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Articolo 460 Codice Civile

(R.D. 16 marzo 1942, n. 262)

[Aggiornato al 31/01/2024]

Poteri del chiamato prima dell'accettazione

Dispositivo dell'art. 460 Codice Civile

Il chiamato all'eredità(1) può(2) esercitare le azioni possessorie a tutela dei beni ereditari, senza bisogno di materiale apprensione(3).

Egli inoltre può(2) compiere atti conservativi, di vigilanza e di amministrazione temporanea, e può farsi autorizzare dall'autorità giudiziaria a vendere i beni che non si possono conservare o la cui conservazione importa grave dispendio(4).

Non può il chiamato compiere gli atti indicati nei commi precedenti, quando si è provveduto alla nomina di un curatore dell'eredità a norma dell'articolo 528.

Note

(1) Benché la norma indichi il "chiamato all'eredità", la stessa, in realtà, si riferisce al delato, ossia a colui che può accettare l'eredità ma non lo ha ancora fatto.
(2) Trattasi di una facoltà del chiamato, non di un dovere, che ha ad oggetto l'amministrazione dell'eredità non ancora accettata.
Poiché il chiamato, agisce per tutelare un interesse proprio e non altrui, allo stesso non spetta alcun compenso per l'attività prestata, salvo il rimborso per le spese di amministrazione e di conservazione sostenute, qualora rinunci all'eredità (v. art. 461 del c.c.).
(3) Posto che il chiamato all'eredità, al momento dell'apertura della successione, subentra immediatamente nel possesso giuridico dei beni del defunto, si ritiene che i poteri di cui all'art. 460 c.c. spettino a questo indipendentemente dal fatto che lo stesso abbia o meno il possesso materiale dei beni ereditari.
(4) I poteri attributi dalla norma in commento trovano un limite preciso nel divieto di compiere atti di disposizione. Diversamente per il chiamato si realizzerebbe la decadenza dalla facoltà di rinunciare all'eredità o di accettare con beneficio di inventario. Al chiamato, di conseguenza, sarà consentito compiere esclusivamente gli atti di conservazione, di vigilanza e di amministrazione temporanea.
Qualora il chiamato intenda vendere i beni non conservabili o la cui conservazione sia eccessivamente dispendiosa, sarà necessaria l'autorizzazione dell'autorità giudiziaria competente (v. artt. 747 e 748 del c.p.c.).

Ratio Legis

Scopo della norma è di evitare, nel periodo intercorrente fra la delazione dell'eredità e l'accettazione del chiamato, che i terzi possano impossessarsi e disporre indebitamente dei beni ereditari.

Brocardi

Possessio defuncti quasi iuncta descendit ad heredem
Possessio testatoris ita heredi procedit, si medio tempore a nullo possessa est
Quamdiu hereditas iacet, possessio nullius est

Spiegazione dell'art. 460 Codice Civile

La norma in esame prevede l'attribuzione al soggetto delato di poteri di vigilanza, di amministrazione e di conservazione che legittimano quest'ultimo a compiere atti con effetti sul patrimonio ereditario che momentaneamente non è proprio.

Lo scopo precipuo della norma è quello di garantire la conservazione del patrimonio ereditario nel periodo che intercorre tra l'apertura della successione e la sua accettazione.
Al fine di perseguire tale interesse il legislatore ha previsto in capo al delato il potere di compiere gli atti necessari a preservare l'asse ereditario senza che ciò determini necessariamente l'acquisto tacito dell'eredità ai sensi dell'art. 476 del codice civile di cui la norma in esame costituisce un'eccezione.
Il delato, in particolare, ha l'onere di rispettare i limiti previsti ai sensi della norma in oggetto affinché l'atto dallo stesso posto in essere non integri un'accettazione tacita dell'eredità, ma non vi è obbligato.

L'attività di vigilanza del delato viene individuata come l'insieme degli atti di natura cautelare volti ad individuare la consistenza del patrimonio ereditario.
Essa si pone quale momento preliminare all'attività di amministrazione ed è tesa ad individuare le fonti di possibili pregiudizi al patrimonio ereditario anche al fine di predisporre l'adozione di provvedimenti di natura conservativa.
Tra gli atti di vigilanza (visione di documenti, verifica dei registri e delle scritture contabili) rientra la predisposizione dell'inventario che costituisce un vero e proprio obbligo del chiamato che sia nel possesso dei beni ereditari e la cui inosservanza determina in capo a quest'ultimo l'acquisto dello stato di erede puro e semplice (art. 485 2º comma del codice civile).

L'attività di conservazione è volta a evitare la perdita o il deterioramento dei beni ereditari al fine di conservare il valore giuridico del patrimonio ereditario e vi rientrano tra gli altri gli atti interruttivi della prescrizione o dell'usucapione, la trascrizione di un atto di acquisto del defunto, la rinnovazione di un'iscrizione ipotecaria.

L'attività di amministrazione temporanea si sostanzia nell'insieme di atti di ordinaria e straordinaria amministrazione volti a preservare il valore economico del patrimonio ereditario.

Al riguardo secondo parte della dottrina (Barassi, Grosso, Burdese) tra gli atti di straordinaria amministrazione rientrerebbero esclusivamente quelli relativi ai beni che non possono essere mantenuti nel patrimonio ereditario o possono esserlo solo con grave dispendio.
Secondo altra parte della dottrina (Natoli) il discrimen tra glia atti di straordinaria amministrazione che possono essere compiuti nei limiti della norma in esame andrebbe invece individuato nella funzione conservativa che sottende al compimento dell'atto stesso.
Potrebbero quindi essere compiuti atti di straordinaria amministrazione di qualsiasi natura purché destinati a preservare il patrimonio ereditario.

Si precisa che per il compimenti di tali atti il delato dovrà farsi autorizzare dal tribunale del luogo di apertura della successione ai sensi dell'art. 747 del codice di procedura civile qualora non voglia assumere la qualità di erede.
In mancanza di autorizzazione l'atto sarà valido, salvo sia compiuto da un soggetto delato incapace, nel qual caso l'atto sarà annullabile costituendo l'autorizzazione condizione di validità dell'atto.
Con riferimento agli atti compiuti dal delato incapace si ritiene che l'autorizzazione ai sensi dell'art. 747 del codice di procedura civile sia quella prevista dal 1º comma, occorrendo il parere del giudice tutelare di cui al 2º comma, solo nel caso in cui i beni appartengano già all'incapace, ipotesi che non ricorre con riferimento al soggetto delato.

Il delato, secondo la dottrina maggioritaria (Cicu, Barbero, Ferri), ha il potere, ma non l'obbligo, di amministrare i beni ereditari, egli in tale ambito agisce, infatti, nell'esclusivo interesse proprio non assumendo la qualifica di curatore né tanto meno di amministratore con conseguente impossibilità di imputare in capo allo stesso alcuna responsabilità in caso di mancata amministrazione dei beni ereditari.

L'attività di conservazione del patrimonio ereditario ai sensi della norma in oggetto è esclusa qualora sia stato nominato un curatore dell'eredità giacente ai sensi dell'art. 528 1º comma del codice civile.

Nel caso in cui il testatore abbia previsto la nomina di un esecutore testamentario (art. 528 1º comma del codice civile) sarà invece possibile che il delato eserciti i poteri allo stesso riconosciuti dalla norma in esame relativamente ai beni sui quali l'esecutore non è chiamato ad esercitare la sua funzione.
Anche qualora l'esecutore testamentario amministrasse tutti i beni ereditari permarrebbe in capo al chiamato il potere di vigilare sull'apposizione dei sigilli (art. 705 del codice civile) e sulla redazione dell'inventario (art. 705 del codice civile) nonché il potere di chiedere l'esonero nei casi previsti dall'art. 710 del codice civile).
Qualora l'esecutore testamentario debba procedere all'alienazione di beni ereditari egli è tenuto ai sensi dell'art. 703 4º comma del codice civile a sentire gli eredi, al riguardo si ritiene che non debba invece sentire il parere dei delati che, in quanto tali, non sono titolari del patrimonio ereditario.

Relazione al Codice Civile

(Relazione del Ministro Guardasigilli Dino Grandi al Codice Civile del 4 aprile 1942)

226 A gravi dubbi ha dato luogo l'art. 4 del progetto, che riconosceva al chiamato all'eredità la veste di possessore di diritto dei beni del defunto senza bisogno di materiale apprensione. La formula del progetto, che parlava di acquisto, e non di passaggio di diritto, del possesso dei beni del defunto (a differenza di quanto disponeva l'art. 925 del codice del 1865), voleva conciliare il principio dell'acquisto ereditario fondato esclusivamente sull'accettazione con l'esigenza pratica di provvedere alla tutela dei beni del defunto contro eventuali turbative durante il periodo intermedio tra l'apertura della successione e l'accettazione. La soluzione adottata dal progetto non ha incontrato favore. Si sono in complesso manifestate due tendenze, l'una favorevole a sostituire alla formula del progetto quella dell'art. 925 del codice del 1865, l'altra, che avrebbe voluto dare al chiamato all'eredità la posizione di curatore di diritto nel periodo intermedio, con l'onere di provvedere all'amministrazione e alla conservazione dei beni. In prevalenza, peraltro, è stato proposto il ritorno alla formula tradizionale dell'art. 925 del codice del 1865, che riconosceva il passaggio di diritto del possesso nell'erede, sostituendo in essa al termine "erede" quello di "chiamato alla eredità". Il ritorno alla formula del vecchio codice vorrebbe mettere in rilievo che il possesso attribuito dalla legge al chiamato all'eredità non è una situazione autonoma, ma rappresenta la continuazione del possesso del dante causa con le qualifiche che a questo si ricollegano, sia ai fini della tutela possessoria, sia ai fini dell'usucapione. Così si voleva porre in evidenza che la funzione della norma era di permettere l'applicazione del principio disposto nell'art. 693 del detto codice. Non bisogna però dimenticare che lo scopo pratico dell'art. 4 del progetto, come già dell'art. 925 del codice del 1865, è soltanto di consentire al chiamato, nel periodo intermedio fra la delazione e l'acquisto dell'eredità, la tutela possessoria dei beni ereditari svincolata dai presupposti che la legge normalmente richiede. Tale scopo pratico diverge da quello perseguito dall'art. 693, nel quale si disponeva la continuazione di diritto del possesso, ma per l'ipotesi in cui il chiamato avesse già acquistato la qualità di erede. Ora, per raggiungere l'effetto pratico di accordare al chiamato la facoltà autonoma di esperire le azioni possessorie, non vi è alcun bisogno di ricorrere alla finzione di una trasmissione frazionaria e anticipata del possesso, ultimo residuo del sistema della saisine, abbandonato consapevolmente dal nuovo codice. Basta che la legge autorizzi il chiamato all'eredità a difendere con i rimedi possessori, svincolati da tutti i loro presupposti, i beni che fanno parte, a qualsiasi titolo, del patrimonio ereditario in relazione a eventuali lesioni che possano verificarsi. Per questi beni non sorge affatto la necessità di qualificare la specie di possesso del chiamato, né di considerare questo come un possessore fittizio, né tanto meno di considerarlo come un continuatore del possesso del dante causa, perché la legge attribuisce al chiamato la facoltà di reagire contro eventuali spogli e turbative, avvenuti dopo l'apertura della successione, indipendentemente da una relazione possessoria coi beni e solo come effetto provvisorio e anticipato della tutela più ampia che gli spetterà quando, accettata l'eredità, subentrerà rispetto ai singoli beni nella situazione giuridica, e quindi eventualmente anche nella situazione possessoria, in cui si trovava il de cuius. Rispetto poi agli effetti della continuazione del possesso, basata sul presupposto che nel de cuius vi era solo il possesso e non il diritto corrispondente, e che il chiamato abbia accettato, non è la disposizione in esame che provvede, ma l'art. 1146. Non è quindi il caso di mutare il principio informatore della disciplina proposta nel progetto; ma mi sono preoccupato di realizzarne più compiutamente il contenuto, precisando la natura e i limiti dei poteri del chiamato all'eredità per la tutela dei beni del defunto. Senza giungere ad affermare che il chiamato assume la figura e la qualità di un curatore di diritto — precisazione che è preferibile lasciare alla dottrina — ho accolto il suggerimento di coordinare più strettamente l'articolo stesso con l'art. 20 e con l'art. 31 del progetto, riflettenti, rispettivamente, gli atti conservativi dell'eredità che non importano accettazione della stessa, e la posizione del chiamato che sia nel possesso dei beni ereditari. Pertanto ho formulato l'art. 460 del c.c., distribuendone il contenuto in tre commi. Nel primo ho enunziato il principio che il chiamato, anche senza bisogno di materiale apprensione dei beni ereditari, può, per la tutela degli stessi, esercitare le azioni possessorie. Viene così affermato l'effetto pratico che si vuol raggiungere senza enunziare che egli ha il cosiddetto o possesso di diritto o, e senza quindi voler ricollegare tale effetto a un possesso fittizio. Nel secondo comma ho stabilito che il chiamato all'eredità può compiere atti conservativi, di vigilanza e temporanea amministrazione, e cioè quegli atti che nel progetto sono previsti nell'art. 20 e che non importano accettazione di eredità. Infine nell'ultimo comma ho negato al chiamato ogni potere nel caso in cui venga nominato un curatore dell'eredità giacente.
227 Avendo delineato compiutamente nell'art. 460 del c.c. i poteri attribuiti al chiamato per la conservazione del patrimonio ereditario, sarebbe stato necessario limitare il contenuto del primo comma dell'art. 20 del progetto alla semplice enunciazione del concetto che gli atti indicati nell'art. 460 importano accettazione dell'eredità quando in occasione del loro compimento il chiamato abbia consapevolmente assunto il titolo di erede. Ho però considerato che la predetta disposizione costituirebbe un'applicazione del principio sull'accettazione espressa, stabilito nell'art. 18 del progetto, e come tale superflua. Che anzi, omettendola, si raggiunge il vantaggio pratico di lasciar libero il giudice di valutare, caso per caso, se i1 chiamato, assumendo a titolo ereditario nel compimento di un atto conservativo, abbia voluto veramente assumere la qualità di erede e quindi accettare l'eredità. Il secondo comma dell'articolo stesso, che contempla l'autorizzazione alla vendita dei beni deperibili, è stato soppresso perché pleonastico.

Massime relative all'art. 460 Codice Civile

Cass. civ. n. 20878/2020

Per aversi accettazione tacita di eredità non basta che un atto sia compiuto dal chiamato all'eredità con l'implicita volontà di accettarla, ma è altresì necessario che si tratti di atto che egli non avrebbe diritto di porre in essere, se non nella qualità di erede. Pertanto, poiché il pagamento di un debito del "de cuius", che il chiamato all'eredita effettui con danaro proprio, non è un atto dispositivo e, comunque, suscettibile di menomare la consistenza dell'asse ereditario - tale, cioè, che solo l'erede abbia diritto a compiere - ne consegue che rispetto ad esso difetta il secondo dei suddetti requisiti, richiesti in via cumulativa e non disgiuntiva per l'accettazione tacita. (Nella specie, la S.C. ha escluso che il pagamento, ad opera di uno dei chiamati all'eredità, di una sanzione pecuniaria elevata nei confronti del "de cuius", per contravvenzione al codice della strada, potesse intendersi alla stregua di un atto di accettazione tacita, trattandosi di atto meramente conservativo e comunque compatibile, in tesi, con un'ipotesi di adempimento del terzo ex art. 1180 c.c.). (Cassa con rinvio, TRIBUNALE ROMA, 25/05/2016).

Cass. civ. n. 15663/2020

L'atto di accettazione dell'eredità, in applicazione del principio "semel heres semper heres", è irrevocabile e comporta in maniera definitiva l'acquisto della qualità di erede, la quale permane, non solo qualora l'accettante intenda revocare l'atto di accettazione in precedenza posto in essere, ma anche nell'ipotesi in cui questi compia un successivo atto di rinuncia all'eredità. La regola della retroattività della rinuncia deve, infatti, essere riferita alla sola ipotesi in cui nelle more tra l'apertura della successione e la data della rinuncia il chiamato non abbia ancora posto in essere atti idonei ad accettare l'eredità, e non anche al diverso caso in cui nelle more sia intervenuta l'accettazione dell'eredità.

Cass. civ. n. 10060/2018

Poiché l'accettazione tacita dell'eredità può desumersi dall'esplicazione di un'attività personale del chiamato incompatibile con la volontà di rinunciarvi, "id est" con un comportamento tale da presupporre la volontà di accettare l'eredità, essa può legittimamente reputarsi implicita nell'esperimento, da parte del chiamato, di azioni giudiziarie, che - essendo intese alla rivendica o alla difesa della proprietà o ai danni per la mancata disponibilità di beni ereditari - non rientrino negli atti conservativi e di gestione dei beni ereditari consentiti dall'art. 460 c.c., ma travalichino il semplice mantenimento dello stato di fatto quale esistente al momento dell'apertura della successione, e che, quindi, il chiamato non avrebbe diritto di proporle se non presupponendo di voler far propri i diritti successori.

Cass. civ. n. 16814/2018

Nel caso di azione proposta da un soggetto che si qualifichi erede del "de cuius" in virtù di un determinato rapporto parentale o di coniugio, la produzione del certificato dello stato di famiglia è idonea a dimostrare l'allegata relazione familiare e, dunque, la qualità di soggetto che deve ritenersi chiamato all'eredità, ma non anche la qualità di erede, posto che essa deriva dall'accettazione espressa o tacita, non evincibile dal certificato; tuttavia, tale produzione, unitamente alla allegazione della qualità di erede, costituisce una presunzione "iuris tantum" dell'intervenuta accettazione tacita dell'eredità, atteso che l'esercizio dell'azione giudiziale da parte di un soggetto che si deve considerare chiamato all'eredità, e che si proclami erede, va considerato come atto espressivo di siffatta accettazione e, quindi, idoneo a considerare dimostrata la qualità di erede.

Cass. civ. n. 18830/2016

Non possono essere ritenuti atti di accettazione tacita quelli di natura meramente conservativa, che il chiamato può compiere anche prima dell'accettazione ai sensi dell'art. 460 c.c.; la questione si sposta sull'indagine relativa alla esistenza di un comportamento qualificabile in termini di accettazione tacita, che si risolve in un accertamento di fatto riservato al giudice del merito, alla luce delle peculiarità della singola fattispecie, che non è censurabile in sede di legittimità, purché la relativa motivazione risulti immune da vizi logici o da errori di diritto.

Cass. civ. n. 22288/2013

L'accettazione tacita dell'eredità, ai sensi dell'art. 476 c.c., è implicita nell'esperimento, da parte del chiamato, di azioni giudiziarie, che, essendo intese alla divisione previa collazione dei beni ereditari, non rientrano negli atti conservativi e di gestione di detti beni consentiti dall'art. 460 c.c..

Cass. civ. n. 7464/2013

In ipotesi di interruzione del processo per morte di una parte, l'altra parte può operare la riassunzione, entro un anno dalla morte stessa, con notifica fatta collettivamente ed impersonalmente agli eredi del defunto, nell'ultimo domicilio di questo, ai sensi dell'art. 303, secondo comma, cod. proc. civ., comprendendosi in tale ambito il chiamato all'eredità che non abbia ancora accettato, la cui legittimazione deriva sia dalla norma di carattere generale sui poteri del chiamato all'eredità prima dell'accettazione, di cui all'art 460 cod. civ., sia, ove si tratti di eredità devoluta a minori, dall'art 486 cod. civ., secondo il quale il chiamato può stare in giudizio come convenuto per rappresentare l'eredità durante i termini per fare l'inventario e per deliberare.

Cass. civ. n. 263/2013

In tema di successioni "mortis causa", costituisce accettazione tacita dell'eredità l'istanza, avanzata dal chiamato, di voltura di una concessione edilizia già richiesta dal "de cuius", trattandosi di iniziativa che, non rientrando nell'ambito degli atti conservativi e di gestione dei beni ereditari, consentiti prima dell'accettazione dall'art. 460 c.c., travalica il semplice mantenimento dello stato di fatto esistente al momento dell'apertura della successione, e la cui proposizione dimostra, pertanto, l'avvenuta assunzione della qualità di erede.

Cass. civ. n. 3018/2005

L'immissione nel possesso dei beni ereditari non comporta di per sé accettazione dell'eredità, atteso che l'art. 460 c.c. attribuisce al chiamato, in quanto tale, e pertanto anche anteriormente all'accettazione e addirittura senza bisogno della loro materiale apprensione, il potere di esercitare le azioni possessorie a tutela degli stessi beni.

Cass. civ. n. 1741/2005

Il chiamato all'eredità subentra al de cuius nel possesso dei beni ereditari senza la necessità di materiale apprensione, come si desume dall'art. 460 c.c. che lo abilita, anche prima dell'accettazione, alla proposizione delle azioni possessorie a tutela degli stessi, così come l'erede, ex art. 1146 c.c., vi succede con effetto dall'apertura della successione. Ne consegue che, nell'uno e nell'altro caso, instauratasi una situazione di compossesso sui beni ereditari, qualora uno dei coeredi (o dei chiamati) impedisca agli altri di partecipare al godimento di un cespite, trattenendone le chiavi e rifiutandone la consegna di una copia, tale comportamento — che manifesta una pretesa possessoria esclusiva sul bene — va considerato atto di spoglio sanzionabile con l'azione di reintegrazione. (Nella specie la Corte Cass. ha cassato la sentenza di merito che, dopo aver erroneamente qualificato come chiamato all'eredità un coerede che aveva trattenuto le chiavi di un immobile rientrante nell'asse ereditario, aveva escluso che tale comportamento, accompagnato dalla pretesa di possesso esclusivo del bene, costituisse violazione del compossesso dei coeredi, qualificandolo come «ritenzione da godimento esclusivo a titolo di comproprietà per effetto del meccanismo successorio» senza considerare che la ritenzione è una forma eccezionale di autotutela insuscettibile di applicazione analogica fuori dalle ipotesi normativamente previste).

Cass. civ. n. 5597/2003

In tema di imposta sulle successioni, la previgente disciplina di cui al D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 637 (applicabile ratione temporis), non prevedeva — a differenza di quanto ora dispone l'art. 28, comma quinto, del D.L.vo 31 ottobre 1990, n. 346, per le successioni aperte a partire dall'1 gennaio 1991 — alcun onere a carico del chiamato all'eredità giacente, al fine dell'esonero dall'obbligo della dichiarazione. Pertanto, l'esistenza di una curatela, ai sensi dell'art. 528 c.c., inibiva al chiamato, ex art. 460, terzo comma, del codice medesimo, la presentazione della dichiarazione di successione — da ritenersi atto di natura conservativa —, con conseguente esclusiva legittimazione del curatore al compimento dell'atto medesimo. Ne deriva che, in caso di omessa presentazione della dichiarazione da parte del curatore, è illegittima l'irrogazione della sanzione, prevista dall'art. 50 del citato D.P.R. n. 637 del 1972, a carico del chiamato, soggetto all'epoca non obbligato, in virtù dei principi di legalità e di personalità delle sanzioni amministrative tributarie introdotti dagli artt. 3 e 5 del D.L.vo 18 dicembre 1997, n. 472, ed applicabili ai rapporti non definiti in base alla norma transitoria di cui all'art. 25 del D.L.vo medesimo.

Cass. civ. n. 4991/2002

L'art. 460 c.c. dispone che i chiamati all'eredità possono, in quanto tali, esercitare le azioni possessorie a tutela dei beni ereditari senza bisogno di materiale apprensione degli stessi, obbedendo all'esigenza che, pur nel periodo tra la delazione e l'accettazione, l'eredità non sia lasciata indifesa contro gli spogli e le turbative; conseguentemente, in applicazione di detto principio, possono anche proseguire un giudizio possessorio iniziato dal proprio dante causa.

Cass. civ. n. 2432/1975

La trascrizione di un acquisto fatto dal de cuius, rientra fra gli atti conservativi, consentiti dalla norma dell'art. 460 c.c., al chiamato anche prima dell'accettazione, e quindi ii rappresentante legale dei minori è legittimato, senza bisogno di alcuna autorizzazione, ad esperire un'azione tendente ad ottenere detta trascrizione in base all'accertamento dell'acquisto.

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Consulenze legali
relative all'articolo 460 Codice Civile

Seguono tutti i quesiti posti dagli utenti del sito che hanno ricevuto una risposta da parte della redazione giuridica di Brocardi.it usufruendo del servizio di consulenza legale. Si precisa che l'elenco non è completo, poiché non risultano pubblicati i pareri legali resi a tutti quei clienti che, per varie ragioni, hanno espressamente richiesto la riservatezza.

S. M. chiede
lunedì 16/10/2023
“Mia figlia disabile è chiamata all’eredità di un immobile da parte di nonno paterno. Sullo stesso immobile è chiamata all’eredità una minore da parte di nonna materna. La polizia Municipale ha contattato me in merito a interventi necessari sull’immobile riguardati sicurezza e igiene pubblica.
VORREI SAPERE SE ALLE SPESE DA ME SOSTENUTE È OBBLIGATA A PARTECIPARE ANCHE LA CHIAMATA ALL’EREDITÀ MINORENNE E IN VIRTÙ DI QUALE NORMA.”
Consulenza legale i 22/10/2023
La norma che consente di rispondere a quanto si chiede è fondamentalmente l’art. 460 c.c., il quale disciplina i poteri del chiamato all’eredità prima dell’accettazione, non distinguendo a seconda che si tratti di chiamato incapace o meno.
Lo stato di incapacità del chiamato all’eredità, infatti, assume rilevanza ai fini dell’ accettazione, la quale potrà effettuarsi soltanto secondo le forme dettate dall’art. 472 del c.c., ovvero con beneficio di inventario e previa autorizzazione del giudice tutelare.

Fin quando non interviene l’atto di accettazione, anche il chiamato all’eredità incapace è soggetto agli obblighi discendenti dal richiamato art. 460 c.c., al cui adempimento dovranno ovviamente provvedere i genitori nella loro qualità di rappresentanti legale dell’incapace.
In tal senso può richiamarsi la sentenza della Corte di Cassazione, Sez. I penale. N. 10549 del 07.11.2019, così massimata:
In tema di omissione di lavori in costruzioni che minacciano rovina, sussiste l'obbligo giuridico alla conservazione dell'edificio anche a carico dei chiamati all'eredità, in funzione della loro relazione con il bene pericolante, sia pure in via provvisoria e salva diversa ripartizione degli oneri economici in sede civilistica”.

In particolare, si legge in detta sentenza che la disposizione dell’art. 460 c.c., nel disciplinare i poteri del chiamato all’eredità, gli attribuisce la facoltà di esercitare le azioni possessorie a tutela dei beni ereditari, senza bisogno di materiale apprensione, nonché quella di compiere atti conservativi, di vigilanza e di amministrazione temporanea, potendo il medesimo chiamato anche farsi autorizzare dall’autorità giudiziaria a vendere i beni che non si possono conservare o la cui conservazione importa grave dispendio.

Viene altresì precisato che trattasi di poteri che devono intendersi espressi in termini di mera “facoltà” allorché sono rivolti alla cura di un interesse privato dello stesso soggetto, ma che devono al contempo intendersi come “obblighi” quando si riflettono funzionalmente alla tutela di un interesse pubblico, interesse che, sia nel caso in esame che in quello di cui si è occupata la S.C., consiste nell’incolumità pubblica e risulta peraltro sanzionato sotto il profilo penale ex art. 677 del c.p..

Pertanto, anche se la Polizia municipale, per ragioni di evidente opportunità, ha contattato solamente il chiamato all’eredità maggiore di età, ciò non esime il chiamato minore dal contribuire alle spese che si renderà necessario sostenere, né si corre il rischio che tali spese possano definitivamente restare a carico di colui che le ha anticipate nel caso in cui nessuno dei chiamati volesse accettare l’eredità.
Ciò lo si può desumere:
a) dal testo dell’art. 461 del c.c., norma che attribuisce al chiamato che decide di rinunciare all’eredità il diritto di aver rimborsate tutte le spese sostenute nell’esercizio dei suoi poteri ex art. 460 c.c., facendole gravare a carico dell’eredità o, comunque, di coloro che acquisteranno la qualità di erede (tale potrebbe essere la minore una volta autorizzata ad accettare);
b) dall’art. 723 del c.c., norma che, dettata in materia di divisione ereditaria, riconosce a ciascuno degli eredi condividenti, in sede di formazione della stato attivo e passivo dell’eredità e di determinazione delle rispettive porzioni ereditarie, il diritto di procedere ai conguagli e rimborsi a cui ciascuno degli stessi ha diritto (tra i rimborsi si faranno ovviamente rientrare le somme spese per la messa in sicurezza dell’immobile, di cui è essenziale conservare regolari e formali ricevute di pagamento).

Per quanto concerne le precisazioni che sono state successivamente fatte in aggiunta al quesito posto, ovvero che “…sull’immobile in questione è necessario procedere con frazionamento in virtù di possesso ultra ventennale e adeguamento di classificazione ai fini catastali perché vetusto, pericolante in alcune porzioni e fatiscente…”, si ritiene che non possa trattarsi di adempimenti connessi a quanto disposto dalla Polizia municipale ai fini di tutela della salute pubblica.
Per essi, dunque, vale quanto detto sopra, ovvero che se tali atti sono necessari ed indispensabili per la conservazione dell’immobile, potranno farsi rientrare nel campo di applicazione dell’art. 460 c.c., con la conseguenza che il loro compimento non potrà configurarsi come atto di accettazione tacita di eredità e che il chiamato che anticipa le spese avrà diritto al relativo rimborso secondo le norme sopra richiamate (artt. 461 o 723 c.c.).

E. B. chiede
mercoledì 07/06/2023
“Buongiorno, premetto che siamo due fratelli.
Mia mamma è deceduta a dicembre 2021, senza testamento, pur desiderando lasciare a mio fratello solo la quota di legge (ci sono persone che possono testimoniarlo) in quanto lui si è sempre disinteressato della famiglia, in particolare di mia mamma stessa, ammalata negli ultimi anni, e della sua casa, salvata dai debiti lasciati da mio padre deceduto improvvisamentenel 1985, che mio fratello non ha contribuito a pagare.
Attualmente non abbiamo ancora fatto la successione per un problema catastale, e in questi 16 mesi mio fratello continua a dirsi non interessato alla casa e alla sua gestione, tranne volere la sua metà dell'eredità.
Le mie domande sono queste:
- quando avrò fatto la successione e quindi sarò di fatto comproprietaria dell'immobile assieme a mio fratello, lui potrà pretendere che io gli liquidi subito la sua parte oppure costringermi a vendere?
- potrò richiedere a mio fratello le spese di gestione della casa che sto sostenendo per bollette delle utenze, spese geometra, visure, notaio,...?
- il tempo che dedico a manutentare la casa (sfalcio erba, pulizie, ritiro della posta, cura e mantenimento dei suoi animali domestici e disbrigo delle pratiche amministrative...) può avere un valore di cui chiedere conto a mio fratello che sta continuando a disinteressarsi?
- mia mamma aveva un'automobile che vorrei tenere, anche questa rientra nella successione? Se non rientra, posso farla stimare e pagare a mio fratello la metà del suo valore? Se lui non vuole lasciarla a me, cosa posso fare?
- con mia mamma avevo un conto cointestato su cui appoggiavamo i risparmi, cointestazione che ho tolto per non pesare sul mio Isee familiare. Anche di questi devo fare metà?
Vi ringrazio anticipatamente della risposta.
Buona giornata”
Consulenza legale i 13/06/2023
Occorre innanzitutto fare una precisazione: la presentazione della dichiarazione di successione costituisce un adempimento di natura prettamente fiscale, il quale non può avere alcuna incidenza sull’acquisto dell’eredità.
Ciò significa che, a prescindere da tale adempimento, fin quando nessuno dei chiamati avrà accettato l’eredità, troverà applicazione il disposto di cui all’art. 460 c.c., norma che, come risulta dalla sua stessa rubrica, disciplina appunto i poteri spettanti al chiamato all’eredità prima dell’accettazione.
Trattasi, in buona sostanza, di poteri consistenti essenzialmente nella facoltà di amministrare i beni ereditari e compiere tutti quegli atti che possano servire a mantenere integre le sue ragioni sull'eredità qualora decida di accettare, indipendentemente dalla circostanza che egli sia o meno nel possesso dei beni ereditari.
I poteri previsti in detta norma (come quelli di cui al successivo art. 486 del c.c.) trovano un limite nel divieto di compimento di atti dispositivi, i quali avrebbero, quale effetto, la decadenza dalla facoltà di rinunziare all'eredità o di accettarla con beneficio di inventario.

Nel caso di pluralità di chiamati, tutti di pari grado, la legittimazione al compimento di tali atti spetta a ciascuno di essi disgiuntamente dagli altri.
E’ discusso se in questi casi debba configurarsi o meno in capo al chiamato un vero e proprio obbligo di amministrare.
Prevale largamente la tesi secondo cui, poichè egli amministra nell'interesse proprio, non può configurarsi alcun obbligo al riguardo (l'unico obbligo a carico del chiamato sarebbe dunque quello fiscale, di fare la denuncia e pagare l'imposta di successione, ai sensi degli artt. 28 e 36 Testo Unico sulle successioni e donazioni).
Una tesi minoritaria, invece, ritiene che il chiamato avrebbe un vero e proprio dovere di compiere le attività indicate nell'art. 460., in qualità di curatore di diritto o amministratore ex lege dell'eredità, argomentando dalla considerazione secondo cui gli interessi facenti capo all'eredità nel periodo di tempo intercorrente tra l’apertura della successione e l’acquisto da parte dell'erede sarebbero estranei al chiamato in quanto tale.

Oltre all'esercizio delle azioni possessorie, al chiamato è consentito il compimento di tutti gli atti che consentano la conservazione del patrimonio, mentre il medesimo potrà, solo previa autorizzazione del giudice, vendere i beni che non si possono conservare o la cui conservazione comporti grave dispendio.
Altra norma da prendere in considerazione per poi rispondere a quanto viene chiesto, è il successivo art. 461 del c.c., il quale riconosce al chiamato che rinuncia all’eredità il diritto di pretendere il rimborso delle spese sostenute per il compimento degli atti legittimamente posti in essere ai sensi dell' art. 460 c.c.
Tale diritto può essere esercitato contro l'erede o contro chi amministra l'eredità e comporta che, nel caso di pluralità di chiamati nello stesso ordine, quello di essi che abbia sostenuto delle spese possa ritenersi legittimato ad agire per il recupero della quota ereditaria spettante agli altri.
In tal senso può richiamarsi quanto statuito dalla Corte di Cassazione, Sez. II civ. sent. n. 1222 del 30.01.2002, ove si legge quanto segue:
In materia successoria, stante la compatibilità delle norme sull'amministrazione della cosa comune con l'istituto della gestione di affari altrui, il coerede gestore ha diritto, ex art. 2031 c.c., al rimborso delle spese necessarie o utili per la conservazione o il miglioramento dei beni ereditari comuni ma, non essendo rappresentante della massa ereditaria, nè tenuto a garantirne l'integrità, non può pretendere il pagamento dai coeredi delle somme da costoro dovute a diverso titolo alla massa”.

Occorre, tuttavia, precisare che per il compimento di tali atti il chiamato non ha diritto ad alcun compenso, in quanto l'attività da lui svolta è pur sempre quella di un soggetto che, essendo primo chiamato, è interessato ai relativi effetti.
Inoltre, la previsione di un diritto al rimborso implica, per il chiamato che abbia esercitato i poteri di cui all' art. 460, l'obbligo del relativo rendiconto.

Ebbene, tenendo conto dei principi sopra illustrati, può così rispondersi alle singole domande poste:
- la presentazione della dichiarazione di successione costituisce un adempimento di natura prettamente fiscale e non configura accettazione, neppure tacita, dell’eredità.
Nel momento in cui, invece, i chiamati manifesteranno, espressamente o tacitamente, la volontà di accettare l’eredità della de cuius, in virtù di quanto disposto dall’art. 713 c.c., ciascun coerede avrà il diritto di pretendere in qualunque momento lo scioglimento della comunione ereditaria.
In tal caso, se non si dovesse raggiungere un accordo sulle modalità di divisione dell’immobile (anche mediante soddisfacimento in denaro del valore della quota che l’altro coerede ha su quell’immobile), l’unica soluzione resta quella della vendita forzata, alla quale non ci si potrà in alcun modo opporre.

- Il chiamato all’eredità che, ex art. 460 c.c., ha posto in essere atti di gestione ordinaria del patrimonio ereditario, ha diritto di chiedere il rimborso pro quota delle relative spese agli altri chiamati, salvo che questi ultimi decidano di rinunciare all’eredità.
Ovviamente, occorre che tutte le spese di cui si chiede il rimborso siano documentate e strettamente inerenti alla gestione e manutenzione ordinaria del patrimonio ereditario.

- Per il compimento di tali atti il chiamato non ha diritto ad alcun compenso, in quanto l'attività da lui svolta è pur sempre quella di un soggetto che, essendo primo chiamato, è interessato ai relativi effetti.
Pertanto, non si può pretendere alcunchè dal fratello per il tempo che si dedica a manutenere la casa (sfalcio erba, pulizie, ritiro della posta, cura e mantenimento dei suoi animali domestici e disbrigo delle pratiche amministrative...).

- Per quanto concerne la questione dell’autovettura, occorre innanzitutto chiarire che l’autovettura non va inserita nella dichiarazione di successione e che il codice della strada dispone che è possibile utilizzare l’auto del defunto per un periodo massimo di trenta giorni dalla sua morte, decorsi i quali, se non vi è stata accettazione dell’eredità, occorre richiedere la c.d. intestazione temporanea dell’auto.
La motorizzazione civile rilascia un tagliando con l’indicazione dell’intestatario temporaneo mortis causa, da applicare sul libretto di circolazione (ciò che presuppone, ovviamente, l’accordo degli eredi).
Tuttavia, occorre anche precisare che, sebbene per legge non rientri tra i beni oggetto di dichiarazione di successione, l’intestazione a nome di uno dei chiamati all’eredità di quel bene costituisce pur sempre atto di accettazione tacita dell’eredità, in quanto si entra materialmente nel possesso di un bene facente pur sempre parte del patrimonio ereditario.
Pertanto, se si vuole evitare tale conseguenza e l’auto di fatto non viene usata da alcuno degli eredi e nessuno vuole intestarsela né venderla, si suggerisce di chiederne la perdita di possesso agli uffici della Motorizzazione civile, per la quale occorre una dichiarazione sostitutiva di atto notorio sottoscritta da tutti gli eredi.
Ciò consentirà sia di bloccare la polizza assicurativa che il pagamento del bollo auto.

- Tutto ciò che cade in successione va diviso tra i due figli in parti eguali, anche il saldo attivo del conto corrente, seppure si tratti di conto su cui inizialmente confluivano anche i risparmi di uno dei chiamati all’eredità (la figlia).

G. C. chiede
sabato 21/01/2023 - Lombardia
“Buongiorno
Volevo porvi una domanda riguardo a un dubbio sull’accettazione tacita dell’eredità.
Ho mia madre che alle sue dipendenze usufruisce dei servizi di una badante totalmente assunta in regola e dei servizi dell’agenzia per la stessa.
Qualora dovesse venire a mancare, io in qualità di figlio rientrerei potenzialmente nell’amministrazione dei beni, è possibile quindi poter gestire il contratto d’assunzione della badante e dell’agenzia con i relativi e giusti pagamenti della busta paga e dei relativi contributi per la stessa nel breve termine, prelevando i soldi NON dal conto corrente di mia madre "che farebbe parte dell’asse ereditario" ma dal mio senza incorrere nella tacita accettazione dell’eredità per aver volontariamente accettato di pagare dei debiti a riguardo? E lo stesso discorso è valido anche per le sole utenze comunali e di gas e luce registrate a nome di mia madre per la casa che è intestata a me? Non vorrei trovarmi ad agire inconsciamente e trovarmi poi una eredità di altri beni immobili NON voluti intestati a mia madre.
Se rientrerebbe nella tacita accettazione dell’eredità come dovrei agire per non lasciare debiti? E che cosa effettivamente accetterei tra eredità e debiti se mi avvalessi dell’accettazione col beneficio d’inventario?

Grazie”
Consulenza legale i 26/01/2023
Il caso in esame richiede di affrontare il tema relativo agli atti che il chiamato o i chiamati all’eredità hanno il potere di compiere senza precludersi la facoltà di rinunciare all’eredità (ovvero senza porre in essere un atto di c.d. accettazione tacita di eredità).
Norma che va presa in considerazione è l’art. 460 c.c., il quale, in modo abbastanza generico, dispone al suo secondo comma, che il chiamato all’eredità è legittimato a “compiere atti conservativi, di vigilanza e di amministrazione temporanea…”.
L’assenza di una specifica individuazione da parte del legislatore di quelli che sono gli atti che il chiamato all’eredità può compiere, determina molto spesso una situazione di estrema incertezza in ordine agli effetti che possono derivare dal compimento di un determinato atto, come accade appunto nel caso di specie.

Ora, criterio generale a cui attenersi è quello secondo cui i poteri che competono al chiamato all’eredità che non ha ancora accettato consistono essenzialmente nella facoltà di amministrare i beni ereditari e compiere tutti quegli atti che possano servire a mantenere integre le sue ragioni sull’eredità qualora decida di accettare.
Tali poteri trovano un limite nel divieto di compimento di atti dispositivi, i quali avrebbero come effetto la decadenza dalla facoltà di rinunziare all’eredità o di accettarla con beneficio di inventario.
Così, tra gli atti di vigilanza, ad esempio, vi si fa rientrare quello di compiere l’inventario, essendo questo volto ad accertare la consistenza del patrimonio ereditario (atto che, per il chiamato possessore costituisce un vero e proprio onere, comportando il suo mancato assolvimento l’acquisto dell’eredità puramente e semplicemente).
Tra gli atti di amministrazione temporanea, da intendere come quegli atti la cui realizzazione si renda necessaria o anche solo opportuna per la conservazione del valore economico e della capacità produttiva dei beni, la dottrina, ad esempio, ritiene che vi si possa perfino far rientrare la concessione dei beni ereditari in affitto o locazione, purchè a breve termine ed a condizioni normali.

Ebbene, nel caso di specie gli atti che si ha intenzione di porre in essere (pagamento delle utenze attive a nome della defunta e gestione del contratto della badante) sembrerebbero rientrare tra quegli atti che l’art. 460 c.c. definisce come “conservativi” e di “amministrazione temporanea”.
Il problema, tuttavia, sta nel fatto che per il loro compimento si rende necessario disporre di somme liquide di denaro facenti parte della massa attiva ereditaria, ovvero compiere uno di quegli atti dispostivi in conseguenza del quale si rischia di perdere il diritto di rinunziare all’eredità ovvero il diritto di avvalersi dell’accettazione con beneficio di inventario.
In tal senso, peraltro, si è pronunciata la Corte di Cassazione con sentenza n. 4320/2018, nella quale si legge tra l’altro quanto segue:
In tema di successione per causa di morte, un pagamento del debito del de cuius ad opera del chiamato all’eredità con denaro dell’eredità configura un’accettazione tacita, mentre nel caso in cui il chiamato adempia al debito ereditario con denaro proprio, quest’ultimo non può ritenersi per ciò stesso che abbia accettato l’eredità”.

In considerazione di quanto detto sopra, dunque, ciò che si consiglia, per evitare di incorrere nella decadenza dal diritto di rinunziare all’eredità ovvero dalla facoltà di avvalersi dell’accettazione con beneficio di inventario, è di provvedere al pagamento del dovuto con somme prelevate dal conto personale e non da quello della defunta.

Qualora, poi, non si voglia o non si abbia la possibilità di attingere al patrimonio personale, la soluzione migliore per casi come questo (in cui non si è a conoscenza della sussistenza di eventuali debiti ereditari), è quella di accettare l’eredità con beneficio di inventario, istituto giuridico che consente di tenere ben distinto il proprio patrimonio da quello del defunto e di adempiere ai debiti ereditari con somme prelevate esclusivamente dal patrimonio relitto, avvalendosi della c.d. liquidazione individuale a cui fa riferimento l’art. 495 del c.c..

MAURIZIO S. chiede
domenica 14/06/2020 - Lazio
“Spett.le Brocardi
M.S. Lazio,

Sono a chiedere la consulenza di seguito riportata in materia di sopravvenuta notificazione di documenti ed atti giudiziari nei confronti del rinunciante all’eredità per conto del defunto parente.

Ovvero, nelle more del processo civile e tributario la parte muore, e il suo avvocato viene fornito dal parente prossimo del defunto, del certificato di morte e della dichiarazione della rinuncia all’eredità, affinché lo stesso li possa produrre in giudizio.

-1) Vorrei sapere se la procedura a titolo precauzionale del rinunciante è corretta o se la produzione (a fini collaborativi in funzione di un economia processuale anche ex art. 111 Cost.) da parte dell’avvocato della rinuncia all’eredità (oltre all’ovvio certificato di morte), ancor prima della sospensione del giudizio, possa essere considerata come accettazione tacita dell’eredità, ovvero attività concludente del terzo (rinunciante all’eredità) in quanto al momento della produzione in giudizio della rinuncia all’eredità è soggetto assolutamente estraneo al processo almeno fino a quel momento.

Ulteriormente, vorrei sapere nella seguente fattispecie laddove il chiamato all’eredità dopo avere rilasciato la rinuncia all’eredità inserita nel registro delle successioni, riceve presso la propria residenza (diversa da quella del parente defunto) delle notifiche di raccomandate A/R e atti giudiziari a mezzo messo notificatore, nella qualità di erede del defunto, quale è il corretto comportamento che deve assumere il destinatario rinunciante all’eredità ovvero:

- 2) deve rifiutarsi di ritirare le notifiche delle raccomandate A/R e degli atti giudiziari, in quanto soggetto estraneo e non riconducibile all’effettivo destinatario qualificato nelle notifiche come erede, o deve comunque ritirarle. Dico questo in quanto in ipotesi del ritiro delle notifiche, la controparte potrebbe eccepire l’accettazione tacita dell’eredità, in quanto il destinatario rinunciante all’eredità, di fatto ritirerebbe e sottoscriverebbe la ricevuta di consegna e la relazione di notificazione nella qualità di erede, pur consapevole di avere di già rinunciato all’eredità.

-3) Il rinunciante all’eredità nell’ipotesi che decida di ritirare le notifiche, seppure nella sua estraneità alla qualifica di erede, è corretto che lo stesso senza indugio risponda ai mittenti allegando la dichiarazione di rinuncia all’eredità al fine di porli a conoscenza di essersi rivolti a persona carente di legittimazione passiva, e quindi di desistere a proseguire nelle illegittime ed ulteriori azioni, che diverrebbero temerarie almeno dal momento dell'avvenuta conoscenza da parte del rinunciante della esistenza della rinuncia all'eredità?

Cordiali saluti”
Consulenza legale i 22/06/2020
Due sono le norme del codice civile a cui occorre fare riferimento per rispondere alle domande poste, e precisamente gli artt. 460 e 486 c.c.

Nel momento in cui si apre la successione, colui o coloro che si trovano nella posizione di chiamati all’eredità hanno, ancor prima della accettazione o dell’eventuale rinunzia, alcuni poteri sulla stessa, i quali si fanno consistere fondamentalmente nella facoltà di amministrare i beni ereditari e compiere in genere tutti quegli atti di natura conservativa, che abbiano come unica finalità quella di conservare integre le loro ragioni sull’eredità qualora si decidano di accettarla.

A tali poteri, a cui fa espresso riferimento l’art. 460 c.c., si aggiungono anche quelli di legittimazione passiva disciplinati dall’art. 486 del c.c. per il caso in cui il chiamato sia a qualunque titolo nel possesso dei beni ereditari.

Il chiamato all’eredità è legittimato al compimento di tali atti soltanto qualora non sia stato nel frattempo nominato un curatore dell’eredità ex art. 528 del c.c., mentre non gli è consentito compiere alcun atto dispositivo, pena la decadenza dalla facoltà di rinunziare all’eredità o di accettarla con beneficio di inventario.

E’ stato da parte della dottrina affermato che il compimento di atti di natura conservativa costituirebbe addirittura oggetto di un vero e proprio dovere che il legislatore ha inteso attribuire al chiamato (in qualità di curatore di diritto o amministratore ex lege dell’eredità), ma è preferibile la tesi, maggiormente fondata sul dato letterale della norma (in cui si fa riferimento a meri “poteri”) secondo cui egli amministrerebbe nell’interesse proprio.

Accertata la sussistenza in capo al chiamato di poteri di natura conservativa, particolari dubbi sono in effetti sorti in relazione alla possibilità di ricomprendere nell’esercizio di questi poteri anche l’esistenza di una legittimazione passiva per il caso in cui lo stesso non sia nel possesso dei beni ereditari.
Tali dubbi nascono dalla considerazione secondo cui il primo comma dell’art. 486 c.c. riconosce solo al chiamato che sia nel possesso dei beni ereditari il potere di “stare in giudizio come convenuto per rappresentare l’eredità”, non facendo alcun riferimento al chiamato non possessore.
E’ stato malgrado ciò affermato che anche il chiamato non possessore sarebbe legittimato passivo in rappresentanza dell’eredità e che l’esercizio di tale legittimazione passiva non potrebbe configurarsi quale atto di accettazione tacita della stessa eredità: sarebbe un controsenso che il legislatore abbia escluso il prodursi di tale effetto per il caso di chiamato non possessore ex art. 486 c.c. per poi doverlo ammettere nel caso di chiamato nel possesso dei beni ereditari.

Anche la giurisprudenza si è occupata di tale problematica, in alcuni casi ammettendo ed in altri escludendo che il chiamato debba considerarsi passivamente legittimato nel caso di domanda proposta contro l’eredità.
Così, secondo parte della giurisprudenza, il creditore del de cuius non può proporre domanda contro il chiamato che non sia nel possesso dei beni ereditari, anche nella sua veste di rappresentante dell’eredità (in quanto mancherebbe nello stesso la legitimatio ad causam), ma occorrerebbe nominare un curatore dell’eredità ex art. 528 c.c. (cfr. Cass. n.920/1977).
Secondo altra parte della giurisprudenza, invece, resistere in giudizio in caso di domanda proposta contro l’eredità costituirebbe esercizio di un atto conservativo, rientrante come tale tra i poteri che l’art. 460 c.c. attribuisce al chiamato (cfr. Cass. 1673/1971; Cass. n. 9228/1991).

Al di là di tali incertezze giurisprudenziali, è stato comunque ritenuto indubbio che il chiamato all’eredità che non sia nel possesso dei beni ereditari possa costituirsi nel giudizio instaurato nei suoi confronti eccependo la propria carenza di legittimazione e che il giudice dovrà disporne la sua estromissione.
La semplice costituzione volta a far valere il proprio difetto di legittimazione non può configurarsi come atto di accettazione tacita dell’eredità, in quanto costituisce atto pienamente compatibile con la volontà di non accettare l’eredità (in tal senso si è espressa Cass. n. 10197/2000).
Al contrario, sempre la Corte di Cass., con sentenza n. 16595/2005, ha affermato che la resistenza in un giudizio promosso nei confronti del de cuius al fine di far accertare che costui non vantava, nei confronti della controparte, un diritto di credito contestato, non costituisce esercizio di azione possessoria o di un atto di vigilanza o amministrazione temporanea, bensì vera e propria accettazione tacita dell’eredità.

Facendo adesso applicazione dei principi giurisprudenziali sopra espressi, la conclusione a cui può giungersi è che la produzione in giudizio da parte dell’avvocato della rinunzia all’eredità di colui che sia stato chiamato alla successione per legge o per testamento (unitamente al certificato di morte), anche se fatta prima della sospensione del giudizio, non può valere come accettazione tacita dell’eredità, in quanto non comporta il compimento di alcun atto dispositivo ma, al contrario, è volta unicamente a far constatare la propria estraneità a quell’eredità.

Per quanto concerne, invece, il corretto comportamento da tenere in caso di ricezione di notifiche presso il proprio domicilio e/o residenza, nella qualità di erede del defunto, non essendo stato nominato alcun curatore dell’eredità né ex art. 486 comma 2 c.c. né ex art. 528 c.c., si ritiene che sia corretto ricevere tali notifiche al preciso scopo di informare i relativi mittenti di aver rinunziato all’eredità, onde porli nella condizione di provvedere ad avviare la procedura per la nomina di un curatore.
Un tale comportamento non potrebbe in alcun modo ingenerare il dubbio che colui il quale abbia ricevuto le notifiche abbia così compiuto un atto di accettazione tacita dell’ereditò, non avendo di fatto posto in essere alcun atto dispositivo.


SEBASTIANO C. chiede
lunedì 13/03/2017 - Campania
“Premesso
- che veniva notificato decreto ingiuntivo per il recupero di canoni locativi;
- che avverso tale decreto ingiuntivo veniva proposta opposizione e la relativa udienza veniva fissata per il 30 Marzo 2017;
- che in data 21 Febbraio 2017, e quindi nelle more dell'udienza, decedeva l'opposto che aveva proposto decreto ingiuntivo;
- che l'opposto deve costituirsi entro il giorno 20 Marzo 2017;
QUESITO
1. La costituzione in giudizio può essere fatta dal solo erede che allo stato ha accettato l'eredità?
2. Se ci sono altri eredi che allo stato non hanno né accettato né rifiutato l'eredità possono ricoprire la veste di testimoni in favore dell'opposto, nella qualità di erede, nel procedimento di opposizione o si configura una incompatibilità ai sensi del c.p.c.”
Consulenza legale i 19/03/2017
I crediti del de cuius, a differenza dei debiti, non si dividono automaticamente tra i coeredi in ragione delle rispettive quote, ma entrano a far parte della comunione ereditaria.
Ciò comporta che ciascuno dei partecipanti può agire singolarmente per far valere l'intero credito ereditario comune o anche la sola parte di credito proporzionale alla quota ereditaria, senza necessità di integrare il contraddittorio nei confronti di tutti gli altri coeredi.

E’ questo il principio generale fatto ormai proprio dall’orientamento maggioritario della giurisprudenza di legittimità, principio elaborato a seguito di un contrasto di dottrina e giurisprudenza insorto su una questione prodromica, ossia quella della sorte dei diritti di credito del defunto al momento dell’apertura della successione.
Infatti, la soluzione della questione del litisconsorzio dei coeredi varia a seconda che si ritenga che i crediti si ripartiscano automaticamente in ragione delle rispettive quote (come è espressamente previsto anche per i debiti dall’art. 752 c.c.) o piuttosto che gli stessi entrino a far parte per intero della comunione ereditaria, alla stregua degli altri beni.

Il problema nasce dalla constatazione dell’esistenza di una disciplina esplicita solo per le cd. passività del defunto.
Infatti, per i debiti vale il disposto dell’art. 752 c.c. (secondo cui “i coeredi contribuiscono tra loro al pagamento dei debiti e dei pesi ereditari in proporzione delle loro quote ereditarie, salvo che il testatore abbia altrimenti disposto”), non operando nel nostro ordinamento l’antico brocardo di diritto romano in base al quale nomina hereditaria ipso iure dividuntur; ciò significa che per essi non opera la regola della solidarietà propria delle obbligazioni, con la conseguenza che ciascun coerede sarà tenuto al pagamento dei debiti soltanto in proporzione della sua quota ed in base agli ordinari principi in tema di responsabilità personale ed illimitata ex art. 2740 c.c.

Per i crediti del de cuius, invece, nel silenzio della legge, si sono sviluppate le seguenti tesi.
Secondo un primo tradizionale orientamento giurisprudenziale (Cass. 5 gennaio 1979 n. 31, Cass. 28 febbraio 1984 n. 1421, Cass. 5 maggio 1999 n. 4501, Cass. 9 agosto 2002 n. 12128, 29 marzo 2004 n. 6237, 5 aprile 2004 n. 6659) i crediti del de cuius dovrebbero seguire lo stesso destino dei debiti, dividendosi automaticamente tra i coeredi in ragione delle rispettive quote.
Ciascun coerede, dunque, sarà titolare del diritto di credito nei limiti però della propria quota, il che vale ad escludere la necessità dell’integrazione del contraddittorio nei riguardi degli eredi che non avessero partecipato all’azione di recupero del credito.
In tal senso si argomenta dalla interpretazione di alcune precise disposizioni normative ed in particolare:
  1. dall’art. 1314 c.c. laddove si precisa che “se più sono … i creditori di una prestazione divisibile e l’obbligazione non è solidale, ciascuno dei creditori può agire per la sua parte”;
  2. dall’art. 1295 c.c. in base al quale, l’obbligazione si divide tra gli eredi di uno dei condebitori o dei creditori in solido, in proporzione delle rispettive quote;
  3. dall’art. 1301 c.c., nel quale è stabilito che la rinuncia al credito fatta da uno solo dei creditori solidali determina l’estinzione della sola quota di credito del rinunciante.

Secondo un diverso orientamento, invece, i crediti del de cuius, a differenza dei debiti, non si dividerebbero automaticamente tra i coeredi in ragione delle rispettive quote, ma entrerebbero a far parte della comunione ereditaria.
Da ciò ne conseguirebbe che, negli eventuali giudizi diretti all'accertamento dei crediti ereditari ed al loro soddisfacimento, tutti i coeredi sarebbero litisconsorti necessari, escludendosi l’ammissibilità di un’azione individuale.
Tale orientamento troverebbe il proprio fondamento nella analisi della normativa codicistica, ed in particolare dalla lettura combinata degli artt. 727 e 760 c.c. in tema di crediti ereditari.
In particolare, si sostiene che, il fatto che l’art. 727 c.c. stabilisca che le porzioni ereditarie debbono essere formate comprendendo nelle stesse, oltre ai beni immobili e mobili anche i crediti, presuppone evidentemente che questi ultimi facciano parte della comunione (Cass. civ., Sez. Un., n. 24657 del 28 novembre 2007); a conferma di ciò viene poi richiamato l’art. 760 c.c. il quale, nell’escludere la garanzia per l'insolvenza del debitore di un credito assegnato a uno dei coeredi, si riferisce alla possibilità che oggetto della divisione (della comunione ereditaria) siano anche i crediti.
In questo senso, il legislatore presupporrebbe che i crediti cadano automaticamente in comunione al momento dell’apertura della successione.
In giurisprudenza la tesi dell’appartenenza dei crediti alla comunione ereditaria ha trovato conforto in diverse sentenze della Suprema Corte, quali Cass. civ., 21 gennaio 2000 n. 640 e Cass. civ., 5 settembre 2006 n. 19062, in base alle quali le ragioni del mantenimento della comunione ereditaria dei crediti sino al momento della divisione deriverebbero anche dall'esigenza di conservare l'integrità della massa ereditaria.

Le Sezioni Unite, tuttavia, con sentenza Sentenza n. 24657 del 28 novembre 2007, pur aderendo all'indirizzo da ultimo richiamato circa l’appartenenza dei crediti del defunto alla comunione ereditaria, differiscono sulle conclusioni escludendo cioè la necessaria partecipazione di tutti i coeredi all'azione promossa contro il debitore.
Infatti, secondo i giudici di legittimità varrebbe il principio di diritto generale, convalidato da una costante giurisprudenza, in base al quale “ciascun soggetto partecipante alla comunione può esercitare singolarmente le azioni a vantaggio della cosa comune senza necessità di integrare il contraddittorio nei confronti di tutti gli altri partecipanti, perché il diritto di ciascuno di essi investe la cosa comune nella sua interezza”.

In questo senso, allora, ciascun partecipante può esercitare singolarmente le azioni a vantaggio della cosa comune, senza necessità di integrare il contraddittorio nei confronti di tutti gli altri partecipanti, perché il diritto di ciascuno di essi investe l’intero asse ereditario.
Alla stessa stregua dei principi di ordine generale in tema di comunione, quindi, la pronuncia sul diritto fatto valere in giudizio è destinata a produrre i suoi effetti nei riguardi di tutti i soggetti interessati, anche se non direttamente parti del giudizio.
Ovviamente, restano estranei all'ambito della tutela i rapporti patrimoniali interni tra i coeredi, destinati ad essere successivamente definiti in sede di divisione (il che significa che in sede di successiva divisione ereditaria, il credito fatto valere in giudizio da un solo coerede andrà ripartito tra tutti gli altri secondo il valore delle rispettive quote).

Trasponendo quanto sopra detto al caso di specie, può dirsi che la legittimazione dell’unico erede che ha accettato ad agire in via esclusiva trova un maggiore rafforzamento nel fatto che gli altri “eredi” rivestono allo stato attuale la posizione di semplici “chiamati all’eredità”, in favore dei quali vi è soltanto una delazione del patrimonio ereditario.
In quanto tali, essi ovviamente non potranno assumere la veste di testimoni nel giudizio di opposizione, e ciò per effetto delle espresse disposizioni di cui agli artt. 246 e 247 c.p.c., i quali vietano appunto di rendere testimonianza a coloro che hanno nella causa un interesse che potrebbe legittimare la loro partecipazione al giudizio (art. 246 cpc) nonché al coniuge ancorché separato, parenti o affini in linea retta e a coloro che sono legati a una delle parti da vincoli di affiliazione (art. 247 c.p.c. Certamente tra gli eredi del de cuius intercorre uno di tali rapporti).

DEL B. F. chiede
domenica 05/03/2017 - Friuli-Venezia
“Mio papà è deceduto il (omissis) ed ha lasciato, con testamento olografo, la casa con l'annesso deposito ed i terreni circostanti ai quattro fratelli, mentre altri terreni agricoli li ha lasciati in parti uguali a tutti i suoi cinque figli. Il testamento è stato pubblicato ma non è stata presentata la dichiarazione di successione in quanto uno dei figli non concorda con il valore dei beni dati da ben due perizie di professionisti differenti. Questi sostiene, senza produrre nessun documento, che il valore e molto superiore (circa il 20-25% in più) pretendendo in questo modo una legittima molto superiore (2/15 del valore del patrimonio). In questa situazione di "stallo" vorrei conoscere il comportamento da tenere previsto dalla normativa e quali strumenti poter mettere in campo per salvaguardare il patrimonio, in particolare la casa che abbisogna di manutenzioni per evitare il degrado del bene.”
Consulenza legale i 07/03/2017
Per dare risposta al quesito occorre innanzitutto partire dagli artt. 537 e 556 c.c.

Tali articoli infatti prevedono – rispettivamente – la c.d. quota di riserva per i legittimari e il calcolo per ottenere la c.d. porzione disponibile del patrimonio del decuius.

In particolare, l’art. 537, secondo comma c.c. dispone che -ove all’eredità concorrano più figli- la quota di riserva loro spettante sarà pari ai due terzi del patrimonio ereditario, da dividersi in parti uguali per ciascuno. Per stabilire la quota disponibile, vale a dire la porzione di patrimonio di cui Suo padre poteva liberamente disporre nel testamento (e pari, nel caso di specie, ad un terzo dell’intero patrimonio) occorre seguire il disposto dell’art. 556 c.c. Occorre infatti operare una riunione di tutti i beni che appartenevano a Suo padre al momento della morte e detrarre i debiti. A questo patrimonio occorre poi aggiungere tutti i beni che sono stati donati in vita da Suo padre (ai sensi e nelle forme degli artt. 769 e ss. c.c.). Solo a questo punto si potrà calcolare la quota disponibile pari ad un terzo dell’intero patrimonio così ricostruito.
Pertanto, i fratelli di Suo padre avranno diritto alla quota di un terzo del patrimonio ereditario, mentre i restanti due terzi sono a favore dei figli.

Fatta questa necessaria premessa, venendo al caso di specie, Sua sorella ben può contestare l'ammontare del valore del patrimonio ereditario per calcolare con precisione la quantificazione della quota di riserva (con le modalità viste sopra).
Si ritiene che la pubblicazione del testamento consenta la conoscenza del suo contenuto da parte dei chiamati alla successione, dei familiari del defunto, dei creditori ereditari e di quelli dell'erede, ed ha altresì la funzione di renderne possibile l'esecuzione. Di fatto, dunque, al momento, Lei e i suoi fratelli siete soggetti “chiamati all’eredità” ma non ancora eredi. La qualità di erede viene infatti acquisita una volta che si è proceduto ad accettare l’eredità (art. 459 c.c.), che è un atto da svolgersi in forma solenne (art. 475 c.c.) oppure in modo tacito, secondo le modalità di legge (art. 476 c.c.).

Ad ogni buon conto, il chiamato all’eredità può compiere alcune attività riguardo ai beni ereditari, come per esempio compiere azioni conservative del bene in questione, sì come stabilito dall’art. 460 c.c. e senza che ciò implichi una accettazione tacita dell’eredità (la giurisprudenza ha stabilito infatti che “non possono essere ritenuti atti di accettazione tacita quelli di natura meramente conservativa che il chiamato può compiere anche prima dell'accettazione dell'eredità” – C. Cass., sez. II, 9/10/2013 n. 22977).

In altre parole, gli atti di manutenzione dell’immobile (essendo atti di conservazione del patrimonio) possono essere compiuti anche solo da uno dei chiamati all’eredità senza che questo implichi una accettazione della stessa (con le conseguenze di legge che ciò comporta). L’art. 461 c.c. precisa poi che – si badi, solo in caso di successiva rinuncia dell’eredità – le spese sostenute dal chiamato a mente dell’art. 460 c.c. siano a carico del patrimonio ereditario e quindi rimborsabili.
In conclusione, possono ben essere compiute attività di manutenzione dell’immobile facente parte del corpus ereditario: sarebbe auspicabile un accordo dei vari chiamati (in primis, Lei e i suoi fratelli), in modo che le spese sostenute possano essere equamente ripartite. Ciò non implica nessuna accettazione dell'eredità, trattandosi di un atto conservativo dell'immobile stesso.

Gaetano P. chiede
lunedì 11/05/2015 - Basilicata
“Il 25.07.2012 mio cognato, senza figli, è deceduto senza lasciare testamento. Gli eredi erano 7 fratelli e la moglie, mia sorella. Questa il 29.04.2013 moriva e io sono il suo unico erede. Anche mia sorella non ha lasciato testamento.
Mio cognato aveva un immobile di sua proprietà già prima del 1975 (di cui spettano a mia sorella i 2/3) e immobili in regime di comunione (5/6), 3 buoni fruttiferi di 10 mila euro l' uno, cointestati tutti e 3 al defunto e alla moglie. Lasciava inoltre un contenzioso insieme a uno dei fratelli, di cui era socio, con il comune di residenza. Il contenzioso si è concluso a ottobre 2014 con la condanna a versare al comune € 30.000 circa, resa esecutiva solo nei confronti del fratello socio.
Questi, che si era impegnato a presentare la successione per conto di tutti gli eredi (mia e degli altri suoi fratelli), dopo la sentenza pretende che io gli anticipi l' intera somma spettante al de cuius altrimenti non è più disposto ad aprire la pratica di successione. Vani sono stati i molti tentativi per convincerlo e rassicurarlo che, una volta venuti in possesso dell' eredità, avrei saldato il debito di mio cognato.
Gli altri eredi se ne disinteressano.
Mi è stato consigliato di presentare la successione solo per la mia parte.
E' praticabile? Mi dà la possibilità di farmi restituire le chiavi degli immobili di cui anche lui è in possesso? Posso prelevare dai buoni fruttiferi la quota spettante a mia sorella, essendo questi stati emessi dopo il 2005 con la clausola della "p.f.r."?
Qual è l' iter da seguire in questi casi? Bisogna rivolgersi al mediatore e poi al giudice? o essendo io l' erede di maggioranza posso farne a meno? Posso vendere?
In attesa, ringrazio e saluto.”
Consulenza legale i 13/05/2015
La dichiarazione di successione presentata da uno solo degli eredi legittimi, in caso di assenza di un testamento, vale anche per tutti gli altri eredi.
Ci si può chiedere, però, se è possibile presentare una dichiarazione che contenga solo una parte dei beni.
In generale, la dichiarazione deve essere completa: si considera incompleta quando non sono indicati tutti i beni e diritti compresi nell'attivo ereditario.
L'art. 51 del d.lgs. 31 ottobre 1990, n. 346 (testo unico delle disposizioni concernenti l'imposta sulle successioni e donazioni), commina una sanzione pecuniaria a colui che omette l'indicazione di dati o elementi rilevanti per la liquidazione o riliquidazione dell'imposta o li indica in maniera infedele, ovvero espone passività in tutto o in parte inesistenti.
Quindi, non è corretto presentare una dichiarazione di successione parziale, in quanto si risulterebbe sanzionabili per legge.

Ciò premesso, nel caso di specie, il cognato del de cuius può certamente presentare la dichiarazione di successione, ma questa deve essere completa. Non va dimenticato che in caso di successione nasce a carico di tutti i coeredi un'obbligazione tributaria solidale, avente a oggetto l’intero importo del tributo successorio ("Gli eredi sono obbligati solidalmente al pagamento dell'imposta nell'ammontare complessivamente dovuto da loro e dai legatari", art. 36 d.lgs. 346/1990). La legge specifica che esiste un limite solo per il coerede che ha accettato l'eredità col beneficio d'inventario, che risulta obbligato solidalmente nel limite del valore della propria quota ereditaria.
Quindi, lo Stato può chiedere a ciascun erede l'intera imposta, ma ciò non significa che poi chi ha pagato non possa rivalersi, pro quota, sugli altri eredi.

Dopo aver registrato la dichiarazione di successione presso un ufficio delle Entrate, l'erede ha trenta giorni di tempo per presentare la richiesta di voltura all’ufficio provinciale - Territorio dell’Agenzia competente. Può scegliere di recarsi presso quello più vicino alla sede delle Entrate dove ha registrato la successione oppure quello nella cui circoscrizione si trovano i beni trasferiti.
Quando la voltura è stata eseguita, la quota ereditaria può essere venduta.
Tuttavia, poiché non si è ancora sciolta la comunione ereditaria, il coerede che intenda alienare a un estraneo la sua quota o parte di essa, deve notificare la proposta di alienazione, indicandone il prezzo, agli altri coeredi, i quali hanno diritto di prelazione (art. 732 del c.c.).

Per quanto riguarda il possesso dei beni ereditari, l'art. 1146 del c.c. stabilisce che il possesso continua nell'erede con effetto (retroattivo) dall'apertura della successione. Quindi, il cognato risulta, di fronte alla legge, già possessore dei beni del defunto. Se materialmente non ha la disponibilità di tali beni, potrà ottenerla esperendo nei confronti di chi esercita il potere di fatto sul bene l'azione di petizione ereditaria disciplinata dall'art. 533 del c.c., con cui afferma la sua qualità di erede e chiede la restituzione dei beni ereditari.

Per i buoni fruttiferi, si precisa che la clausola p.f.r. (pari facoltà di rimborso) permette a ciascuno dei contitolari di riscuotere autonomamente il buono postale. Nel caso di specie, i buoni erano intestati ai due coniugi e con la morte del marito, parte della sua quota è stata trasmessa alla moglie: questa risulterebbe quindi titolare della sua quota originaria, più la quota ereditaria del marito. L'erede della signora subentra, pertanto, nella titolarità della quota complessiva della de cuius.
Come chiedere il rimborso della quota di spettanza?
Per i buoni emessi dopo il 5 settembre 2005, è obbligatorio compilare l’apposito modulo di "Richiesta di emissione di BFP": è previsto che, in caso di buoni emessi con la clausola della "p.f.r.", in caso di morte di uno degli intestatari, il cointestatario superstite conserva il diritto di rimborsarsi il titolo separatamente ovvero senza istruire pratica di successione.
Ma nel nostro caso non è il superstite a volere il rimborso, bensi gli eredi della superstite (la moglie cointestataria).

In questo caso, con la notifica di decesso dell'intestatario i buoni fruttiferi sono caduti in successione: si determina il temporaneo blocco al pagamento fino alla definizione della pratica di successione, con successivo rimborso a favore di tutti gli eredi degli intestatari deceduti, che sono chiamati a quietanzare il rimborso dei titoli congiuntamente. Quindi, un solo erede non può autonomamente ottenere il rimborso, a meno che non sia stato quantomeno delegato da tutti gli altri. Maggiori informazioni possono essere ottenute presso i competenti uffici di Poste Italiane.

La materia delle successioni ereditarie rientra tra quelle per le quali è stata ripristinata la mediazione obbligatoria (art. 5 del D.lgs. 28 del 2010). La parte che intende agire in giudizio ha, quindi, l’onere di tentare la mediazione, con l’assistenza di un avvocato: l'espletamento del tentativo di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale.

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