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Articolo 129 Codice del consumo

(D.lgs. 6 settembre 2005, n. 206)

[Aggiornato al 31/12/2023]

Conformità dei beni al contratto

Dispositivo dell'art. 129 Codice del consumo

1. (1)Il venditore fornisce al consumatore beni che soddisfano i requisiti di cui ai commi 2 e 3, nonché le previsioni degli articoli 130 e 131 in quanto compatibili, fatto salvo quanto previsto dall'articolo 132.

2. Per essere conforme al contratto di vendita, il bene deve possedere i seguenti requisiti soggettivi, ove pertinenti:

  1. a) corrispondere alla descrizione, al tipo, alla quantità e alla qualità contrattuali e possedere la funzionalità, la compatibilità, l'interoperabilità e le altre caratteristiche come previste dal contratto di vendita;
  2. b) essere idoneo ad ogni utilizzo particolare voluto dal consumatore, che sia stato da questi portato a conoscenza del venditore al più tardi al momento della conclusione del contratto di vendita e che il venditore abbia accettato;
  3. c) essere fornito assieme a tutti gli accessori, alle istruzioni, anche inerenti all'installazione, previsti dal contratto di vendita; e
  4. d) essere fornito con gli aggiornamenti come previsto dal contratto di vendita.

3. Oltre a rispettare i requisiti soggettivi di conformità, per essere conforme al contratto di vendita il bene deve possedere i seguenti requisiti oggettivi, ove pertinenti:

  1. a) essere idoneo agli scopi per i quali si impiegano di norma beni dello stesso tipo, tenendo eventualmente conto di altre disposizioni dell'ordinamento nazionale e del diritto dell'Unione, delle norme tecniche o, in mancanza di tali norme tecniche, dei codici di condotta dell'industria applicabili allo specifico settore;
  2. b) ove pertinente, possedere la qualità e corrispondere alla descrizione di un campione o modello che il venditore ha messo a disposizione del consumatore prima della conclusione del contratto;
  3. c) ove pertinente essere consegnato assieme agli accessori, compresi imballaggio, istruzioni per l'installazione o altre istruzioni, che il consumatore può ragionevolmente aspettarsi di ricevere; e,
  4. d) essere della quantità e possedere le qualità e altre caratteristiche, anche in termini di durabilità, funzionalità, compatibilità e sicurezza, ordinariamente presenti in un bene del medesimo tipo e che il consumatore può ragionevolmente aspettarsi, tenuto conto della natura del bene e delle dichiarazioni pubbliche fatte dal o per conto del venditore, o da altre persone nell'ambito dei precedenti passaggi della catena di transazioni commerciali, compreso il produttore, in particolare nella pubblicità o nell'etichetta(2).

Note

(1) Tale disposizione è stata interamente modificata dall'art. art. 1, comma 1, del D.Lgs. 4 novembre 2021, n. 170.
(2) Il D.Lgs. 4 novembre 2021, n. 170 ha disposto (con l'art. 2, comma 1) che la presente modifica acquista efficacia a decorrere dal 1° gennaio 2022 e si applica ai contratti conclusi successivamente a tale data.

Spiegazione dell'art. 129 Codice del consumo

La norma in esame prende in considerazione un’obbligazione diversa da quella di consegna in senso proprio, ovvero l’obbligazione di rendere beni conformi al contratto, disciplinando tutti i difetti di conformità della prestazione, comprese le ipotesi di vizi della cosa venduta, qualità essenziali nonché la vendita di c.d. aliud pro alio.
Si ritiene, comunque, che la disciplina qui dettata in relazione alle garanzie nella vendita di beni di consumo non abbia modificato quelle che sono le regole generali che il codice civile, all’art. 1465 del c.c., detta in tema di ripartizione del rischio.
Si afferma, invece, che debbono considerarsi esclusi dal campo di applicazione di questa normativa i vizi giuridici della cosa, in tal senso argomentando dalla considerazione secondo cui la normativa si riferisce solo ai vizi materiali nonché dal rilievo che le disposizioni generali in tema di vendita sono più favorevoli per il compratore.

I criteri di presunzione a cui fa riferimento la norma in esame devono considerarsi come un’integrazione suppletiva alla volontà delle parti e come tale derogabile.
In particolare, si prevede che per essere conforme al contratto di vendita, il bene debba possedere requisiti sia oggettivi che soggettivi.
I requisiti soggettivi sono:
a) corrispondere alla descrizione, al tipo, alla quantità e alla qualità contrattuali e possedere la funzionalità, la compatibilità, l’interoperabilità e le altre caratteristiche come previste dal contratto di vendita;
b) essere idoneo ad ogni utilizzo particolare voluto dal consumatore, che sia stato da questi portato a conoscenza del venditore al più tardi al momento della conclusione del contratto di vendita e che il venditore abbia accettato;
c) essere fornito assieme a tutti gli accessori, alle istruzioni, anche inerenti all’installazione, previsti dal contratto di vendita;
d) essere fornito con gli aggiornamenti come previsto dal contratto di vendita.

Costituiscono, invece, requisiti oggettivi del bene:
a) essere idoneo agli scopi per i quali si impiegano di norma beni dello stesso tipo;
b) possedere la qualità e corrispondere alla descrizione di un campione o modello che il venditore ha messo a disposizione del consumatore prima della conclusione del contratto;
c) essere consegnato assieme agli accessori, compresi imballaggio, istruzioni per l’installazione o altre istruzioni, che il consumatore può ragionevolmente aspettarsi di ricevere;
d) essere della quantità e possedere le qualità e altre caratteristiche, anche in termini di durabilità, funzionalità, compatibilità e sicurezza, ordinariamente presenti in un bene del medesimo tipo e che il consumatore può ragionevolmente aspettarsi, anche tenuto conto della natura del bene e delle dichiarazioni pubbliche fatte dal o per conto del venditore.

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Consulenze legali
relative all'articolo 129 Codice del consumo

Seguono tutti i quesiti posti dagli utenti del sito che hanno ricevuto una risposta da parte della redazione giuridica di Brocardi.it usufruendo del servizio di consulenza legale. Si precisa che l'elenco non è completo, poiché non risultano pubblicati i pareri legali resi a tutti quei clienti che, per varie ragioni, hanno espressamente richiesto la riservatezza.

A. M. chiede
mercoledì 10/01/2024
“Buonasera,
la mia fattispecie prevede l'acquisto di 5 termosifoni alla cifra X.
Dopo aver visto la fattura ho versato un acconto in attesa di effettuare il saldo totale alla consegna della merce.
Dopo pochi giorni il commerciale mi comunica che 2 di questi termosifoni non erano più prodotti contrariamente a quello previsto da catalogo dove erano ancora disponibili (proposti da lui).
Faccio presente al commerciale che sono disposto ad attendere altri 2 modelli ma che la cifra totale non deve cambiare.
Oggi, oltre al danno in termini di attesa, mi invia un preventivo superiore al primo di 1000€ adducendo scuse sulla particolarità di questi 2 nuovi prodotti.
Il contratto è da considerarsi annullabile con relativa restituzione dell'acconto e risarcimento del danno?

Ringrazio anticipatamente.”
Consulenza legale i 19/01/2024
L’art. 129 c.2 lett. a) Codice del Consumo stabilisce che il bene, per essere conforme al contratto di vendita, debba rispettare il requisito soggettivo di corrispondenza “alla descrizione, al tipo, alla quantità e alla qualità contrattuali e possedere la funzionalità, la compatibilità, l'interoperabilità e le altre caratteristiche come previste dal contratto di vendita”.
In base al comma 3 lett. b) del medesimo articolo deve, inoltre, “possedere la qualità e corrispondere alla descrizione di un campione o modello che il venditore ha messo a disposizione del consumatore prima della conclusione del contratto”.

In mancanza di tale conformità, come sembra nel caso del quesito proposto, il consumatore può richiedere la risoluzione del contratto ai sensi dell’art. 135 quater del codice consumo, limitatamente ai beni non conformi e, eventualmente, anche a quelli acquistati insieme qualora non si possa presumere ragionevolmente che il consumatore abbia interesse a mantenere nella propria disponibilità i beni conformi.

Si tenga presente però che il consumatore non ha diritto di risolvere il contratto se la difformità è solo di lieve entità come previsto dall’art. 135 bis comma 5 del Codice del Consumo.
La lieve entità della difformità deve essere provata dal venditore.

In conclusione, si ritiene che il consumatore possa legittimamente chiedere la risoluzione del contratto a causa della differenza del prezzo tra i prodotti concordati contrattualmente e quelli proposti successivamente.

Si ritiene, però, che il venditore possa insistere per consegnare e ottenere il saldo del pagamento dei termosifoni conformi a quelli stabiliti nel contratto.

Per quanto riguarda invece il risarcimento del danno per il ritardo nella consegna, una recente ordinanza della Corte di Cassazione ha stabilito che il compratore debba provare il danno patrimoniale per aver sofferto una situazione pregiudizievole causata dal ritardo nella consegna la cui valutazione è rimessa al giudice di merito (Cass. civ. n. 11126/2022) .
Ciò significa che non basta allegare il semplice ritardo per ottenere il risarcimento del danno ma la perdita patrimoniale subita deve essere specificatamente provata.

S. G. G. chiede
mercoledì 24/05/2023
“Un venditore mi ha proposto l'acquisto di un materasso denominato q3.
Mi fece vedere un campione, e firmai la commissione in attesa del catalogo per la verifica delle caratteristiche del prodotto.
Dopo po circa mezz'ora di inutile attesa il venditore mi disse che il catalogo non esisteva e che non dovevo dubitare della sua parola.
Tentai di obiettare ma il gentiluomo si irritò.
Per evitare ulteriori problemi gli chiesi di restituirmi il copia commissione che avremmo completato successivamente al reperimento del catalogo.
Dovetti allontanarmi rapidamente.
Chiedo cortesemente se posso ritenere non valida la proposta da me firmata in assenza della definizione a catalogo delle caratteristiche del prodotto in oggetto.
Il colloquio è avvenuto all'interno del punto vendita.
Cordiali saluti.

Consulenza legale i 07/06/2023
In primo luogo va segnalato che la condotta del venditore appare violare il canone di buona fede nella conclusione del contratto.
L’art. 1337 del c.c. racchiude la regola di comportamento che impone alle parti il dovere di comportarsi secondo buona fede nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto; la violazione di tale dovere configura una responsabilità di tipo precontrattuale.
Nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto assumono rilevanza primaria gli obblighi informativi posti in capo ad uno o entrambi i contraenti: secondo l’opinione prevalente, il contraente che ometta di fornire alla controparte le informazioni dovute viola una regola di correttezza ed è responsabile ai sensi dell’art. 1337 del c.c. per i danni cagionati.
Il contratto stipulato, tuttavia, rimane valido, ma è fonte di risarcimento degli eventuali danni subiti, che possono configurarsi nell'eventualità in cui il prodotto non rispecchi le caratteristiche presentate.

Nel caso di specie potrebbe in astratto ravvisarsi, altresì, il dolo inteso quale vizio del consenso di cui all’art. 1439 del c.c., che si concretizza nei raggiri perpetrati ai fini di alterare la volontà negoziale della vittima, inducendola così in errore; i raggiri adoperati devono avere ad oggetto circostanze essenziali del negozio, tali che senza di essi l'altra parte non avrebbe contrattato.
Affinché si possa ravvisare il dolo causa di annullabilità del contratto devono sussistere le seguenti condizioni: che vi sia una condotta, commissiva od omissiva, materializzata da raggiri, ossia da un complesso di manovre e artifizi; che tale condotta sia finalizzata ad ingannare l’altro contraente (c.d. animus decipiendi del deceptor); che in conseguenza il contraente raggirato (deceptus) sia caduto in errore; che vi sia un nesso di causalità sia tra i raggiri e l'errore sia tra la condotta fraudolenta e la decisione del contraente raggirato di stipulare il contratto.

Secondo la giurisprudenza il dolo è causa di annullamento del contratto quando i raggiri usati siano stati tali che, senza di essi, l'altra parte non avrebbe prestato il proprio consenso per la conclusione del contratto, ossia quando, determinando la volontà del contraente ovvero incidendo sul processo formativo del consenso, abbiano ingenerato nel deceptus una rappresentazione alterata della realtà, provocando nel suo meccanismo volitivo un errore da considerarsi essenziale, della cui prova è onerata la parte che lo deduce (Cass. Civ., n. 5734/2019; Cass. Civ., n. 21074/2009).
Ne consegue che, affinché si produca l'annullamento del contratto, non è sufficiente una qualunque influenza psicologica sull'altro contraente, ma sono necessari artifici o raggiri, o anche semplici menzogne che abbiano avuto comunque un'efficienza causale sulla determinazione volitiva della controparte e quindi sul consenso di quest'ultima (Cass. Civ., n. 20231/2022; Cass. Civ., n. 1585/2017; Cass. Civ., n. 12892/2015; Cass. Civ., n. 12424/2006; Cass. Civ., n. 6166/2006; Cass. Civ., n. 20792/2004; Cass. Civ., SS.UU., n. 1955/1996).

Detta situazione, tuttavia, non è ancora configurabile nel caso di specie, posto che non conosciamo, allo stato, le caratteristiche concrete del prodotto acquistato e che verrà consegnato.
Esso potrebbe, in astratto, essere conforme al campione visionato, con le caratteristiche già espresse oralmente dal venditore; in tal caso, non si potrebbe ravvisare il dolo-vizio del consenso causa di annullamento del contratto proprio per l’assenza degli artifici e raggiri, pertanto il contratto non sarebbe annullabile.

Sorvolando sulla configurabilità del dolo quale causa di annullamento del contratto, che soggiace ad un regime probatorio piuttosto stringente (devono essere dimostrati gli artifici e raggiri, nonché la circostanza che abbiano influito sulla volontà del contraente, inducendolo in errore su un elemento essenziale del contratto), stante la qualità di consumatore dell’acquirente, il caso di specie è assoggettato altresì alla disciplina del Codice del Consumo.
Nell’eventualità in cui il bene, una volta consegnato, dovesse rivelarsi non conforme al campione visionato ai sensi dell’art. 129 del Codice del Consumo, quindi senza la qualità e difforme dalla descrizione del campione o del modello che il venditore ha messo a disposizione del consumatore prima della conclusione del contratto, Lei avrà diritto al ripristino della conformità, o a ricevere una riduzione proporzionale del prezzo, o alla risoluzione del contratto, come disposto dal 135 bis e seguenti del Codice del Consumo.

In ogni caso, a prescindere dalle considerazioni giuridiche esposte, consigliamo di inviare una diffida al venditore ai sensi dell’art. 1454 del c.c., nella quale si intima all'invio del catalogo per la verifica delle caratteristiche del prodotto entro e non oltre 15 giorni, o comunque prima della consegna del prodotto, in adempimento degli obblighi informativi ad esso imposti, e che in difetto il contratto si intenderà risolto di diritto.
In questo modo, se il venditore adempierà alla consegna del catalogo, si potrà verificare la conformità del prodotto prima ancora di riceverlo; in difetto, il contratto si risolverà di diritto.

Mario B. chiede
domenica 16/12/2018 - Piemonte
“Una pensionata ha subito l’incendio del proprio bilocale, conseguentemente alla manomissione della propria lavatrice da parte degli operai della ditta che ha effettuato il montaggio della sua nuova cucina. Questi, il giorno concordato, hanno per conto del mobilificio, provveduto al trasporto della cucina e al montaggio di tutti gli elettrodomestici acquistati, compresa la lavatrice già in possesso della pensionata. Durante le fasi di montaggio, gli stessi operai, a causa di una errata misurazione eseguita dalla venditrice del mobilificio, appurato che la lavatrice era più alta del vano destinato ad accoglierla, hanno deciso di scoperchiare l’elettrodomestico in modo da recuperare qualche cm. e riuscire ad alloggiarlo nel vano predisposto sotto il lavello. Alle domande circa l’efficacia di tale operazione avanzate dalla pensionata, gli operai hanno risposto rassicurandola, che si trattava di una soluzione sicura priva di rischi. La signora fidandosi della parola di due operai specializzati e credendo di aver ricevuto una cucina priva di difetti, ha cominciato ad utilizzarla. La sera del giorno dopo, dell’acqua percolata dal lavello sui contatti elettrici della lavatrice, lasciati senza la protezione del coperchio rimosso dagli operai, ha provocato un corto circuito nella parte alta dell'elettrodomestico che ha generato l’incendio dell’appartamento della pensionata, che per fortuna non si trovava in casa. La richiesta di risarcimento dei danni subiti dalla signora è finita in tribunale per inoperatività della polizza assicurativa della ditta di montaggio. Infatti dopo l'apertura del sinistro l'assicurazione dei montatori ha rifiutato il risarcimento, perchè la condotta tenuta dagli operai non era coperta da garanzie assicurative. Allo stesso modo l'assicurazione del mobilificio, ha rifiutato il risarcimento perchè il contratto che regolamenta la collaborazione con la ditta di montaggio, solleva il mobilificio dai danni provocati a terzi dal montatore. Dopo che la ditta di montaggio non ha aderito alla negoziazione assistita, il giudice in primo grado ha fatto un ulteriore tentativo di conciliazione, porponendo alle 4 parti chiamate in causa dalla pensionata di risarcire almeno la metà dei danni richiesti. A questo tentativo hanno aderito il mobilificio, la sua assciurazione e la ditta di montaggio. Solo l'assicurazione dei montatori ha rifiutato. Successivamente ad un cambio di giudice, la causa è arrivata fino alla sentenza di 1° grado che ha visto condannare alle spese processuali la pensionata. Non avendo risorse economiche e non potendo accedere a prestiti e finanziamenti, ora la signora, proprietaria dopo anni di sacrificio del suo piccolo alloggio, rischia che le venga pignorato il conto corrente e la casa. Possibile che in Italia possano verificarsi situazioni come questa?”
Consulenza legale i 20/12/2018
Vi sono nel caso in esame diversi aspetti da considerare.

In primo luogo il rapporto tra la società fornitrice (venditrice) della cucina e la cliente.
Il contratto di vendita comprendeva fornitura, trasporto e montaggio. Da quel che parrebbe di capire (nel quesito non è scritto ma lo si intuisce, anche sulla base di quanto lo stesso giudice ammette in sentenza: “con delle aggiunte relative alla predisposizione di un apposito vano per inserire la lavatrice”) la cliente aveva indicato delle misure precise per la realizzazione di un vano ad hoc che consentisse l'incasso della lavatrice che già possedeva. Il bene "cucina", dunque, doveva avere determinate caratteristiche indicate dall'acquirente.
Trattandosi di vendita di bene di consumo, correttamente è stata applicata la disciplina del Codice del Consumo, il quale all’art. 129, parla di bene non conforme al contratto, tra le altre, quando i beni venduti “sono altresi’ idonei all’uso particolare voluto dal consumatore e che sia stato da questi portato a conoscenza del venditore al momento della conclusione del contratto e che il venditore abbia accettato anche per fatti concludenti.”
Se, al momento del montaggio della cucina, la cliente si è accorta che il bene non era conforme al contratto, avrebbe dovuto segnalarlo alla venditrice (sul comportamento degli operai ed il loro intervento, si dirà oltre).

In particolare, l’art. 130 del C.d.C. stabilisce che in caso di difetto di conformità “il consumatore ha diritto al ripristino, senza spese, della conformità del bene mediante riparazione o sostituzione, a norma dei commi 3, 4, 5 e 6, ovvero ad una riduzione adeguata del prezzo o alla risoluzione del contratto, conformemente ai commi 7, 8 e 9.
La riparazione o sostituzione sono possibili solo se tali rimedi non siano oggettivamente impossibili o eccessivamente onerosi (la norma, poi, specifica quando si possa parlare di eccessiva onerosità) rispetto ad altri rimedi.
Il consumatore può invece richiedere, a sua scelta, una riduzione del prezzo o la risoluzione del contratto “ove ricorra una delle seguenti situazioni:
a) la riparazione e la sostituzione sono impossibili o eccessivamente onerose;
b) il venditore non ha provveduto alla riparazione o alla sostituzione del bene entro il termine congruo di cui al comma 5;
c) la sostituzione o la riparazione precedentemente effettuata ha arrecato notevoli inconvenienti al consumatore"
.
I diritti di cui sopra si esercitano entro due mesi dalla scoperta del vizio.
Ora, nel questo si accenna ad una raccomandata di denuncia del vizio e ad una richiesta di risarcimento del danno, ma non si conosce il contenuto preciso di tale raccomandata. Sarebbe opportuno visionarla, per capire se le richieste siano state formulate in modo corretto. Da quel che scrive il Giudice, parrebbe che sotto questo profilo la cliente non abbia agito correttamente.

Il secondo aspetto da considerare è quello della responsabilità degli operai. Il danno lamentato è quello dell’incendio all’appartamento: la cliente ha imputato le cause di quest’ultimo allo “scoperchiamento” della lavatrice, sulla quale avrebbe gocciolato dell’acqua che sarebbe andata a contatto con i cavi elettrici.
Va detto che gli operai non potevano autonomamente decidere di togliere la parte superiore della lavatrice senza apposita autorizzazione della fornitrice (ovvero del proprio datore di lavoro). Tale condotta esulava dalle loro mansioni.
Se, come dovrebbe essere, essi non potevano agire nel modo anzidetto perché non autorizzati la cliente avrebbe dovuto agire nei confronti della società venditrice per responsabilità ai sensi dell’art. 2049 c.c., in forza del quale i "padroni e committenti" sono responsabili per i danni arrecati dal fatto illecito dei loro dipendenti "nell'esercizio delle incombenze a cui sono adibiti”.

Si tratta, però, attenzione, come già detto, di responsabilità non contrattuale, poiché la condotta in questione esula dal contratto di fornitura e posa in opera della cucina.
Tale responsabilità di natura extracontrattuale si configurerebbe, in ogni caso, anche nell'ipotesi in cui gli operai fossero stati autorizzati dal proprio datore di lavoro ad agire nel modo denunciato, perché si tratta pur sempre non di un difetto di conformità del bene acquistato o comunque in un’inadempimento al contratto di fornitura e posa (si potrebbe infatti eccepire che la cucina ed il vano sono stati montati correttamente, è al contrario la lavatrice che è stata manomessa ma questo esula dall’oggetto del contratto) quanto piuttosto di un comportamento che ha causato un danno ingiusto alla cliente (art. 2043 c.c.).
Sia nella fase stragiudiziale della vicenda che in quella giudiziale, tuttavia, parrebbe che questo tipo di responsabilità non sia mai stata presa in considerazione.

Da ultimo, si osserva come non sia affatto chiaro se l'attrice in giudizio abbia offerto o meno la prova, e come, della condotta degli operai: nella descrizione dei fatti si sottolinea come il Giudice abbia erroneamente considerato come un verbale di consegna/rapportino di lavoro il semplice ordine della cucina, ma è impossibile dare un giudizio in merito senza aver letto il documento in questione. In atti risulta il rapportino di lavoro degli operai? Se sì, risulterebbe alquanto strano che il Giudice non ne abbia tenuto conto. In caso contrario, in mancanza di prova documentale della condotta degli operai, si sarebbe dovuto sentire come testimone il cognato della cliente: sono state assunte testimonianze? Su questo aspetto non abbiamo informazioni, pertanto non possiamo esprimere un parere sulla parte di sentenza in commento.

Legato a quanto detto sopra, è l’aspetto del nesso di causalità.
E’ evidente che la cliente aveva l’onere di provare il nesso di causalità tra incendio e scoperchiamento della lavatrice.
Nella descrizione dei fatti è detto che la causa dell’incendio sarebbe stata il gocciolamento dell’acqua dal lavello alla lavatrice, ma è detto anche che la proprietaria era uscita fuori a cena dopo aver avviato l'elettrodomestico. Perciò, purtroppo, non è certo che la dinamica sia stata questa, tanto che la stessa perizia di parte (da quel poco che ne sappiamo, non avendone letto il contenuto) non attribuisce con certezza le cause dell’incendio all’acqua colata dal lavello ma si mantiene possibilista.
Sempre stando a quello che si legge nella descrizione dei fatti, ci sono foto – oltre al ragionamento condotto dal perito – dalle quali si può ragionevolmente desumere che l’incendio si sia sviluppato nella parte alta della lavatrice, parte che evidentemente era stata manomessa dagli operai. Non è chiaro se, sotto questo profilo, in causa sia stata richiesta una CTU (che sarebbe stata comunque opportuna per l'esame delle prove di parte, anche se non si poteva evidentemente periziare l'appartamento, dato il tempo trascorso).
In ogni caso, parrebbe che il Giudice abbia sì considerato la perizia di parte, ma abbia dato maggiore rilievo alla circostanza per cui il fatto che l’incendio si sia sviluppato nella parte superiore dell’elettrodomestico non sarebbe sufficiente ad escludere che, senza la manomissione del coperchio, l’evento si sarebbe comunque prodotto.

C’è infine l’aspetto assicurativo: su questo, tuttavia, è davvero impossibile offrire un parere, perché bisognerebbe leggere il contenuto delle polizze nonché di tutta la corrispondenza intercorsa tra le parti e le Compagnie assicurative.
Ugualmente è imprescindibile visionare gli atti ed i documenti di causa.
Venendo, da ultimo, alla sentenza, ad avviso di chi scrive si tratta di provvedimento alquanto stringato nell’esposizione e soprattutto non adeguatamente motivato in rapporto alla complessità del caso. Ciò condurrebbe all’opportunità di un appello.
Tuttavia, lo ripetiamo, è impossibile sbilanciarsi in merito ad un’eventuale impugnazione senza aver visto l’intero fascicolo.
La soccombenza integrale sulle spese, che ad un primo e sommario giudizio parrebbe, in effetti, esagerata, potrebbe anche – al contrario – essere corretta: tutto dipende, infatti, da quali domande sono state avanzate in giudizio, come e nei confronti di chi.


Salvatore G. chiede
mercoledì 13/09/2017 - Veneto
“Abbiamo acquistato un impianto di video sorveglianza, che ci fu installato verso la fine del mese di luglio u.s.
Tuttavia, subito dopo l'installazione il dispositivo installato nel salottino di casa nostra, presentava una sonorità esagerata ed inusuale per un apparato elettronico assimilabile ad un normale pc.
Il rumore è tale da disturbare severamente le normali attività domestiche, in particolare la lettura, tenendo presente che che si tratta di un piccolo ambiente di poche metri quadrati.
Abbiamo chiesto che fosse posto rimedio all'inconveniente.
Ci hanno spiegato che l'apparato non è affatto rumoroso: il rumore fastidioso viene introdotto dalla ventola di raffreddamento dell'apparato stesso.
Ci hanno suggerito di disattivare il ventilatore, con ciò rischiando la distruzione dell'apparecchio a causa di surriscaldamento.
La nostra proposta di acquistare un apparato diverso, dotato di una normale ventola come tutti i Personal Compurer in commercio è in attesa di valutazione.
Nelle more di una risposta o di una ragionevole contro-proposta, l'apparato ha smesso di funzionare, ormai da una dozzina di giorni.
Oggi pomeriggio abbiamo ricevuto una telefonata dal sig. R. della S. che ci annunciava che il servizio è stato disattivato da "remoto" dalla S. medesima e ci confermava che essi son in grado di entrare nel nostro sistema e che possono attivare o disattivare il servizio in modo incontrollato ed incontrollabile dal cliente.
Chiediamo cortesemente se abbiamo il diritto di contestare la eccessiva rumorosità dell'apparato.
Si chiede altresì se rientra nella capacità legale di una terza parte di far funzionare o interrompere il funzionamento delle nostre telecamere, quando a ragione o a torto decida (la terza parte) di intervenire.
Cosa succede se la ditta chiude l'attività oppure dichiara fallimento.
Distinti saluti,

Consulenza legale i 28/09/2017
In primo luogo si osserva che correttamente è stato segnalato l’apparente vizio del bene compravenduto: la ventola rumorosa, nel caso in esame, costituisce quasi certamente un vizio dell’impianto tale da giustificare una richiesta di sostituzione del bene con un altro.
Da quel che si può presumere leggendo il quesito, la denuncia parrebbe essere stata tempestiva: in ogni caso, poiché non è chiaro se la stessa sia stata effettuata per iscritto o in forma orale, si consiglia – nel secondo caso - di inviare una raccomandata ai fini della prova nonché a fini interruttivi della prescrizione.

In base al Codice del Consumo (D.lgs n. 205/2006) i vizi e/o i difetti del bene, se tempestivamente denunciati, legittimano il consumatore/acquirente ad esperire, a titolo di garanzia, una serie di rimedi, tra i quali la richiesta di sostituzione o riparazione del bene stesso fino alla restituzione del prezzo.
L’art. 129 della norma citata recita infatti: “1. Il venditore ha l’obbligo di consegnare al consumatore beni conformi al contratto di vendita.
2. Si presume che i beni di consumo siano conformi al contratto se, ove pertinenti, coesistono le seguenti circostanze:
a) sono idonei all’uso al quale servono abitualmente beni dello stesso tipo;
b) sono conformi alla descrizione fatta dal venditore e possiedono le qualità del bene che il venditore ha presentato al consumatore come campione o modello;
c) presentano la qualità e le prestazioni abituali di un bene dello stesso tipo, che il consumatore può ragionevolmente aspettarsi, tenuto conto della natura del bene e, se del caso, delle dichiarazioni pubbliche sulle caratteristiche specifiche dei beni fatte al riguardo dal venditore, dal produttore o dal suo agente o rappresentante, in particolare nella pubblicità o sull’etichettatura;
d) sono altresì idonei all’uso particolare voluto dal consumatore e che sia stato da questi portato a conoscenza del venditore al momento della conclusione del contratto e che il venditore abbia accettato anche per fatti concludenti (…)”.

Il difetto di conformità del bene può rilevare, in ogni caso, sotto un ulteriore profilo.
Tutti gli impianti tecnici, infatti, devono essere progettati e installati a regola d’arte, ovvero secondo requisiti tecnici minimi che consentono a un determinato apparato/impianto di funzionare correttamente, in sicurezza e in piena efficienza.
La conformità alla regola d’arte è obbligatoria ed è stata stabilita, per tutti gli apparati e gli impianti tecnici, dall’art. 1 della legge n. 186 dell’1/03/1968, tuttora in vigore.
Nel settore impiantistico tecnico, il Ministero dello Sviluppo Economico ha emanato poi il decreto n. 37 del 22 gennaio 2008 “Regolamento concernente l'attuazione dell'articolo 11 - quaterdecies, comma 13, lettera a) della legge n. 248 del 2 dicembre 2005, recante riordino delle disposizioni in materia di attività di installazione degli impianti all'interno degli edifici”, i cui progettisti ed installatori devono attenersi.
L’art. 7 del citato decreto prescrive che, al termine dell’installazione, la ditta fornitrice debba rilasciare al committente apposita “dichiarazione di conformità” alla regola d’arte redatta sui modelli riportati in allegato alla norma.
La dichiarazione di conformità deve essere corredata di alcuni allegati obbligatori quali: il progetto (ex artt. 5 e 7), una relazione con le tipologie dei materiali utilizzati, uno schema d’impianto realizzato, l’eventuale riferimento a dichiarazioni di conformità precedenti o parziali, già esistenti; una copia del certificato di riconoscimento dei requisiti tecnico-professionali, rilasciato alla ditta installatrice dalla Camera di Commercio.
Infine, la suddetta dichiarazione deve essere consegnata, unitamente agli allegati obbligatori, entro trenta giorni dalla data di fine installazione, allo “Sportello unico” del Comune in cui è ubicato l’immobile dove è stato installato l’impianto.
Nel caso di specie, quindi, bisogna verificare che sia stata rilasciata la certificazione di conformità dell’impianto dalla ditta che si è occupata dell’installazione.

In merito alla seconda domanda, va detto preliminarmente che non si può ritenere, a priori e di per sè, illegittimo l’intervento da remoto sull’impianto: se le finalità sono state, ad esempio, di ordine manutentivo, si tratta di modalità del tutto usuale al giorno d’oggi.
Vanno tuttavia considerati alcuni aspetti, in primo luogo quello della tutela della privacy dell’acquirente.
Tutti i dati personali (immagini, nel caso di specie) di cui S. sia venuta a conoscenza attraverso il controllo da remoto vanno tutelati attraverso l’acquisizione del consenso al trattamento: l’impiantista deve, evidentemente, aver richiesto tale consenso al cliente/proprietario dell’impianto prima di intervenire a distanza e, nel caso lo abbia fatto, dovrà poi trattare i dati in questione nel rispetto della normativa sulla privacy.
Il rischio, per S., nel caso in cui non abbia tenuto il comportamento corretto, è quello di incorrere in responsabilità di natura civile (art. 15 del D.Lgs. n. 196/2003, “Codice in materia di protezione dei dati personali”: “Chiunque cagiona danno ad altri per effetto del trattamento di dati personali è tenuto al risarcimento ai sensi dell’articolo 2050 del codice civile. E’ risarcibile anche il danno non patrimoniale.”), in sanzioni di natura amministrativa (artt. 161 e seguenti del medesimo Codice) ed infine in illeciti di natura addirittura penale (artt. 167 e seguenti del Codice, in forza dei quali il trattamento illecito di dati viene commesso da chi, al fine di trarne per sé o per altri profitto o di recare ad altri un danno, procede al trattamento di dati personali in violazione di determinate disposizioni previste dal Codice, se dal fatto deriva nocumento o se il fatto consiste nella comunicazione o diffusione. Per questo delitto è comminata la reclusione da sei mesi a tre anni.).

L’intervento da remoto potrebbe, ancora, dare àdito ad una richiesta risarcitoria qualora, per ipotesi, nelle more del ripristino della funzionalità dell’impianto, si fosse verificata un’intrusione non autorizzata o un furto in casa di colui che ha installato l’apparecchio.
In tale eventualità, non essendo stato l’intervento previamente concordato ed autorizzato, S. risponderà di tutti i danni subìti dal cliente a causa dell’impossibilità di utilizzare il sistema di videosorveglianza per un determinato lasso di tempo.

In ordine, infine, all’ultima domanda, nel caso di chiusura della ditta o di fallimento, è certo che la responsabilità del soggetto che ha venduto l’impianto non verrà meno ma potrà essere solo meno agevole riuscire a farla valere.
Il regime, infatti, della responsabilità civile varia a seconda del soggetto di cui si tratta.

Occorre distinguere, ad esempio, tra una ditta individuale o una società di persone (s.n.c. o s.a.s.), ed una società di capitali (s.r.l., s.p.a. o s.a.p.a.): infatti nel primo caso il titolare della ditta o i soci hanno una personale e diretta responsabilità per gli eventuali danni che originano dall’attività professionale, quando ed anche se cessata, responsabilità che si affianca a quella della società, in persona del liquidatore; nel secondo caso, ovvero nel caso di società di capitali, potrebbe essere più difficile ottenere soddisfazione perché occorre aggredire in primis il patrimonio sociale e solo in seconda battuta quello personale dei soci.

Nel caso di intervenuto fallimento, invece, il soggetto nei confronti del quale far valere eventuali responsabilità è sempre la società fallita, ma in persona del curatore fallimentare; il fallimento, tuttavia, è una procedura concorsuale, il che significa che il proprio credito (in questo caso, risarcitorio) – per poter essere riconosciuto – dovrà o preventivamente essere accertato dal Giudice in sede di verifica preliminare oppure, se contestato in sede di verifica, dovrà essere purtroppo accertato attraverso un vero e proprio giudizio civile ordinario.

Ezio B. chiede
mercoledì 15/03/2017 - Lombardia
“Buongiorno, avrei bisogno di sapere come devo comportarmi verso un fornitore che mi ha fornito del materiale scadente.
Nello specifico, ho acquistato delle piastrelle di 1a scelta da un rivenditore, per un bagno piccolo, mi sono accorto a lavoro finito che ci sono piastrelle di nuance diverse.
Il rivenditore ha fatto intervenire il suo fornitore, il quale prima ha negato che vi fosse diversità ed alla fine mi ha portato due pacchi di piastrelle per la sostituzione, peccato che poi ci siamo accorti di un problema analogo anche per il rivestimento, l' ho sottoposto al rivenditore il quale mi ha tranquillizzato circa l' intervento da parte del suo fornitore per una fornitura fatta ex novo oppure per una parte di piastrelle, quelle da sostituire, ed un minimo in danaro per ripagare il posatore per il lavoro che dovrebbe rifare. mi dite come dovrei comportarmi ?”
Consulenza legale i 24/03/2017
La fattispecie rientra nella disciplina del Codice del Consumo, Decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206, in quanto chi pone il quesito ha acquistato il prodotto agendo per scopi estranei all’attività professionale (è dunque "consumatore", ai sensi della norma) da un altro soggetto che, al contrario, ha venduto proprio nello svolgimento della propria attività commerciale.

L’art. 129 del predetto Codice sulla “conformità al contratto” stabilisce: “1. Il venditore ha l’obbligo di consegnare al consumatore beni conformi al contratto di vendita.
2. Si presume che i beni di consumo siano conformi al contratto se, ove pertinenti, coesistono le seguenti circostanze:
a) sono idonei all’uso al quale servono abitualmente beni dello stesso tipo;
b) sono conformi alla descrizione fatta dal venditore e possiedono le qualita’ del bene che il venditore ha presentato al consumatore come campione o modello; (…)“.

Il successivo articolo 130, sui “Diritti del consumatore” recita poi: “1. Il venditore è responsabile nei confronti del consumatore per qualsiasi difetto di conformità esistente al momento della consegna del bene.
2. In caso di difetto di conformità, il consumatore ha diritto al ripristino, senza spese, della conformità del bene mediante riparazione o sostituzione, a norma dei commi 3, 4, 5 e 6, ovvero ad una riduzione adeguata del prezzo o alla risoluzione del contratto, conformemente ai commi 7, 8 e 9.
3. Il consumatore può chiedere, a sua scelta, al venditore di riparare il bene o di sostituirlo, senza spese in entrambi i casi, salvo che il rimedio richiesto sia oggettivamente impossibile o eccessivamente oneroso rispetto all’altro. (…).
5. Le riparazioni o le sostituzioni devono essere effettuate entro un congruo termine dalla richiesta e non devono arrecare notevoli inconvenienti al consumatore, tenendo conto della natura del bene e dello scopo per il quale il consumatore ha acquistato il bene.
6. Le spese di cui ai commi 2 e 3 si riferiscono ai costi indispensabili per rendere conformi i beni, in particolare modo con riferimento alle spese effettuate per la spedizione, per la mano d’opera e per i materiali.
7. Il consumatore puo’ richiedere, a sua scelta, una congrua riduzione del prezzo o la risoluzione del contratto ove ricorra una delle seguenti situazioni:
a) la riparazione e la sostituzione sono impossibili o eccessivamente onerose;
b) il venditore non ha provveduto alla riparazione o alla sostituzione del bene entro il termine congruo di cui al comma 5;
c) la sostituzione o la riparazione precedentemente effettuata ha arrecato notevoli inconvenienti al consumatore. (...)
9. Dopo la denuncia del difetto di conformità, il venditore può offrire al consumatore qualsiasi altro rimedio disponibile, con i seguenti effetti:
a) qualora il consumatore abbia già richiesto uno specifico rimedio, il venditore resta obbligato ad attuarlo, con le necessarie conseguenze in ordine alla decorrenza del termine congruo di cui al comma 5, salvo accettazione da parte del consumatore del rimedio alternativo proposto;
b) qualora il consumatore non abbia già richiesto uno specifico rimedio, il consumatore deve accettare la proposta o respingerla scegliendo un altro rimedio ai sensi del presente articolo. (…)”.

Per tornare al caso di specie, correttamente quindi ha agito il rivenditore nel proporre la sostituzione del prodotto (le piastrelle) con uno conforme a quello ordinato dall’acquirente.
Come si comprende dalla lettura della norma di legge, invece, nessuna spesa derivante e/o connessa all’inadempimento del rivenditore può essere addebitata al consumatore, neppure parzialmente: in buona sostanza, l'acquirente non dovrà pagare alcunché, neppure il lavoro di posa in opera della seconda e sostitutiva partita di piastrelle.
E’ vero che il posatore deve fare il lavoro due volte, ma questo non è certo per colpa del consumatore.

Il venditore avrà poi nei confronti del fornitore un diritto di regresso qualora subisca un pregiudizio dalla vendita “andata male” (art. 131 del predetto Codice del Consumo: “Il venditore finale, quando e’ responsabile nei confronti del consumatore a causa di un difetto di conformità’ imputabile ad un’azione o ad un’omissione del produttore, di un precedente venditore della medesima catena contrattuale distributiva o di qualsiasi altro intermediario, ha diritto di regresso, salvo patto contrario o rinuncia, nei confronti del soggetto o dei soggetti responsabili facenti parte della suddetta catena distributiva.
2. Il venditore finale che abbia ottemperato ai rimedi esperiti dal consumatore, può agire, entro un anno dall’esecuzione della prestazione, in regresso nei confronti del soggetto o dei soggetti responsabili per ottenere la reintegrazione di quanto prestato.”).

L’art. 132 del Codice del Consumo prescrive che “Il consumatore decade dai diritti previsti dall’articolo 130, comma 2, se non denuncia al venditore il difetto di conformità entro il termine di due mesi dalla data in cui ha scoperto il difetto. La denuncia non è necessaria se il venditore ha riconosciuto l’esistenza del difetto o lo ha occultato.” Nel caso di specie, però, il difetto è stato denunciato subito e comunque è stato riconosciuto dal rivenditore.

In conclusione, il consumatore ha il diritto di pretendere dal proprio rivenditore la sostituzione delle piastrelle difettose e potrà rifiutarsi di pagare la posa in opera sostitutiva – la cui spesa dovrà più correttamente essere addebitata al rivenditore inadempiente – dal monento che, se fosse stato venduto un prodotto conforme al modello visto, piaciuto ed ordinato dall’acquirente, non ci sarebbe stato bisogno di un nuovo intervento di posa.
Il consiglio, tuttavia, è sempre quello di mettere per iscritto la propria posizione e formalizzare le richieste, perché quel che viene detto o promesso a voce poi difficilmente si può dimostrare; ad esempio, è consigliabile inoltrare una raccomandata con ricevuta di ritorno al rivenditore raccontando l’accaduto, chiarendo di chi sono le responsabilità e precisando che non si sosterrà alcuna spesa aggiuntiva oltre al prezzo già corrisposto delle piastrelle.

Per quel che concerne, infine, la fattura, la questione è di duplice natura.
Il consumatore deve chiedere ed ottenere una ricevuta, perché costituisce prova del lavoro svolto e soprattutto prova del pagamento (già) effettuato. In mancanza di ricevuta, infatti, il posatore, un domani, potrebbe non tanto contestare l’effettiva esecuzione del lavoro quanto, e soprattutto, richiederne il pagamento sostenendo di non essere stato saldato (ovviamente ciò vale solo per i pagamenti effettuati in contanti, che sono difficilmente ricostruibili: in caso di bonifico o assegno, il pagamento è tracciabile).

Sotto il diverso profilo fiscale, invece, la mancanza di emissione di una vera e propria fattura costituisce un problema solo per il posatore, dal momento che tale comportamento (se, come è lecito presumere, trattasi di soggetto IVA) costituisce un illecito a suo carico.

M. P. chiede
mercoledì 20/12/2023
“Buongiorno, nel Giugno 2022 volendo acquistare un'auto usata per nostro figlio, ci siamo rivolti ad un autosalone plurimarche, in quanto comprare dal privato ci sembrava poco sicuro. Da questo Autosalone, con annessa officina, abbiamo acquistato una X del 2018, con quotazione del prezzo in linea con Quattroruote. L'auto ci sembrava in ottimo stato, tettuccio panoramico, interni nuovi, gomme nuove, appena revisionata e, a detta del venditore da unico proprietario non incidentata. L'auto ritirata a luglio 2022 è rimasta in garage sino ad agosto e dopo averla usata solo due volte c'è stato un problema con le luci e durante la marcia si è staccato lo specchietto retrovisore interno. Contattato il venditore il tutto è stato riparato presso la loro officina con giustificazioni in verità non del tutto convincenti. Ma a febbraio 2023 la comparsa di un allarme metteva in luce un problema all airbag che a detta del concessionario era stato male impostato. L'auto è rimasta ferma sino al mese di giugno perché nostro figlio a febbraio è partito per Milano e l'auto è stata poi usata da noi occasionalmente. A giugno 2023 è scaduta la garanzia di un anno data dal venditore. A fine estate abbiamo portato l'auto dal nostro carrozziere di fiducia insospettiti perché usandola in autostrada si sentiva uno spiffero consistente in corrispondenza di un vetro deflettore anteriore che non veniva percepito in città. Dopo un controllo sotto la guarnizione e sulla carrozzeria, il carrozziere constatava che sotto le guarnizioni c'erano delle saldature grossolane, arrivando alla conclusione che tutta la parte superiore e il tettuccio non apparteneva a quell'auto. Portata alla concessionaria Renault della mia città ci confermavano che quel modello di Clio non prevede il tettuccio panoramico e che l'auto non risultava avesse mai fatto i tagliandi presso una Officina X.
Consultato lo storico dell'auto scopriamo che dopo l'immatricolazione ci sono stati due passaggi aziendali, uno a privato e poi il passaggio all'autosalone dal quale è stata acquistata. Nominato quindi un perito per essere certi sulle condizioni reali dell'auto, questi ha confermato con la sua perizia quanto sospettato: l'auto risulta gravemente incidentata. Quindi, in conclusione, ci è stato venduto un bene diverso da quanto pattuito, quindi un bene che avrebbe dovuto avere un costo ben diverso e che rivenduta ora varrebbe la metà e che non avremmo mai comprato se correttamente informati.
Alla luce di questi fatti chiediamo a voi un consiglio legale sul modo più corretto per affrontare questo problema e come possiamo agire legalmente ma senza arrivare ad una denuncia per truffa in tribunale.Vorremmo sapere se possiamo chiedere al venditore la restituzione dell'auto con risoluzione del contratto e risarcimento di quanto pagato per vizio grave dolosamente nascosto svincolato dai limiti di garanzia.
E qualora non acconsentisse, segnalare quanto accaduto alla Polizia non sapendo tra l'altro se dietro questa modalità di vendita si nasconda un giro di malaffare.
Allego:
Perizia dello Studio Tecnico
Garanzia di conformità rilasciata dal venditore
Cordiali saluti”
Consulenza legale i 03/01/2024
Quando si acquista un’auto usata, pur sforzandosi di utilizzare tutti gli accorgimenti possibili - primo fra tutti, quello di rivolgersi a un venditore considerato affidabile, come peraltro si è cercato di fare in questo caso - è piuttosto frequente incappare comunque in brutte sorprese.
Prima di capire come procedere è necessario fare chiarezza sulle possibili norme da applicare.

In primo luogo, abbiamo la garanzia per i vizi nella vendita, prevista dagli artt. 1490 e ss. del codice civile. La garanzia copre i cosiddetti vizi occulti, cioè quei difetti che il compratore non conosceva al momento della conclusione del contratto.
Inoltre, la garanzia non opera per i vizi facilmente riconoscibili: ora, nel nostro caso, ammesso che si tratti di “semplici” vizi, qualche dubbio può sorgere dalla lettura della perizia allegata, ove si parla di saldature e di un ri-assemblaggio grossolano. Tuttavia, anche quando i vizi sono facilmente riconoscibili, la garanzia si applica comunque, se il venditore ha dichiarato che la cosa era esente da vizi: ora, nel nostro caso non è stato possibile esaminare il contratto di vendita, tuttavia risulta che il venditore avesse dichiarato che l’auto, oltre ad essere di seconda e non di terza mano, fosse “non incidentata” (sarebbe interessante capire se queste dichiarazioni siano state fatte per iscritto, perché non è chiaro).

Ad ogni modo, la problematica maggiore che si pone quando si vogliono far valere i vizi della cosa ex artt. 1490 e ss. c.c. è l’esistenza di stretti termini per denunciare i vizi al venditore e per agire in giudizio, rispettivamente di decadenza (la denuncia dei vizi va fatta entro otto giorni dalla loro scoperta) e di prescrizione (l’azione va proposta entro un anno dalla consegna), come previsto dall’art. 1495 c.c.
Però - come correttamente rilevato anche nel quesito - la denuncia non è necessaria, se il venditore ha riconosciuto l'esistenza del vizio o l'ha occultato, cioè nascosto: e nel nostro caso sembra proprio che il venditore abbia insabbiato ben bene le condizioni disastrose in cui si trovava il veicolo e che sono emerse a seguito della perizia.

Quali sono gli effetti della garanzia per vizi? Il codice civile attribuisce al compratore il diritto di ottenere, a seconda delle circostanze e ovviamente in via alternativa, la risoluzione del contratto o la riduzione del prezzo. Inoltre, in ogni caso può essere chiesto dall'acquirente il risarcimento del danno (a meno che il venditore provi di aver incolpevolmente ignorato i vizi: ma nel caso che ci occupa sarebbe veramente difficile sostenerlo…).

Attenzione, però, perché l’azione di garanzia per vizi della cosa non è l’unico rimedio astrattamente possibile per chi non abbia fatto un acquisto conforme alle proprie legittime aspettative.
Dobbiamo ora prendere in esame la mancanza di qualità promesse, o le qualità essenziali per l’uso cui la cosa è destinata: in questo caso l’art. 1497 c.c. prevede che il compratore possa chiedere la risoluzione del contratto. Si applicano, però, gli stessi termini di decadenza e di prescrizione previsti dall’art. 1495 c.c. in caso di vizi occulti.


Per completezza, nel nostro caso risulta applicabile, almeno in astratto, anche la normativa contenuta negli artt. 129 e ss. del Codice del Consumo, per cui il venditore è responsabile dei difetti di conformità del bene venduto, che si manifestino entro due anni dalla consegna e in presenza di tutti i presupposti stabiliti dalle norme a difesa del consumatore.

Nel quesito, tuttavia, si prospetta anche una ulteriore possibilità: ovvero che sia stato venduto non un veicolo “semplicemente” (per quanto gravemente) difettoso, e neppure un veicolo mancante di alcune caratteristiche promesse o essenziali, ma proprio un veicolo diverso da quello pattuito e che il compratore credeva di acquistare.
Si tratterebbe della c.d. vendita di aliud pro alio, cioè, letteralmente, di una cosa per un’altra. L’azione per far valere questo tipo di inadempimento del venditore sarebbe, peraltro, svincolata dal rispetto dei termini di decadenza e prescrizione previsti dall’art. 1495 c.c.
Occorre capire, a questo punto, se le numerose e gravi problematiche riscontrate nell’auto possano costituire un vero e proprio aliud pro alio.
Si tratta di una valutazione non sempre scontata e per la quale non possiamo a meno di fare riferimento alla casistica affrontata in giurisprudenza, soprattutto in quella della Corte di Cassazione.
Ora, proprio una recente pronuncia della Suprema Corte (Cass. Civ., Sez. II, ordinanza 08/04/2022, n. 11438) ha ribadito che “la consegna di aliud pro alio, che dà luogo all'azione contrattuale di risoluzione o di adempimento ex art. 1453 cod. civ., svincolata dai termini di decadenza e prescrizione previsti dall'art. 1495 c.c., si verifica nei casi in cui il bene venduto sia completamente diverso da quello pattuito, in quanto si riveli funzionalmente del tutto inidoneo ad assolvere la destinazione economico-sociale della res venduta e, quindi, a fornire l'utilità richiesta”.
Nel caso affrontato dalla Suprema Corte, era stato accertato che l'autovettura acquistata “non poteva essere utilizzata in condizioni di sicurezza per il difetto che presentava al telaio traversa, alle sospensioni anteriori, elementi decisivi ai fini della tenuta di strada [...]. Con la conseguenza che era stata venduta una cosa diversa da quella pattuita”.
Ora, nel nostro caso la perizia ha evidenziato che non solo il veicolo acquistato era di terza mano e tutt’altro che “non incidentato”, ma che addirittura la sua parte superiore era stata montata da un veicolo di modello diverso anche se “similare”.

Aggiungiamo anche che la giurisprudenza a volte non è così rigorosa nel distinguere tra aliud pro alio e mancanza di qualità; si veda Cass. Civ., Sez. II, 31/03/2006, n. 7630: “ricorre la ipotesi di cosa radicalmente diversa (aliud pro alio) e non di cosa viziata o mancante delle qualità promesse quando il bene sia totalmente difforme da quello dovuto e tale diversità sia di importanza fondamentale e determinante nella economia del contratto. Tale situazione può verificarsi sia quando la cosa si presenti priva delle caratteristiche funzionali necessarie a soddisfare i bisogni dell'acquirente, sia quando la cosa appartenga ad un genere del tutto diverso”.

A parere di chi scrive, dunque, nel caso che ci occupa è possibile sostenere fondatamente l’esistenza di una vendita di aliud pro alio.
Tuttavia, si consiglia di rivolgersi comunque a un legale, evitando il “fai da te”: la situazione si presenta piuttosto ingarbugliata e il venditore ha ampiamente dimostrato di essere persona poco affidabile. In accordo con un avvocato di fiducia sarà possibile scegliere la strategia difensiva più corretta.

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