anche perché ho il mio giardino privato!
N. 2: Posso chiedere all’amministratore di condominio di mettere all’ordine del giorno della prossima assemblea con voto, la modifica della ripartizione delle spese per innovazioni (e solo per quelle) da millesimale a quarantesimi come dal numero di appartamenti a fine lavori?.

Adesso siamo in 10 condomini che paghiamo tutte le spese, in più paghiamo le migliorie che vogliono fare, che invece dovrebbero essere ripartite sui 40 appartamenti totali.
Chi acquisterà in futuro gli altri appartamenti si troverà tutto gratis.
Esempio: tavoli, panchine, barbecue ecc.

In attesa di una gradita risposta
Cordiali Saluti

Consulenza legale i 29/11/2019
Nel caso proposto la normativa condominiale deve intrecciarsi necessariamente con la disciplina della vendita di immobile da costruire.
Nel momento in cui l'impresa costruttrice ha sottoscritto il preliminare di vendita prima e il rogito di acquisto definitivo poi, essa non ha assunto solo l’obbligo di realizzare l’edificio in cui è ricompresa l’unità abitativa acquistata dall’autore del quesito, ma nei confronti di ogni soggetto che acquistato un appartamento ricompreso nel complesso, ha assunto anche l’obbligo di realizzare tutte le opere ricomprese nel capitolato, anche quelle che per destinazione oggettiva saranno poi considerate condominiali o super condominiali a seconda dei casi.
In questo senso è molto chiaro il 2° co. dell’art. 1477 del c.c., il quale ci dice che salvo diversa volontà delle parti la cosa venduta deve essere consegnata insieme con gli accessori, le pertinenze e i frutti dal giorno della vendita. In questo senso quindi il capitolato diventa un vero e proprio documento integrativo dei contratti sottoscritti tra le parti, in cui vengono indicati anche tutti gli elementi accessori e le pertinenze agli immobili venduti e che la società venditrice ha l’obbligo di realizzare e di mettere a disposizione degli attuali proprietari e di quelli che verranno. L’impresa edile con la consegna degli immobili ha quindi solo parzialmente adempiuto agli obblighi assunti nei confronti degli acquirenti, dovendo ancora terminare la realizzazione di parte delle opere promesse.

Per quanto detto sopra, tutti le parti comuni condominiali o super condominiali che erano previste nel progetto originario del complesso, devono essere realizzate dalla impresa costruttrice, senza che i proprietari siano chiamati a concorrere nelle spese. È chiaro che se gli attuali proprietari volessero apportare delle modifiche al progetto originario e a quanto già edificato, queste devono considerarsi innovazioni a tutti gli effetti ai sensi degli artt. 1120 e ss. del c.c., quindi la loro realizzazione dovrà essere deliberata dalla assemblea di condominio, di cui farà parte anche l’impresa costruttrice fino a quando non venderà l’ultimo appartamento, e se in sede di riunione si raggiungeranno le maggioranze previste dall’art.1136 del c.c. si potrà realizzare la modifica con la partecipazione economica di chi finora è proprietario, anche quindi dell’ impresa costruttrice.

Per il fatto che la realizzazione del solarium fosse previsto nel capitolato originario dell’opera, la sua sostituzione con una area giardino costituisce non tanto una innovazione gravosa e voluttuaria ai sensi della disciplina condominiale, ma un inadempimento contrattuale da parte della società costruttrice agli obblighi assunti con i contratti che hanno portato alla vendita.
Nel caso specifico, a parere di chi scrive, si è concretizzata una vendita aliud pro alio, ovvero la vendita di una cosa per un'altra: l’impresa costruttrice mi ha promesso di vendermi la quota di comproprietà condominiale di un solarium e, invece, mi ritrovo comproprietario di un giardino.
Sul punto si veda Cass. civ., Sez. II, n. 7630 del 31.03.06, secondo la quale ricorre l’aliud pro alio non solo quando il bene sia totalmente difforme da quello dovuto e tale diversità sia di importanza fondamentale e determinante nella economia del contratto, ma anche quando la cosa appartenga ad un genere del tutto diverso dal bene oggetto della compravendita o si presenti priva delle caratteristiche funzionali necessarie a soddisfare i bisogni dell’acquirente.

Nel caso di vendita di un bene per un altro non trovano applicazione i rigidi termini di decadenza e prescrizione previsti dall’art. 1495 del c.c. per esercitare le azioni edilizie nel contratto di vendita di cui agli artt.1490 e ss. del c.c., ma la normativa generale sulla risoluzione del contratto o esatto adempimento disciplinata dagli artt. 1453 e ss. del c.c. Secondo il 1° comma dell’art. 1453 del c.c.: "Nei contratti con prestazioni corrispettive, quando uno dei contraenti non adempie le sue obbligazioni, l'altro può a sua scelta chiedere l'adempimento o la risoluzione del contratto, salvo, in ogni caso, il risarcimento del danno".

Nel caso di specie, è sicuramente diseconomico agire per la risoluzione dell’intero contratto di vendita, in quanto ciò comporterebbe, qualora si risultasse vittoriosi in giudizio, il venir meno della vendita con l’obbligo di dover restituire l’immobile acquistato (si immagina non sia questo ciò che si desidera). Si potrebbe, però, agire in giudizio per richiedere l’esatto adempimento degli obblighi contrattuali assunti, e, quindi, pretendere che al posto del giardino sia edificato un solarium, con richiesta anche del risarcimento del danno per non averlo fatto subito, come previsto da capitolato. In merito a tale ultimo aspetto, i danni patiti si possono tranquillamente quantificare nei costi sostenuti per il mantenimento del giardino. L’azione di esatto adempimento e risarcimento ha, tra l’altro, tempistiche di prescrizione molto ampie, in quanto si può agire in giudizio fino a dieci anni dalla conclusione del contratto di vendita, ai sensi dell’art.2946 del c.c.

Quanto finora descritto sono iniziative che possono essere assunte non tanto come condomino, ma come acquirente della unità immobiliare. Vi sono, peraltro, anche dei rimedi che possono essere chiamati in causa nell’ambito condominiale.
Si deve tener ben presente che il condominio, come anche il super condominio, si realizza giuridicamente nel momento in cui l’originario costruttore vende la prima unità abitativa; è per il semplice fatto che in un edificio vi è la presenza di più proprietari di unità abitative che scatta l’applicabilità della normativa condominiale, e quindi la necessità per i condomini di riunirsi in assemblea e nominare un amministratore.

Nel momento in cui la società edile vende la prima unità abitativa essa assume, quindi, anche la veste di condomino con l’obbligo di rispettare la normativa condominiale ed in particolare nel caso di specie il nuovo art. 1117 quaterquater del c.c. Tale norma, non redatta, a dire il vero, in maniera del tutto chiara, introduce una specifica tutela nel caso in cui un condomino ponga in essere delle attività che incidano negativamente e in modo sostanziale sulle destinazioni delle parti comuni dell’edificio. La norma in esame dà la possibilità anche al singolo condomino, oltre che al nominato amministratore, di diffidare il soggetto che ha posto in essere tali comportamenti di cessarli, e di convocare l’assemblea dei proprietari affinché la stessa, con le maggioranze di cui al 2° co. dell’art. 1136 del c.c., deliberi sulle iniziative, anche giudiziarie, da intraprendere per porre fine a tali comportamenti scorretti.

Venendo ora a trattare della possibile modifica, anche temporanea al regolamento condominiale disciplinante le maggioranze richieste per l’approvazione di eventuali future innovazioni vi è da dire che essa non è assolutamente possibile. Il 2°comma dell'art. 1138 del c.c., infatti, ci dice chiaramente che il regolamento condominiale non può andare a derogare alla normativa sulle innovazioni ex art. 1120 del c.c., ne alla normativa sul funzionamento dell'assemblea di cui all'art. 1136 del c.c.. Pertanto, la modifica che si vorrebbe effettuare non può trovare attuazione.

Marta C. chiede
giovedì 13/12/2018 - Liguria
“Buonasera, una decina di anni fa ho acquistato un immobile con box; avendo avviato un attività e usando il box come magazzino ho scoperto presentando la SUAP in Comune che sia box che casa sono senza agibilità. Posso valermi su chi me l'ha venduta per avere un minimo risarcimento, anche perché informandomi in Comune mi è stato detto che l'iter per avere la certificazione è molto lungo. La mia casa si trova in un complesso residenziale in cui buona parte degli immobili (informandomi dall'amministratore) ne è sprovvisto, so che ci sono state varie pratiche mosse dai singoli o da gruppi di condomini per averle ma senza risultato.
Grazie cordialmente Marta”
Consulenza legale i 15/12/2018
In primo luogo, per inciso, puntualizziamo che oggi il certificato (o licenza) di agibilità, non esiste più. Si parla, piuttosto, di “segnalazione certificata di agibilità” prevista dall’art. 24 DPR 380/2001, così come da ultimo modificato con il D.Lgs 222/2016, che dispone infatti: “La sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità, risparmio energetico degli edifici e degli impianti negli stessi installati, valutate secondo quanto dispone la normativa vigente, nonché la conformità dell'opera al progetto presentato e la sua agibilità sono attestati mediante segnalazione certificata.”
Si tratta, in sostanza, di un’autocertificazione: i soggetti titolari del permesso di costruire sono tenuti a presentare una segnalazione certificata di agibilità al Comune, corredata da altra documentazione.

Ciò precisato, va premesso che l’aspetto relativo all’agibilità non incide sulla validità dell’atto di trasferimento del bene ma soltanto sulla commerciabilità di quest’ultimo.
A tal proposito, la Corte di Cassazione con sentenza n.2294 del 2017 ha sottolineato che: “in materia di vendita di immobile destinato ad abitazione, questa Corte spiega che integra ipotesi di consegna di aliud pro alio il difetto assoluto della licenza di abitabilità ovvero l'insussistenza delle condizioni necessarie per ottenerla in dipendenza della presenza di insanabili violazioni della legge urbanistica (cfr. Cass. 27.7.2006, n. 17140). E soggiunge che il venditore di un immobile destinato ad abitazione ha l'obbligo di consegnare all'acquirente il certificato di abitabilità, senza il quale l'immobile stesso è incommerciabile; e che la violazione di tale obbligo può legittimare sia la domanda di risoluzione del contratto, sia quella di risarcimento del danno, sia l'eccezione di inadempimento, e non è sanata dalla mera circostanza che il venditore, al momento della stipula, abbia già presentato una domanda di condono per sanare l'irregolarità amministrativa dell'immobile”.
Dalla lettura della predetta sentenza (conforme ad altre di legittimità) emerge appunto che di fronte ad una mancanza di agibilità, la tutela legale riguarda l’inadempimento del venditore e non eventuali azioni di nullità dell’atto.
Di conseguenza, le azioni esperibili sono quelle relative alla risoluzione (art. 1453 c.c.), oltre al risarcimento del danno.
Tuttavia, tali tipo di azioni non sono imprescrittibili: non possono cioè essere esperite in ogni tempo ma hanno dei tempi di prescrizione previsti dal legislatore.

L'azione contrattuale di risoluzione, ai sensi dell'art. 1453 c.c., è soggetta all'ordinario termine di prescrizione decennale (Cfr. ad esempio, Cass. Sez. 1, 05/02/2016, n. 2313; Cass. Sez. 2, 09/11/2012) e può essere accompagnata dalla domanda di risarcimento del danno.
L’aspetto fondamentale è individuare il momento di decorrenza di tale azione (art. 2935 c.c.).
Con la recente sentenza n.1889 del 2018 la Corte di Cassazione ha sottolineato che: “Agli effetti previsti dall'art. 2935 c.c., il termine di prescrizione del diritto dell'acquirente alla risoluzione del contratto ed al risarcimento del danno, derivante dalla vendita di aliud pro alio, decorre, pertanto, non dalla data in cui si verifica l'effetto traslativo ma dal momento in cui, rispettivamente, ha luogo l'inadempimento e si concreta la manifestazione oggettiva del danno, avendo, cioè, riguardo all'epoca di accadimento del fatto lesivo, per come obiettivamente percepibile e riconoscibile, e non al dato soggettivo della conoscenza della mancata attuazione della prestazione dovuta e del maturato diritto risarcitorio da parte del creditore, conoscenza che potrebbe essere colpevolmente ritardata pure per incuria del medesimo titolare del diritto”.

Ciò premesso, nel caso in esame (come espressamente specificato nel quesito), vi è un interesse soltanto al risarcimento del danno più che all’azione di risoluzione.
Il termine di prescrizione quando si tratta di risarcimento danni varia in base al tipo di danno: extracontrattuale o contrattuale.
Il nostro caso, rientra sicuramente nella seconda ipotesi e, pertanto, si applica l'art. 2946 c.c. che prevede il termine ordinario di decorrenza decennale.

Appurato ciò, che vi siano gli estremi per potere richiedere al venditore il risarcimento del danno anche nella presente vicenda appare pacifico.
Come ha osservato infatti la Suprema Corte nella sentenza n.23157 del 2013: “la mancata consegna del certificato di abitabilità implica un inadempimento che, sebbene non sia tale da dare necessariamente luogo a risoluzione del contratto, può comunque essere fonte di un danno risarcibile, configurabile anche nel solo fatto di aver ricevuto un bene che presenta problemi di commerciabilità, essendo al riguardo irrilevante la concreta utilizzazione ad uso abitativo da parte dei precedenti proprietari “.

Alla luce di quanto precede, la risposta alla domanda contenuta nel quesito deve intendersi senz’altro positiva.
Infatti, l’azione di risarcimento danno deve essere ritenuta ancora esperibile in quanto il termine decennale di prescrizione – come sopra specificato- non decorre dalla data della stipula dell’atto di compravendita ma da quella in cui “si concreta la manifestazione oggettiva del danno, avendo, cioè, riguardo all'epoca di accadimento del fatto lesivo, per come obiettivamente percepibile e riconoscibile”. Nella presente vicenda, riteniamo che tale epoca possa essere individuata nel momento in cui è stata presentata la SUAP.
Pertanto suggeriamo, possibilmente a mezzo di un avvocato, di inviare una lettera (raccomandata a/r o pec) al venditore dell’immobile con cui si contesta l’inadempimento e si formula formale richiesta di risarcimento danni.

Michele V. chiede
venerdì 03/02/2017 - Umbria
“Salve,
ho sottoscritto con un agenzia di Marketing un contratto ma questa non ha rispettato i tempi di realizzazione del sito web e soprattutto ha eseguito un lavoro molto blando che non mi soddisfa. Posso recedere dal contratto per inadempienza ? Qual è il miglior modo per farlo ? Ho corrisposto già un importo di € 1.999,58 ma non vorrei corrispondere il restante.




Consulenza legale i 09/02/2017
Prima di tutto ricordiamo la distinzione tra recesso e risoluzione del contratto.
Non è questione priva di rilevanza pratica e può essere utile anche in caso di sottoscrizione di futuri contratti.

Il recesso corrisponde alla situazione in cui una delle parti si libera unilateralmente dagli obblighi contrattuali; può essere libero o condizionato, dipende dalla legge o dagli accordi tra le parti.
La risoluzione, invece, comporta lo scioglimento del contratto qualora si verifichino determinati presupposti, tra i quali – il più frequente – è l’inadempimento di una delle parti.

Nel caso di specie, dunque, posto che è prevista contrattualmente la facoltà di recesso dopo 6 mesi dalla sottoscrizione (ed il termine è già decorso), è comunque più corretto parlare di risoluzione per inadempimento.
Infatti, chi pone il quesito non intende semplicemente sciogliersi dal vincolo ma far valere il mancato rispetto degli accordi, il che comporta, a differenza che nell’ipotesi di semplice recesso, anche il diritto al risarcimento del danno.
Il contratto in esame è molto penalizzante per l’aderente l’offerta, perché limita notevolmente la facoltà di sollevare eccezioni per colui che ha richiesto il servizio.

In particolare rileva l’art. 4 delle condizioni generali di contratto il quale limita la responsabilità di chi offre il servizio ai soli casi di dolo (diritto civile) o colpa grave.
Una clausola come questa, purtroppo, è pienamente valida, sia ai sensi dell’art. 1229 c.c. (che vieta l’esclusione o la limitazione, in via preliminare, della responsabilità per colpa grave o dolo) che ai sensi degli articoli 1341 e 1342, che precisano come le cosiddette “clausole vessatorie” – com’è quella in commento – sono consentite, purché sottoscritte due volte da parte dell’aderente (la doppia sottoscrizione dovrebbe garantire, secondo il legislatore, che il contraente abbia letto e ben compreso il contenuto delle medesime).

Occorre, quindi, valutare se gli inadempimenti lamentati rientrino o meno nelle due sole ipotesi di responsabilità previste contrattualmente, cioè dolo o colpa grave.
In ordine al ritardo nella consegna del lavoro finito, il dolo sembrerebbe doversi escludere senza alcun dubbio. Ugualmente pare difficile che il ritardo possa ricondursi ad un’ipotesi di colpa grave: la colpa è il difetto di diligenza, di accortezza o di competenza tecnica con cui si compie un’azione o se ne omette altra, quando, dall'azione o dall'omissione, sia derivato o sia per derivare certamente un danno ad altri.
Ora, il codice civile utilizza in diversi casi l’espressione “colpa grave” (ad esempio nella disciplina della responsabilità del professionista, art. 2236) ma non ne offre una definizione. Molti studiosi, ad esempio, ritengono che la colpa grave sia del tutto assimilabile al dolo.
Ciò per dire, in ordine al quesito che ci occupa, che la colpa grave deve consistere in un comportamento di per sé oggettivamente grave e dalle conseguenze particolarmente pesanti per la parte che ne riceve un danno: nel caso in esame non pare che il rispetto del termine di consegna indicato in contratto fosse essenziale per il cliente (tanto più che nel testo dell’accordo non è stata inserita l’apposita dicitura, appunto, sull’essenzialità del termine, il che avrebbe reso pressoché automatico l’inadempimento in caso di ritardo).

Per quel che riguarda, invece, il risultato del lavoro, che il cliente giudica non soddisfacente (pare, infatti, di capire che non si imputino alla controparte errori oggettivi sul servizio o che si lamenti una prestazione diversa da quella concordata, ma che venga fatta semplicemente una valutazione soggettiva sul risultato, ritenuto poco convincente), per poter sollevare eccezione di inadempimento occorre che il disservizio lamentato dal cliente sia riconducibile alla definizione contrattuale. Il contratto, infatti, stabilisce che l’offerente è responsabile solamente per una determinata tipologia di disservizio: “errori relativi alla pubblicità commissionata o al servizio o al prodotto che annullino o ritardino gravemente l’efficacia della stessa (…)”.
Ad avviso di chi scrive, in effetti, il cliente lamenta proprio l’inefficacia del servizio reso rispetto al risultato sperato/atteso (si parla, infatti, di lavoro “blando”). Vi sarebbero, quindi, in teoria i presupposti per chiedere i danni e risolvere il contratto.

Tuttavia, va tenuto presente che il contratto recita altresì, di seguito: “(…) e che le siano segnalati dal Cliente con raccomandata A.R. entro 60 giorni dalla consultabilità della pubblicità commissionata sul mezzo prescelto”; considerati i tempi indicati nell’offerta, anche considerando il ritardo, è legittimo presumere che i 60 giorni siano già trascorsi e che quindi non sia più possibile eccepire alcunché.

In definitiva, la strada della risoluzione per inadempimento sembra preclusa, mentre sarà forse opportuno recedere quanto prima dal contratto (sotto questo profilo, peraltro, la convenienza attuale di recedere dipende tutta da quanto lavoro ancora rimane da fare).
Si può tentare di “trattenere” quanto ancora dev’essere pagato a titolo di risarcimento forfettario: ma tale comportamento, per quanto sopra illustrato, è rischioso e potrebbe prestare il fianco ad azioni di recupero credito.

Dario M. chiede
venerdì 21/10/2016 - Sicilia
“Salve vorrei sapere la seguente informazione di diritto amministrativo naturalmente documentando con leggi ed eventuali sentenze: un istituto scolastico era solito acquistare la cancelleria solo con un ordine verbale e per diverso tempo andava bene da parte del sig Tizio. Un giorno il preside dell'istituto cambia e il nuovo preside contesta l'acquisto del materiale non pagando il materiale. Ora il negozio di fornitura di cancelleria ha citato l'istituto scolastico dal giudice di pace e l'avvocatura di stato ha fatto appello citando il d.lgs 163 del 2006 art 125 124 cosa si può citare in controdeduzione dell'appello? Vorrei aggiungere che si tratta di acquisti di cancelleria sotto soglia in quanto di 1.000 euro.”
Consulenza legale i 26/10/2016
Il d.lgs. n. 163/2006 (c.d. codice degli appalti) è stato recentemente modificato da un massiccio intervento normativo (d.lgs. n. 50 del 18/4/2016 in vigore dal 19/4/2016), il quale ha di fatto riscritto e abrogato alcune disposizione del succitato d.lgs. n. 163/2006.

Nel caso di specie, sono stati abrogati tanto l’art. 124 (relativo agli appalti di servizi e forniture sotto soglia) quanto l’art. 125 da Lei citati (relativo ai lavori, servizi e forniture in economia).

Ad ogni buon conto, per poter fornire una risposta più completa al Suo quesito occorrerebbe quantomeno sapere il contenuto dell’atto di citazione dinanzi al Giudice di Pace, oltre che della comparsa di costituzione e risposta redatta dall’Avvocatura dello Stato. Perché – poi – si parla di appello? Parrebbe di capire che siamo ancora in fase di primo grado, dinanzi al Giudice di Pace, appunto.

A parere di chi scrive, l’Avvocatura dello Stato ha forse citato il codice degli appalti (in vigore al momento in cui è sorto il diritto azionato, quindi a nulla vale l’abrogazione del d.lgs. n. 50/2016, riportato sopra) in quanto unica modalità giustificativa del contratto “verbale”: parrebbe di capire che la scuola si sottrae dall’adempimento poiché la fornitura di servizi viene fatta in regime di amministrazione diretta. In altre parole, la scuola afferma l’acquisizione della fornitura con mezzi e materiali propri (ai sensi dell’art. 125, comma 3 del codice degli appalti vecchio testo). Nella memoria integrativa occorrerebbe dunque dare prova di una regolare fornitura di cancelleria alla scuola (ad esempio, mediante la produzione delle bolle accompagnative dei materiali forniti, oppure dei pagamenti regolari effettuati dalla scuola stessa a fronte di regolare emissione di fattura), per dimostrare l’esistenza fattuale di un contratto solo verbale, che è stato inadempiuto dalla scuola stessa.
Ciò che non è chiaro è perché – in presenza di regolari fatture (in assenza di ulteriori informazioni) – non si sia proceduto con decreto ingiuntivo, oppure perché non si sia proceduto con atto di citazione con cui si richiedeva – oltre al pagamento delle forniture effettuate – anche il risarcimento dei danni per inadempimento contrattuale ai sensi dell’art. 1453 c.c..

Rimedia M. chiede
martedì 08/03/2016 - Sardegna
“Nel 2011 ho comprato un appartamento, sito al quarto piano di uno stabile facente parte a sua volta di un complesso edilizio più ampio, comprendente diversi moduli. Al momento del rogito (aprile 2011), il mio appartamento e lo stabile che lo conteneva erano quasi terminati, mentre gli altri moduli del complesso erano ancora in costruzione.

Per il mio appartamento, l'atto di compravendita precisava quanto segue: "Sono compresi, altresì, nella presente vendita, e costituiscono pertinenza esclusiva dell'appartamento come sopra descritto in quanto destinati a servizio del medesimo, numero due posti auto ubicati nell'area condominiale destinata a parcheggio e a giardino, pertinenziale, detta area, all'intero complesso residenziale di cui fanno parte le unità immobiliari in oggetto."

Inoltre, in riferimento ai lavori da completare, l'atto indicava quanto segue:
"Parte venditrice precisa che il complesso immobiliare di cui fanno parte le unità in oggetto è ancora in corso di ultimazione, risultano ancora da completare le parti comuni dell'intero complesso, nello specifico i lavori da eseguire sono relativi al funzionamento dell'ascensore, ai citofoni, all'antenna satellitare centralizzata, alle scale e alla ringhiera, contatori ENEL, il collegamento delle cisterne erogatrici di gasolio alle caldaie individuali, nonché l'allestimento e l'effettiva individuazione dei predetti due posti auto all'interno dell'area condominiale; la medesima parte venditrice con il presente atto espressamente si obbliga a completare i suddetti lavori entro 6 (sei) mesi da oggi."

Al momento dell'atto, io ho pagato il prezzo intero. A oggi (5 anni dopo), la maggior parte dei lavori sopra elencati non sono stati ancora completati: tra le inadempienze più evidenti c'è il mai avvenuto allaccio al servizio elettrico (c'è ancora la luce di cantiere), con conseguente mancato utilizzo dell'ascensore; inoltre, non è mai stata allestita nessuna area giardino/parcheggio condominiale esterna nella quale si dovrebbero trovare due posti auto di mia pertinenza esclusiva. Dubito che quest'ultima venga fatta mai, perché il venditore/costruttore sta progettando un diverso utilizzo dell'area in questione.

La mia domanda è: cosa posso fare per 1) obbligare il venditore ad adempiere, e/o 2) ottenere il risarcimento dei danni causati alla mia famiglia dal perdurare di questa situazione e dalla effettiva incommerciabilità dell'appartamento, e/o 3) ottenere una riduzione del prezzo.”
Consulenza legale i 16/03/2016
Nel caso di specie viene richiesto quale sia la tutela fornita dal nostro ordinamento nel caso in cui un venditore di un'immobile sia inadempiente rispetto a quanto pattuito nel contratto di vendita; in particolare, pure impegnandosi a terminare dei lavori nel termine di sei mesi successivi al rogito, a distanza di ben cinque anni, non ha ancora provveduto ad ultimare e consegnare tali lavori.
Considerato che numerosi risultano i lavori non eseguiti da parte del costruttore (mancata consegna di due garage, impossibilità di utilizzare l'ascensore, etc.), la fattispecie potrebbe essere riconducibile all'ipotesi di cui all'art. 1453, comma 1, del c.c. (risoluzione per inadempimento). Tale articolo prevede che: "nei contratti con prestazioni corrispettive, quando uno dei contraenti non adempie le sue obbligazioni, l'altro può a sua scelta chiedere l'adempimento o la risoluzione del contratto, salvo, in ogni caso, il risarcimento del danno".
Pertanto, nel caso di specie, si conferma che l'acquirente può, in primo luogo, richiedere l'adempimento del contratto (realizzazione dei parcheggi, oltre che alla sistemazione degli allacci, etc.), avvalendosi dell'art. 2931 del c.c., il quale disciplina l'esecuzione forzata degli obblighi di fare: "Se non è adempiuto un obbligo di fare, l'avente diritto può ottenere che esso sia eseguito a spese dell'obbligato nelle forme stabilite dal codice di procedura civile".
In sostanza, si ritiene che si dovrà provvedere a richiedere l'accertamento in via giudiziale dell'inadempimento del venditore, al fine di ottenere una sentenza di condanna per violazione di un obbligo di fare.
Successivamente, ai sensi dell'art. 612 e ss. del c.p.c.: "1. Chi intende ottenere l'esecuzione forzata di una sentenza di condanna per violazione di un obbligo di fare o di non fare, dopo la notificazione del precetto, deve chiedere con ricorso al giudice dell'esecuzione che siano determinate le modalità dell'esecuzione".
Al secondo comma del medesimo articolo "Il giudice dell'esecuzione provvede sentita la parte obbligata. Nella sua ordinanza designa l'ufficiale giudiziario che deve procedere all'esecuzione e le persone che debbono provvedere al compimento dell'opera non eseguita o alla distruzione di quella compiuta".
Ai sensi dell'art. 1453 del c.c., già richiamato, in alternativa alla richiesta di adempimento, può essere richiesta altresì la risoluzione del contratto, con le seguenti precisazioni:"2. La risoluzione può essere domandata anche quando il giudizio è stato promosso per ottenere l'adempimento; ma non può più chiedersi l'adempimento quando è stata domandata la risoluzione. 3. Dalla data della domanda di risoluzione l'inadempiente non può più adempiere la propria obbligazione".
Tuttavia, in virtù del disposto di cui all'art. 1493 del c.c. ("In caso di risoluzione del contratto il venditore deve restituire il prezzo e rimborsare al compratore le spese e i pagamenti legittimamente fatti per la vendita. Il compratore deve restituire la cosa, se questa non è perita in conseguenza dei vizi"), dal quale deriverebbe l'obbligo di restituire l'immobile al venditore, si dubita che si possa avere un interesse alla risoluzione del contratto.
In ogni caso, sia che venga richiesto l'esatto adempimento dell'obbligazione, sia che si richieda la risoluzione, è fatta salva la richiesta di risarcimento del danno subito dal compratore, ai sensi dell'art. 1223 del c.c.: "Il risarcimento del danno per l'inadempimento o per il ritardo deve comprendere così la perdita subita dal creditore come il mancato guadagno, in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta".
Con riferimento alla ulteriore possibilità di richiedere la riduzione del prezzo, occorre richiamare il dettato di cui all'art.1492 del c.c., il quale prevede che:"Nei casi indicati dall'articolo 1490 il compratore può domandare a sua scelta la risoluzione del contratto - di cui abbiamo già parlato - ovvero la riduzione del prezzo, salvo che, per determinati vizi, gli usi escludano la risoluzione. La scelta è irrevocabile quando è fatta con la domanda giudiziale".
Per completezza si rileva che, in generale, la risoluzione del contratto si può chiedere solo in caso di inadempimento grave della controparte; nel caso, invece, in cui tale inadempimento non riguardi una qualità essenziale del bene, è possibile solo chiedere la riduzione del prezzo di vendita.
Dunque, se il difetto non è tale da rendere il bene completamente inservibile - valutazione da effettuarsi con riferimento ai lavori non ancora eseguiti ad oggi - sembrerebbe più opportuno proporre la richiesta di riduzione del prezzo, dato che, diversamente, il giudice potrebbe rigettare la richiesta di risoluzione.

Walter B. chiede
giovedì 15/10/2015 - Veneto
“Lavori di ristrutturazione.
Ho sottoscritto un preventivo indicando un termine essenziale per la consegna di lavori di ristrutturazione e consegna delle relative certificazioni e schede tecniche dei materiali usati.
Ho inoltre specificato nel preventivo le caratteristiche essenziali che dovessero avere i materiali.
Ho pagato un cospicuo acconto al momento della sottoscrizione del preventivo.
Allo scadere del termine essenziale i lavori sono stati terminata ma le certificazioni e le schede tecniche mi sono state consegnate solamente due mesi dopo.
Quindi l’azienda è stata inadempiente al termine essenziale non per la consegna dei lavori ma per la consegna dei documenti, e schede tecniche.
Inoltre, su una prima parte degli infissi consegnati ho riscontrato dei vizi e difetti purtroppo non sanabili che pur non pregiudicando l’utilizzo dei manufatti stessi ne diminuiscono sensibilmente il valore.
Su una seconda parte della fornitura ho riscontrato invece la non rispondenza alle caratteristiche tecniche essenziali, specificate nel preventivo.
Pertanto, a causa della mancata rispondenza di questa seconda parte della fornitura, non è possibile chiedere il certificato di abitabilità all’ immobile.
Ora mi viene richiesto il saldo della fattura.
Non so se sia meglio fare una azione di inadempienza per la mancata consegna dei documenti entro il termine essenziale ( che quindi copra sia la prima che la seconda parte della fornitura ) oppure chiedere:
-una riduzione del prezzo per vizi e difetti per la prima parte della fornitura
-una risoluzione per inadempimento per la seconda parte della fornitura
La fattura è una sola e comprende sia la prima che la seconda fornitura
Cordialità
Consulenza legale i 19/10/2015
Dalla descrizione della vicenda emergono tre condotte dell'appaltatore che possono far sorgere una sua responsabilità contrattuale nei confronti del committente:
1. il mancato rispetto del termine per la consegna delle certificazioni e schede tecniche dei materiali usati per l'esecuzione delle opere;
2. l'omessa corrispondenza di una parte dei materiali alle caratteristiche promesse nel preventivo, per iscritto: circostanza che ha comportato l'impossibilità di chiedere il certificato di abitabilità dell'immobile;
3. la presenza di vizi e difetti delle opere, tali da rendere la prestazione effettuata di minor valore rispetto al prezzo concordato.
Si reputa che, astrattamente, le tre condotte possano essere tutte ugualmente e parimenti valorizzate in un procedimento civile a carico dell'appaltatore, naturalmente tenendo il considerazione la volontà del committente di ottenere una riduzione del prezzo e il corretto adempimento, oppure una risoluzione in toto del contratto.

Va premesso che non sembra opportuno né corretto frazionare il contratto in due negozi distinti, ciascuno avente ad oggetto una fornitura: difatti, il preventivo è unico, così come l'opera commissionata. Ad essere frazionata è stata solo l'esecuzione dell'appalto, di tal che non appare legittimo ragionare in termini di risoluzione di una parte del contratto e riduzione del prezzo per un'altra. Il rapporto va visto, quindi, globalmente.

Si ritiene che i punti 2. e 3. possano essere trattati congiuntamente e ricondotti alla disciplina della garanzia per i vizi nel contratto di appalto (artt. 1667 ss. c.c.).

Per quanto concerne i vizi riscontrati sulle opere, la disciplina dell'appalto prevede, innanzitutto, che il committente, a pena di decadenza, debba denunziare all'appaltatore le difformità o i vizi entro sessanta giorni dalla scoperta (art. 1667 del c.c.). Tale passaggio va effettuato in ogni caso, per poter far valere l'azione di garanzia entro due anni dalla consegna, quindi il primo consiglio è certamente quello di redigere per iscritto la denunzia e inviarla con mezzo che consenta di accertare il ricevimento (raccomandata a.r., pec).

La fornitura di materiale privo delle caratteristiche promesse può farsi rientrare tra le difformità di cui all'art. 1667. Infatti, difformità e vizi implicano una divergenza rispetto agli accordi contrattuali e la mancanza di qualità che devono essere proprie dell'opera appaltata.
Poiché la volontà delle parti è sovrana e, nel caso di specie, esiste un preventivo scritto che appare essere molto dettagliato, in un futuro giudizio sarà relativamente semplice dimostrare che il materiale consegnato non rispetta le particolari caratteristiche richieste dal committente. Sarà sufficiente confrontare quanto scritto nel preventivo con i beni materialmente consegnati.

Con l'attivazione della garanzia, le opzioni che si aprono per il committente risultano essere le seguenti (art. 1668 del c.c.):
- egli può chiedere che le difformità o i vizi siano eliminati a spese dell'appaltatore, oppure che il prezzo sia proporzionalmente diminuito, salvo il risarcimento del danno nel caso di colpa dell'appaltatore;
- solo se le difformità o i vizi dell'opera sono tali da renderla del tutto inadatta alla sua destinazione, il committente può chiedere la risoluzione del contratto.

Applicando la norma al nostro caso, sembra opportuno chiedere:
a) la riduzione del prezzo in relazione alle opere che presentano i vizi riscontrati dal committente ma che non richiedono una rimessione in pristino e una nuova totale installazione;
b) la sostituzione del materiale privo delle caratteristiche richieste dal committente e consacrate nel preventivo scritto (ipotesi di eliminazione dei vizi/difformità a spese dell'appaltatore);
c) l'eventuale risarcimento del danno, se si sono verificati pregiudizi in relazione alle condotte dell'appaltatore (si pensi, ad esempio, al fatto di non aver potuto ottenere l'abitabilità).
Come già ricordato, non può prescindersi dall'invio della denuncia scritta entro 60 giorni, di cui all'art. 1667 c.c.

Per quanto, infine, concerne il punto 1. indicato all'inizio del parere, possono sorgere legittimi dubbi circa l'importanza dell'inadempimento.
E' certamente vero che, quando le parti stabiliscono un termine per l'esecuzione di una certa prestazione, esso vada rispettato: tuttavia, non va taciuto che l'ordinamento contempla anche l'ipotesi del ritardo (v. art. 1218 del c.c.), ricollegandovi il mero diritto a chiedere il risarcimento del danno. La risoluzione del contratto, invece, che è il rimedio più drastico, può essere dichiarata solo se l'inadempimento è di "non scarsa importanza", come insegna l'art. 1455. Su questa espressione sono stati spesi fiumi di inchiostro, che brevemente possono riassumersi nel concetto che l'inadempimento, per dare adito a risoluzione, deve essere di una gravità tale da far venire meno l'interesse della parte all'esecuzione del contratto. Anche l'inadempimento di una prestazione accessoria (come, nel nostro caso, la consegna dei documenti) può essere rilevante, ma solo ove faccia venire meno l'utilità della prestazione principale.
Pertanto, almeno in una fase stragiudiziale, è consigliabile valorizzare maggiormente la presenza di vizi e difformità delle opere e dei materiali, facendo presente naturalmente anche il ritardo nella consegna dei documenti e le eventuali conseguenze di questa condotta. In sede giudiziale, poi, si valuterà con il legale come utilizzare questa argomentazione, che può deporre, ad esempio, a favore di una istanza di risarcimento se il ritardo ha comportato il pagamento di sanzioni o altre spese.

E' bene ricordare, in ogni caso, che anche se non viene attivata la garanzia, il committente ha diritto ad esercitare le ordinarie azioni contrattuali contro l'inadempimento (richiesta di risoluzione ex artt. 1453 ss. c.c., risarcimento del danno ex art. 1218 c.c.), che però risultano più onerose, in particolare a livello probatorio.
Si consiglia, pertanto, di attivare la garanzia, visto che l'esecuzione delle opere è avvenuta in epoca molto recente, iniziando il procedimento con la denunzia.
Se è già prevedibile che la vicenda finirà in tribunale, è opportuno incaricare da subito un avvocato, anche per la redazione della denunzia.

Patrizia B. chiede
venerdì 01/05/2015 - Emilia-Romagna
“Ho firmato un ordine alla ditta X in data 02/01/2014 di un terminale G. e di un interfaccia C. per un totale di 16.000 euro, senza versare alcuna caparra ne' specificare data e condizioni di pagamento tramite leasing o bonifico bancario, campi rimasti in bianco nel modulo d'ordine. Essendo questo terminale innovativo per le farmacie, dopo tre mesi non era stato ancora interfacciato al gestionale in uso, e quindi non era stato ancora consegnato nonostante molte telefonate di sollecito da parte della sottoscritta. Quindi in data 31/03/2014 ho inviato alla ditta X una raccomandata A/R in cui chiedevo di recedere dal contratto se entro 15 gg. il G. non fosse stato correttamente installato nel gestionale e consegnato alla farmacia di cui sono titolare.
Il 2/12/2014 la ditta mi ha comunicato di essere pronta per la consegna ma a quel punto avendo già chiesto la recessione dal contratto ho inviato un fax per evitare una consegna ormai fuori tempo.
Ora la ditta, tramite Avv., invita la Farmacia a stipulare convenzione assistita con l'assistenza di un avvocato, pena la condizione di procedibilità.”
Consulenza legale i 05/05/2015
Il Decreto Legge n. 132/2014 recante "Misure urgenti di degiurisdizionalizzazione e altri interventi per la definizione dell’arretrato in materia di processo civile", convertito con modificazioni in l. n. 162/2014, ha introdotto la procedura di negoziazione assistita da un avvocato. Si tratta di una modalità di risoluzione della controversia in via amichevole, alternativa rispetto all'immediato inizio di una controversia giudiziale.
Si tratta, in pratica, di una procedura stragiudiziale che mira a culminare nella sottoscrizione da parte dei contendenti di un accordo (c.d. convenzione di negoziazione) mediante il quale si decide di risolvere bonariamente una controversia vertente su diritti disponibili tramite l’assistenza degli avvocati.

Il procedimento inizia con la formulazione alla controparte, da parte del legale, di un invito a stipulare una convenzione di negoziazione. Dal momento della comunicazione dell’invito si producono sulla prescrizione gli effetti della domanda giudiziale.
La negoziazione può concludersi sia con un accordo sia senza (in tal caso, viene redatta la dichiarazione di mancato accordo che gli avvocati designati certificano).

La procedura in commento è attualmente obbligatoria solo in due casi:
- risarcimento del danno da circolazione di veicoli e natanti;
- pagamento a qualsiasi titolo di somme non eccedenti 50.000 €, ad eccezione delle controversie assoggettate alla disciplina della c.d. mediazione obbligatoria (la Mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali trova la sua disciplina all'interno del D. Lgs. 28/2010).
In tali casi, l’esperimento del procedimento di negoziazione assistita è condizione di procedibilità della domanda giudiziale.

Tornando al caso esposto nel quesito, trattandosi di controversia avente ad oggetto un contratto per la vendita di un macchinario del valore di euro 16.000, si ricade nell'ipotesi di obbligatorietà della negoziazione assistita.

Sotto il profilo formale, quindi, l'invito giunto alla titolare della farmacia a partecipare alla nuova procedura appare corretto.
Si deve prestare molto attenzione a tale invito, in quanto la mancata risposta entro trenta giorni dalla ricezione o il suo rifiuto può essere valutato dal giudice ai fini delle spese del futuro giudizio e di quanto previsto dagli articoli 96 (condanna al risarcimento dei danni nei confronti della parte che ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave) e 642 (concessione della provvisoria esecutorietà di un provvedimento di condanna), primo comma, del codice di procedura civile.

Dal punto di vista sostanziale, la vicenda sembra perfettamente inquadrabile in un caso di inadempimento del contratto con conseguente diritto alla risoluzione a richiesta della parte non inadempiente (artt. 1453 ss. c.c.). L'inadempimento (di non scarsa importanza, art. 1455) sarà provato nel momento in cui si possa dimostrare che l'accordo delle parti prevedeva la consegna entro un termine preciso o comunque entro un termine ragionevole, connesso all'interesse dell'acquirente.
Peraltro, è già stata correttamente inviata la diffida ad adempiere con termine di 15 giorni, come prescritto dall'art. 1454.
Il contratto, quindi, si è risolto di diritto, anche se va comunque precisato che la controparte può sempre contestare l'intervenuta risoluzione in un apposito giudizio.

Ci sembra opportuno, in ogni caso, che la farmacia partecipi alla negoziazione assistita, insistendo nelle proprie ragioni e cercando di far desistere la controparte dall'intento di chiedere giudizialmente l'esecuzione del contratto oppure un risarcimento del danno, non sussistendo un solido fondamento giuridico per l'accoglimento di queste domande.
Con l'occasione, se la farmacia resta interessata al prodotto, si potrebbe procedere alla stipulazione di un nuovo contratto, magari ad un prezzo più vantaggioso.

Massimiliano M. chiede
lunedì 28/04/2014 - Piemonte
“Ho acquistato un camper usato da un privato un mese fa il prezzo pattuito era di 4400 euro, l'annuncio citava ottimo di carrozzeria e meccanica. Una volta acquisito il mezzo ho rilevato che il mezzo ha notevoli problemi di meccanica e di infiltrazioni di acqua per una spesa totale di euro 2200: successivamente invio una A/R al vecchio venditore chiedendo il risarcimento delle riparazioni o eventuale restituzione mezzo. Purtroppo nel pomeriggio di venerdì ho avuto un sinistro con il mezzo colpendo una pensilina di una cosa, la mia assicurazione mi copre anche in aree private; non intendo rimetterlo
a posto poiché il danno e di 3500 euro, tra l'altro ho scoperto che il mezzo era marcio, il legno era completamente bagnato, e tutto l'abitacolo e ridotto in condizioni pietose. Posso vendere il mezzo poiché ho trovato a venderlo a 1000 euro, così come si trova ad un concessionario, che lo rimetterà a posto.”
Consulenza legale i 03/05/2014
L'art. 1490 del c.c. stabilisce per il venditore l'obbligo di garantire che la cosa venduta sia immune da vizi che la rendano inidonea all'uso a cui è destinata o ne diminuiscano in modo apprezzabile il valore.
Il vizio/difetto deve essere preesistente alla vendita e la prova della sua esistenza ed entità deve essere data dallo stesso compratore che ne lamenta l'esistenza.

La garanzia è esclusa solo in due casi: se al momento del contratto il compratore conosceva i vizi della cosa; oppure se i vizi erano facilmente riconoscibili. In quest'ultimo caso, però, la garanzia opera comunque se il venditore abbia dichiarato che la cosa era esente da vizi, di fatto "ingannando" il compratore (art. 1491 del c.c.).

Quindi, nel caso di specie, se è stato acquistato un camper senza previamente visionarlo e i difetti erano facilmente riconoscibili da parte di chiunque, la garanzia non può operare, a meno che il venditore non abbia mentito su tali circostanze, dichiarando che il mezzo era in ottime condizioni.
Invece, per tutti i difetti "occulti", ossia che non si potevano facilmente riscontrare se non utilizzando a tutti gli effetti il mezzo, la garanzia opera.
Affinché il compratore sia garantito, egli dovrà denunciare la presenza dei vizi entro 8 giorni dalla scoperta, trascorsi i quali non ha più diritto a far valere la garanzia (art. 1495 del c.c.).

Quanto ai rimedi previsti per il compratore tutelato dalla garanzia per i vizi, il codice civile prevede che egli possa domandare a sua scelta la risoluzione del contratto ovvero la riduzione del prezzo.
In particolare, la risoluzione del contratto implica effetti restitutori (ex tunc) che si verificano nei confronti di entrambe le parti per il semplice fatto della risoluzione, che rende indebite, ob causam finitam, le prestazioni già effettuate.
In altre parole, una volta risolto il contratto (di comune accordo o unilateralmente) le parti devono reciprocamente restituire le prestazioni ricevute che, nel caso di specie, saranno il prezzo (per il venditore) e il camper stesso (per il compratore).

L'art. 1458 del c.c. stabilisce che la risoluzione, anche se è stata espressamente pattuita, non pregiudica i diritti acquistati dai terzi, salvi gli effetti della trascrizione della domanda di risoluzione (solo se l'atto di acquisto sia soggetto a trascrizione, quindi, in generale, abbia ad oggetto un bene immobile - non è quindi il nostro caso).
Tuttavia, secondo parte della dottrina, troverebbe applicazione l'art. 2038 del c.c., in base al quale chi sia tenuto ad adempiere una restituzione e sia in buona fede (tale potrebbe essere chi riceve un bene affetto da vizi), e non possa farlo in quanto il bene è stato rivenduto, dovrebbe restituire all'originario venditore il corrispettivo conseguito. E' quindi possibile che, se il compratore del camper chieda la risoluzione del contratto, il venditore, oltre a dover naturalmente restituire il prezzo, chieda anche che gli venga corrisposto il prezzo ottenuto per la rivendita del mezzo, visto che questo non gli può essere restituito.

Tutto ciò chiarito, nel caso proposto, chi ha comprato il camper può rivenderlo, e il terzo che da lui acquisterà, lo farà validamente.
Nel contempo, il compratore del camper potrà chiedere la risoluzione del contratto per vizi o la congrua riduzione del prezzo.
Se chiede la riduzione del prezzo, nulla quaestio: non ha alcun obbligo di restituire il camper.
Se chiede la risoluzione del contratto, può incorrere nella domanda avversaria di ottenere il prezzo della seconda vendita del camper a terzi (quindi, il compratore si vedrà restituire 4.400 euro ma dovrà darne al venditore 1.000).
In entrambi i casi attenzione, però, all'onere della prova: l'esistenza dei vizi va provata da parte del compratore e purtroppo l'avvenuto sinistro potrebbe interferire con la possibilità per un tecnico di valutare i difetti effettivamente preesistenti. Se, però, il compratore riesce a dimostrare i molteplici difetti del camper, potrà godere appieno della garanzia e quindi ottenere, se lo desidera, lo scioglimento del contratto e il risarcimento del danno.

Marina P. chiede
lunedì 13/01/2014 - Liguria
“Buona sera,
Vi pongo un quesito relativo alla compravendita di un immobile.

Nel 2000 ho acquistato una casetta semindipendente a Genova. Il vecchio proprietario ha prodotto il condono concesso a suo tempo dal comune di Genova per lavori eseguiti sia all'interno sia all'esterno dell'immobile. Nell'atto di acquisto non si faceva riferimento alla mancanza del certificato di agibilità ed io, sicuramente per ignoranza, all'epoca pensavo che la presenza di un condono da parte del comune fosse una garanzia che tutto fosse "a posto".

Solo pochi giorni fa ho scoperto di non avere l'abilità e il comune di Genova mi concederebbe la possibilità di ottenerla a patto di produrre un progetto per la costruzione della mia casa come un ampliamento della casa attaccata alla mia, (cosa che in effetti è avvenuta) naturalmente tutto a mio carico e con costi elevatissimi.
Posso rivalermi sul vecchio proprietario oppure ormai tutto è caduto in prescrizione?
Posso rivalermi sul notaio?
Posso rivalermi sul comune che ha accordato un condono su una casa senza agibilità?

Attendo una Vostra risposta e colgo l'occasione per porVi distinti saluti,
Consulenza legale i 20/01/2014
Il certificato di agibilità viene rilasciato dal Comune nel cui territorio è ubicato l'immobile e ha la funzione di certificare la "sussistenza delle condizioni di sicurezza, salubrità, risparmio energetico degli edifici e degli impianti negli stessi istallati" (art. 24, primo comma, D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380). Prima dell'entrata in vigore del D.P.R. 380/01 non vi era una definizione univoca di "agibilità" e si parlava di "abitabilità" per gli immobili ad uso abitativo e di "agibilità" per quelli destinati ad uso diverso, anche se di fatto esisteva un unico procedimento.

In base alla normativa citata, l'onere della richiesta grava sul soggetto che ha ottenuto il permesso di costruire o su colui che ha presentato la denuncia di inizio attività.
Tuttavia, per gli edifici di data precedente all'entrata in vigore della normativa non sussiste l'obbligo di richiedere il nuovo certificato di agibilità, tranne che nel caso in cui siano stati effettuati degli interventi sugli edifici esistenti che possano influire sulle condizioni di igiene e sicurezza (art. 24, D.P.R. 380/01). Nel caso di specie, si presume che l'edificio sia stato costruito prima del 2001, ma sono comunque intervenute opere che possono aver richiesto il rilascio del nuovo certificato.

Tuttavia, il condono che è stato chiesto ed ottenuto dal vecchio proprietario non implica automaticamente il rilascio del certificato di agibilità. L'art. 35, comma 19, della L. 47/1985 recita: "A seguito della concessione o autorizzazione in sanatoria viene altresì rilasciato il certificato di abitabilità o agibilità anche in deroga ai requisiti fissati da norme regolamentari, qualora le opere sanate non contrastino con le disposizioni vigenti in materia di sicurezza statica, attestata dal certificato di idoneità di cui alla lettera b) del terzo comma e di prevenzione degli incendi e degli infortuni".
Nonostante alcune minoritarie interpretazioni nel senso di una automaticità tra il rilascio della sanatoria e della agibilità, l'orientamento dominante sostiene che quest'ultima vada chiesta separatamente (v. Cass. civ. sent. 256/1996 e Consiglio di Stato sent. 2140/2004, che stabiliscono la non automaticità dell’abitabilità con il condono poiché non può essere ammissibile alcuna deroga igienico – sanitaria).

Si ritiene, quindi, che il Comune non abbia specifiche colpe nella vicenda in esame. Resta da capire quale sia la responsabilità del venditore e quella del notaio.

Per quanto riguarda il notaio, va premesso che il certificato di agibilità viene tradizionalmente ricondotto nell'ambito dei titoli e dei documenti relativi alla proprietà e all'uso della cosa venduta che l'art. 1477, terzo comma, c.c., impone al venditore di consegnare all'acquirente.
Tale certificato dovrebbe quindi essere consegnato in occasione della compravendita notarile dell'immobile, che viene gestita dal notaio. Tuttavia, la giurisprudenza dominante reputa che la stipulazione di un atto di vendita avente ad oggetto un edificio privo del certificato di agibilità è giuridicamente possibile e lecita e che il relativo contratto non è nullo, bensì valido. Addirittura, non sarebbe obbligatorio menzionarlo nell'atto compravendita, nemmeno nel caso in cui il certificato esista.
Ne discende che l'atto notarile è stato validamente stipulato e sotto questo profilo in notaio non ha responsabilità.

Di regola, però, il rogito dovrebbe contenere gli accordi delle parti in relazione al certificato di agibilità: sono frequenti le clausole in base alle quali le parti si accordino per spostare in capo all’acquirente l’obbligo di attivarsi per conseguire il predetto certificato, oppure stabiliscano che il venditore è tenuto a produrre il certificato in un momento successivo alla stipula notarile.
Quindi, se dall'atto notarile non risulta alcunché circa l'agibilità/abitabilità della costruzione, potrebbe ipotizzarsi una responsabilità del notaio sotto il profilo della mancata informazione all'acquirente circa l'assenza del certificato di agibilità e le possibili conseguenze (sanzioni) per l'acquirente.
Recentemente anche la Suprema Corte si è espressa in materia, con sentenza della III Sez., 21 giugno 2012, n. 10296. La Corte ha stabilito che sussiste la responsabilità professionale in capo al notaio per non aver correttamente adempiuto al proprio obbligo di accertarsi della corretta percezione da parte del cliente della situazione potenzialmente ostativa del conseguimento degli effetti da lui voluti. In altre parole, il notaio, che ha una competenza tecnica superiore alle parti, è tenuto ad avvisarle di qualsiasi circostanza che possa comportare per loro conseguenze negative. Poiché non esiste un principio generale che preveda l’obbligo del notaio di verificare l’esistenza del certificato di abitabilità/agibilità, si deve decidere caso per caso. Nella vicenda in esame, si dovrà prima di tutto verificare cosa dice l'atto notarile in proposito e, se sul punto tace, capire se il notaio abbia colpevolmente omesso di informare la parte acquirente di una informazione molto importante a sua conoscenza: la decisione nel merito spetta però ad un giudice.

Infine, veniamo alla responsabilità del venditore, che con maggiore evidenza appare sussistere nel caso di specie.
Abbandonata, come detto, la tesi per cui l'alienazione di un immobile privo del certificato di agibilità darebbe origine ad un contratto nullo, è invece oggi opinione unanime che la mancata produzione del certificato legittimi il ricorso al rimedio della risoluzione del contratto.

L'orientamento giurisprudenziale maggioritario ravvisa in capo al soggetto inadempiente (venditore) una responsabilità per alienazione di aliud pro alio (viene venduta una cosa per un'altra): difatti, il bene scambiato non potrebbe assolvere quella funzione economico-sociale che gli è propria. Tuttavia, per arrivare a questa estrema conseguenza, si reputa necessario che il bene sia del tutto privo dei requisiti per ottenere l'agibilità, a causa di insanabili violazioni della normativa urbanistica.
Nel caso di specie, l'agibilità/abitabilità poteva (e doveva) essere chiesta dal vecchio proprietario in occasione della richiesta di condono, e si presume che la stessa sarebbe stata rilasciata (non sembrano esservi ostacoli a tale conclusione, visto che anche ora il Comune è disposto a concederla).
Residua quindi una responsabilità per inadempimento al disposto dell'art. 1477 c.c., che ha originato un danno documentabile in capo all'acquirente (spese per l'ottenimento del certificato oggi).
L'azione volta alla richiesta di risarcimento del danno derivante da illecito contrattuale è soggetta al termine prescrizionale ordinario decennale, previsto genericamente dall'art. 2946 del c.c. per le azioni nascenti dal contratto o da atto unilaterale.
Si ritiene che, nonostante la vendita sia avvenuta nel 2000, sussista ancora la possibilità di far valere l'inadempimento contrattuale: difatti, la prescrizione decorre dal momento in cui sia possibile per il titolare del diritto esercitarlo (art. 2935 del c.c.. Nel caso di specie, l'acquirente si è avveduto solo da poco della mancanza del certificato di agibilità: è chiaro, però, che questa circostanza potrà essere oggetto di contestazione in sede di giudizio e che l'acquirente dovrà dare compiuta prova della sua incolpevole ignoranza.
La richiesta di risarcimento dovrà essere parametrata alle spese presuntivamente necessarie per compiere gli adempimenti volti ad ottenere il certificato di agibilità (v. Cass. civ., 15.5.2003, n. 7529).

Antonio chiede
venerdì 12/07/2013 - Puglia
“Il 21 gennaio scorso è scaduta la 2a rata assicurative (semestrale) della mia auto con scadenza il 21/07/2013, che non ho provveduto a ritirare, in quanto si è rotto il motore della stessa auto. Purtroppo non ho provveduto a far sospendere l'assicurazione temporaneamente, anche perché il costo della riparazione era alquanto oneroso. Successivamente l'assicurazione mi richiede il pagamento della rata, tramite una soc. di recupero crediti ed oggi con sollecito legale. Cosa fare. Grazie”
Consulenza legale i 23/07/2013
Premesso che ai fini di una risposta compiuta sarebbe necessario visionare tutta la documentazione relativa allo specifico contratto di assicurazione, è possibile osservare quanto segue.
Generalmente, tutte le polizze assicurative per la responsabilità automobilistica civile prevedono una clausola che consente all'assicurato di sospendere in via temporanea il contratto di assicurazione, per un periodo limitato.
Tale sospensione può essere chiesta, ad esempio, dagli automobilisti che siano certi di non utilizzare il proprio veicolo per un certo periodo di tempo.

Ciascun periodo di sospensione non può usualmente essere superiore ad un anno e inferiore a tre mesi. Durante la sospensione, il premio R.C. Auto rimane fermo e ricomincia a maturare una volta richiesta la riattivazione della polizza.

Per poter chiedere la sospensione, tuttavia, è necessario inviare alla propria compagnia assicuratrice una comunicazione scritta (es. raccomandata con ricevuta di ritorno) nella quale si specifica di voler sospendere la propria polizza e che si è a conoscenza di non poter circolare in assenza di una copertura assicurativa.
Affinché la richiesta di sospensione della polizza sia efficace, inoltre, l’assicurato deve consegnare all’assicuratore o deve inviare alla compagnia assicuratrice il contrassegno assicurativo, il certificato e la carta verde.
La richiesta va necessariamente inoltrata nei termini fissati dalle condizioni generali della Polizza, e comunque non è in generale possibile chiedere la sospensione per un periodo precedente a quello di invio della richiesta.

Pertanto, poiché la polizza assicurativa era efficace e valida anche durante la riparazione dell'automobile (che di fatto non circolava), per quel periodo il premio assicurativo è dovuto.

Gaetano A. chiede
mercoledì 12/06/2013 - Sicilia
“Nel corso di un mandato di agenzia, conclusosi il 31/12/2011, nell'ottobre del 2010 ho procurato alla mia ditta mandante un incontro con una grossa amministrazione comunale affinché realizzassero un software per la gestione dell'ufficio protocollo.
Dopo aver ottenuto un incontro con i dirigenti comunali, l'amministratore della ditta da me rappresentata, in persona, firmò una lettera ( della quale io posseggo copia) nella quale si impegnava ad eseguire il lavoro entro il 30/12/2010, controfirmata da tutti i presenti e da me. Nonostante l'impegno preso la ditta non ha eseguito il lavoro richiesto e pertanto fu sostituito il software con altro di altra azienda. Ciò procurò che in breve tempo tutti i software che io avevo fatto installare in quel Comune fossero sostituiti facendomi perdere un notevole guadagno in termini di provvigioni annuali. In seguito, viste le mie numerose proteste, l'azienda ha pensato bene di darmi disdetta del mandato, senza peraltro pagarmi di alcuna indennità. Posso chiedere a distanza di oltre un anno il risarcimento per inadempienza contrattuale e relativo risarcimento danno?
Grazie”
Consulenza legale i 18/06/2013
L'art. 1748 del c.c. prevede che l'agente abbia diritto alla provvigione per ogni affare concluso per effetto del suo intervento.
Prima della riforma operata con il d.lgs. 65/99, il diritto alla provvigione sorgeva solo al realizzarsi di tre fatti giuridici costitutivi: promozione, conclusione ed esecuzione del contratto (v. Cass., sez. lav., 2 maggio 2000, n.5467). Con l'attuazione della Direttiva europea in materia di agenzia, il legislatore italiano ha sganciato il diritto alla provvigione dal "buon fine" dell'affare, prevedendo quale presupposto necessario e sufficiente per il sorgere del diritto alla provvigione la mera conclusione dell'operazione o affare per effetto dell'intervento dell'agente.

Viene inoltre previsto, al comma sesto dell'art. 1748 c.c., che "L'agente è tenuto a restituire le provvigioni riscosse solo nella ipotesi e nella misura in cui sia certo che il contratto tra il terzo e il preponente non avrà esecuzione per cause non imputabili al preponente. È nullo ogni patto più sfavorevole all'agente".
Da questa disposizione si desume a contrario che la mancata esecuzione dell'affare per causa imputabile al preponente non faccia venire meno il diritto dell'agente alla provvigione.

La mancata esecuzione dell'affare per causa imputabile al preponente è, quindi, fatto costitutivo (cioè sta alla base) della domanda proposta dall'agente per il riconoscimento del diritto alla provvigione. Parte della giurisprudenza ritiene in questo caso che, più che chiedere la provvigione, l'agente chieda in realtà un risarcimento di importo pari alla provvigione che avrebbe dovuto percepire (v. Cass. civ. 925/1990).

L'imputabilità della causa al preponente non è un concetto pacifico. Secondo parte della dottrina, la responsabilità del preponente sarebbe esclusa se la decisione di non eseguire il contratto sia dipesa da fatti gravi, in particolare dall'inadempimento del terzo; secondo altri studiosi, più rigidi, le uniche cause di esonero dall'imputabilità sarebbero l'impossibilità sopravvenuta, l'eccessiva onerosità o l'inadempimento del cliente tale da giustificare la risoluzione del contratto.
Nel caso di specie, nessuna di queste ipotesi sembra essersi realizzata (viene prospettato un vero e proprio inadempimento dell'azienda produttrice di software, che portò allo scioglimento del rapporto con il comune). Pertanto, l'agente, potrebbe avere diritto al pagamento di un importo pari alle provvigioni che egli avrebbe percepito se non vi fosse stato l'inadempimento della preponente al contratto concluso con il comune.

La prescrizione, in questo caso, non sembra essersi verificata. Ai sensi dell’art. 2948 n.4 c.c., il termine prescrizionale per “gli interessi e, in generale, tutto ciò che deve pagarsi periodicamente ad anno o in termini più brevi” (come le provvigioni) è previsto in cinque anni (tale orientamento è consolidato nella giurisprudenza di legittimità, si veda ad esempio Cass. civ. Sez. lavoro, 16.6.2003, n. 9636).

La prova dell’imputabilità al preponente della mancata esecuzione del contratto dovrà in ogni caso essere fornita dall’agente.

M. P. chiede
mercoledì 20/12/2023
“Buongiorno, nel Giugno 2022 volendo acquistare un'auto usata per nostro figlio, ci siamo rivolti ad un autosalone plurimarche, in quanto comprare dal privato ci sembrava poco sicuro. Da questo Autosalone, con annessa officina, abbiamo acquistato una X del 2018, con quotazione del prezzo in linea con Quattroruote. L'auto ci sembrava in ottimo stato, tettuccio panoramico, interni nuovi, gomme nuove, appena revisionata e, a detta del venditore da unico proprietario non incidentata. L'auto ritirata a luglio 2022 è rimasta in garage sino ad agosto e dopo averla usata solo due volte c'è stato un problema con le luci e durante la marcia si è staccato lo specchietto retrovisore interno. Contattato il venditore il tutto è stato riparato presso la loro officina con giustificazioni in verità non del tutto convincenti. Ma a febbraio 2023 la comparsa di un allarme metteva in luce un problema all airbag che a detta del concessionario era stato male impostato. L'auto è rimasta ferma sino al mese di giugno perché nostro figlio a febbraio è partito per Milano e l'auto è stata poi usata da noi occasionalmente. A giugno 2023 è scaduta la garanzia di un anno data dal venditore. A fine estate abbiamo portato l'auto dal nostro carrozziere di fiducia insospettiti perché usandola in autostrada si sentiva uno spiffero consistente in corrispondenza di un vetro deflettore anteriore che non veniva percepito in città. Dopo un controllo sotto la guarnizione e sulla carrozzeria, il carrozziere constatava che sotto le guarnizioni c'erano delle saldature grossolane, arrivando alla conclusione che tutta la parte superiore e il tettuccio non apparteneva a quell'auto. Portata alla concessionaria Renault della mia città ci confermavano che quel modello di Clio non prevede il tettuccio panoramico e che l'auto non risultava avesse mai fatto i tagliandi presso una Officina X.
Consultato lo storico dell'auto scopriamo che dopo l'immatricolazione ci sono stati due passaggi aziendali, uno a privato e poi il passaggio all'autosalone dal quale è stata acquistata. Nominato quindi un perito per essere certi sulle condizioni reali dell'auto, questi ha confermato con la sua perizia quanto sospettato: l'auto risulta gravemente incidentata. Quindi, in conclusione, ci è stato venduto un bene diverso da quanto pattuito, quindi un bene che avrebbe dovuto avere un costo ben diverso e che rivenduta ora varrebbe la metà e che non avremmo mai comprato se correttamente informati.
Alla luce di questi fatti chiediamo a voi un consiglio legale sul modo più corretto per affrontare questo problema e come possiamo agire legalmente ma senza arrivare ad una denuncia per truffa in tribunale.Vorremmo sapere se possiamo chiedere al venditore la restituzione dell'auto con risoluzione del contratto e risarcimento di quanto pagato per vizio grave dolosamente nascosto svincolato dai limiti di garanzia.
E qualora non acconsentisse, segnalare quanto accaduto alla Polizia non sapendo tra l'altro se dietro questa modalità di vendita si nasconda un giro di malaffare.
Allego:
Perizia dello Studio Tecnico
Garanzia di conformità rilasciata dal venditore
Cordiali saluti”
Consulenza legale i 03/01/2024
Quando si acquista un’auto usata, pur sforzandosi di utilizzare tutti gli accorgimenti possibili - primo fra tutti, quello di rivolgersi a un venditore considerato affidabile, come peraltro si è cercato di fare in questo caso - è piuttosto frequente incappare comunque in brutte sorprese.
Prima di capire come procedere è necessario fare chiarezza sulle possibili norme da applicare.

In primo luogo, abbiamo la garanzia per i vizi nella vendita, prevista dagli artt. 1490 e ss. del codice civile. La garanzia copre i cosiddetti vizi occulti, cioè quei difetti che il compratore non conosceva al momento della conclusione del contratto.
Inoltre, la garanzia non opera per i vizi facilmente riconoscibili: ora, nel nostro caso, ammesso che si tratti di “semplici” vizi, qualche dubbio può sorgere dalla lettura della perizia allegata, ove si parla di saldature e di un ri-assemblaggio grossolano. Tuttavia, anche quando i vizi sono facilmente riconoscibili, la garanzia si applica comunque, se il venditore ha dichiarato che la cosa era esente da vizi: ora, nel nostro caso non è stato possibile esaminare il contratto di vendita, tuttavia risulta che il venditore avesse dichiarato che l’auto, oltre ad essere di seconda e non di terza mano, fosse “non incidentata” (sarebbe interessante capire se queste dichiarazioni siano state fatte per iscritto, perché non è chiaro).

Ad ogni modo, la problematica maggiore che si pone quando si vogliono far valere i vizi della cosa ex artt. 1490 e ss. c.c. è l’esistenza di stretti termini per denunciare i vizi al venditore e per agire in giudizio, rispettivamente di decadenza (la denuncia dei vizi va fatta entro otto giorni dalla loro scoperta) e di prescrizione (l’azione va proposta entro un anno dalla consegna), come previsto dall’art. 1495 c.c.
Però - come correttamente rilevato anche nel quesito - la denuncia non è necessaria, se il venditore ha riconosciuto l'esistenza del vizio o l'ha occultato, cioè nascosto: e nel nostro caso sembra proprio che il venditore abbia insabbiato ben bene le condizioni disastrose in cui si trovava il veicolo e che sono emerse a seguito della perizia.

Quali sono gli effetti della garanzia per vizi? Il codice civile attribuisce al compratore il diritto di ottenere, a seconda delle circostanze e ovviamente in via alternativa, la risoluzione del contratto o la riduzione del prezzo. Inoltre, in ogni caso può essere chiesto dall'acquirente il risarcimento del danno (a meno che il venditore provi di aver incolpevolmente ignorato i vizi: ma nel caso che ci occupa sarebbe veramente difficile sostenerlo…).

Attenzione, però, perché l’azione di garanzia per vizi della cosa non è l’unico rimedio astrattamente possibile per chi non abbia fatto un acquisto conforme alle proprie legittime aspettative.
Dobbiamo ora prendere in esame la mancanza di qualità promesse, o le qualità essenziali per l’uso cui la cosa è destinata: in questo caso l’art. 1497 c.c. prevede che il compratore possa chiedere la risoluzione del contratto. Si applicano, però, gli stessi termini di decadenza e di prescrizione previsti dall’art. 1495 c.c. in caso di vizi occulti.


Per completezza, nel nostro caso risulta applicabile, almeno in astratto, anche la normativa contenuta negli artt. 129 e ss. del Codice del Consumo, per cui il venditore è responsabile dei difetti di conformità del bene venduto, che si manifestino entro due anni dalla consegna e in presenza di tutti i presupposti stabiliti dalle norme a difesa del consumatore.

Nel quesito, tuttavia, si prospetta anche una ulteriore possibilità: ovvero che sia stato venduto non un veicolo “semplicemente” (per quanto gravemente) difettoso, e neppure un veicolo mancante di alcune caratteristiche promesse o essenziali, ma proprio un veicolo diverso da quello pattuito e che il compratore credeva di acquistare.
Si tratterebbe della c.d. vendita di aliud pro alio, cioè, letteralmente, di una cosa per un’altra. L’azione per far valere questo tipo di inadempimento del venditore sarebbe, peraltro, svincolata dal rispetto dei termini di decadenza e prescrizione previsti dall’art. 1495 c.c.
Occorre capire, a questo punto, se le numerose e gravi problematiche riscontrate nell’auto possano costituire un vero e proprio aliud pro alio.
Si tratta di una valutazione non sempre scontata e per la quale non possiamo a meno di fare riferimento alla casistica affrontata in giurisprudenza, soprattutto in quella della Corte di Cassazione.
Ora, proprio una recente pronuncia della Suprema Corte (Cass. Civ., Sez. II, ordinanza 08/04/2022, n. 11438) ha ribadito che “la consegna di aliud pro alio, che dà luogo all'azione contrattuale di risoluzione o di adempimento ex art. 1453 cod. civ., svincolata dai termini di decadenza e prescrizione previsti dall'art. 1495 c.c., si verifica nei casi in cui il bene venduto sia completamente diverso da quello pattuito, in quanto si riveli funzionalmente del tutto inidoneo ad assolvere la destinazione economico-sociale della res venduta e, quindi, a fornire l'utilità richiesta”.
Nel caso affrontato dalla Suprema Corte, era stato accertato che l'autovettura acquistata “non poteva essere utilizzata in condizioni di sicurezza per il difetto che presentava al telaio traversa, alle sospensioni anteriori, elementi decisivi ai fini della tenuta di strada [...]. Con la conseguenza che era stata venduta una cosa diversa da quella pattuita”.
Ora, nel nostro caso la perizia ha evidenziato che non solo il veicolo acquistato era di terza mano e tutt’altro che “non incidentato”, ma che addirittura la sua parte superiore era stata montata da un veicolo di modello diverso anche se “similare”.

Aggiungiamo anche che la giurisprudenza a volte non è così rigorosa nel distinguere tra aliud pro alio e mancanza di qualità; si veda Cass. Civ., Sez. II, 31/03/2006, n. 7630: “ricorre la ipotesi di cosa radicalmente diversa (aliud pro alio) e non di cosa viziata o mancante delle qualità promesse quando il bene sia totalmente difforme da quello dovuto e tale diversità sia di importanza fondamentale e determinante nella economia del contratto. Tale situazione può verificarsi sia quando la cosa si presenti priva delle caratteristiche funzionali necessarie a soddisfare i bisogni dell'acquirente, sia quando la cosa appartenga ad un genere del tutto diverso”.

A parere di chi scrive, dunque, nel caso che ci occupa è possibile sostenere fondatamente l’esistenza di una vendita di aliud pro alio.
Tuttavia, si consiglia di rivolgersi comunque a un legale, evitando il “fai da te”: la situazione si presenta piuttosto ingarbugliata e il venditore ha ampiamente dimostrato di essere persona poco affidabile. In accordo con un avvocato di fiducia sarà possibile scegliere la strategia difensiva più corretta.

R. Z. chiede
giovedì 28/04/2022 - Lazio
“Salve,

mio marito ha un contratto a tempo indeterminato e ha ricevuto un' altra proposta di lavoro che parte dal 01/10/2022.

Ha firmato una lettera di proposta di assunzione, firmata anche dal nuovo datore di lavoro, che vi invierò in allegato.

Volevo sapere se questa lettera ha una validità legale, in caso di ripensamento da parte del datore di lavoro della nuova azienda.

Cordiali Saluti”
Consulenza legale i 04/05/2022
La lettera di impegno all’assunzione o proposta di assunzione è un vero e proprio accordo preliminare (art. 1351 c.c.) tra azienda e lavoratore, che può assumere 2 forme diverse:
  • sottoscritta da entrambe le parti, è un documento vincolante in vista della stipula del vero contratto, che dovrà poi essere firmato entro una data stabilita.
  • firmata solo dal datore di lavoro, diventa un atto unilaterale. Dunque, il lavoratore è libero di decidere se rispettarlo, oppure no.
Essendo un vero e proprio contratto preliminare, se il datore di lavoro o il lavoratore non rispettano quanto sottoscritto nella lettera di impegno all’assunzione, compiono un inadempimento contrattuale.

Quindi, nel caso in cui il datore di lavoro dovesse ripensarci e non rispettasse l’impegno assunto, il lavoratore potrà rivolgersi a un giudice per richiedere l’adempimento di quanto sottoscritto, o la risoluzione dello stesso, come previsto dall’art. 1453 c.c.

Inoltre, ha il diritto di richiedere un risarcimento per il danno subito, anche se rinuncia a richiedere l’adempimento di quanto pattuito nella lettera di impegno all’assunzione.

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