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Articolo 727 Codice Civile

(R.D. 16 marzo 1942, n. 262)

[Aggiornato al 31/01/2024]

Norme per la formazione delle porzioni

Dispositivo dell'art. 727 Codice Civile

Salvo quanto è disposto dagli articoli 720 e 722, le porzioni devono essere formate, previa stima dei beni, comprendendo una quantità di mobili, immobili e crediti di eguale natura e qualità, in proporzione dell'entità di ciascuna quota [1114 c.c.](1).

Si deve tuttavia evitare, per quanto è possibile, il frazionamento delle biblioteche, gallerie e collezioni che hanno una importanza storica, scientifica o artistica [816 c.c.].

Note

(1) La norma ammette deroghe qualora la rigorosa applicazione del principio in essa enunciato determini un pregiudizio del diritto dei condividenti di conseguire una porzione di valore proporzionalmente corrispondente a quello spettante singolarmente sulla massa.
E', altresì, concesso al testatore di esprimere una volontà contraria.

Ratio Legis

La norma costituisce una specificazione del diritto del condividente alla divisione in natura (v. art. 718 del c.c.).

Relazione al Codice Civile

(Relazione del Ministro Guardasigilli Dino Grandi al Codice Civile del 4 aprile 1942)

Massime relative all'art. 727 Codice Civile

Cass. civ. n. 21612/2021

In tema di divisione giudiziale di un compendio immobiliare ereditario, l'art. 718 c.c., in virtù del quale ciascun coerede ha il diritto di conseguire in natura la parte dei beni a lui spettanti con le modalità stabilite nei successivi artt. 726 e 727 c.c., trova deroga, ai sensi dell'art. 720 c.c., non solo nel caso di mera "non divisibilità" dei beni, ma anche in ogni ipotesi in cui gli stessi - secondo un accertamento riservato all'apprezzamento di fatto del giudice del merito, incensurabile in sede di legittimità, se sorretto da motivazione congrua, coerente e completa - non siano "comodamente" divisibili e, cioè, allorché sia elevata la misura dei conguagli dovuti tra le quote da attribuire ovvero quando quando, pur risultando il frazionamento materialmente possibile sotto l'aspetto strutturale, non siano tuttavia realizzabili porzioni suscettibili di formare oggetto di autonomo e libero godimento, non compromesso da servitù, pesi o limitazioni eccessive, e non richiedenti opere complesse o di notevole costo, ovvero porzioni che, sotto l'aspetto economico-funzionale, risulterebbero sensibilmente deprezzate in proporzione al valore dell'intero ovvero. (Nella specie la S.C. ha confermato la sentenza di merito che, in presenza di due immobili aventi una notevole differenza di valore, li ha assegnati ad uno solo dei condividenti sul presupposto che una divisione che avesse previsto due quote formate, ognuna, da uno dei beni avrebbe comportato il versamento di un conguaglio tale da assorbire in modo significativo una delle due quote, vanificando in tal modo l'obiettivo dell'effettiva divisione in natura).

Cass. civ. n. 3675/2021

Qualora il testatore, ai sensi dell'art. 733 c.c., fissi regole per la formazione delle porzioni dei coeredi (ovvero legittimamente attribuisca tale facoltà ad un erede), benché venga meno il diritto di costoro di conseguire, per quanto possibile, una parte dei vari beni relitti dal "de cuius", secondo quanto previsto dall'art. 727 c.c., permane in ogni caso il diritto degli stessi di ottenere beni di valore corrispondente a quello della quota che ad essi compete.

Cass. civ. n. 17862/2020

Nella divisione ereditaria non si richiede necessariamente, in sede di formazione delle porzioni, una assoluta omogeneità delle stesse, ben potendo, nell'ambito di ciascuna categoria di beni immobili, mobili e crediti da dividere, taluni di essi essere assegnati per l'intero ad una quota ed altri, sempre per l'intero, ad altra quota, salvi i necessari conguagli, giacché il diritto dei condividenti ad una porzione in natura di ciascuna delle categorie di beni in comunione non consiste nella realizzazione di un frazionamento quotistico delle singole entità appartenenti alla stessa categoria, ma nella proporzionale divisione dei beni compresi nelle tre categorie degli immobili, mobili e crediti, dovendo evitarsi un eccessivo frazionamento dei cespiti in comunione che comporti pregiudizi al diritto preminente dei coeredi e dei condividenti in genere di ottenere in sede di divisione una porzione di valore proporzionalmente corrispondente a quello della massa ereditaria, o comunque del complesso da dividere. Pertanto, nell'ipotesi in cui nel patrimonio comune vi siano più immobili da dividere, il giudice del merito deve accertare se l'anzidetto diritto del condividente sia meglio soddisfatto attraverso il frazionamento delle singole entità immobiliari oppure attraverso l'assegnazione di interi immobili ad ogni condividente, salvo conguaglio.

Cass. civ. n. 9282/2018

In tema di divisione ereditaria o di cose in comunione, non è necessario formare delle porzioni assolutamente omogenee, poiché il diritto del condividente ad una porzione in natura dei beni compresi nelle categorie degli immobili, dei mobili e dei crediti in comunione non consiste nella realizzazione di un frazionamento quotistico delle singole entità appartenenti alla medesima categoria, ma nella proporzionale divisione dei beni rientranti nelle suddette tre categorie, dovendo evitarsi un eccessivo frazionamento dei cespiti. Pertanto, qualora nel patrimonio comune vi siano più immobili da dividere, spetta al giudice del merito accertare se il diritto della parte sia meglio soddisfatto attraverso il frazionamento delle singole entità immobiliari oppure per mezzo dell'assegnazione di interi immobili ad ogni condividente, salvo conguaglio.

Cass. civ. n. 29733/2017

Il principio stabilito dall'art. 727 c.c. in virtù del quale, nello scioglimento della comunione, il giudice deve formare lotti comprensivi di eguali quantità di beni mobili, immobili e crediti, non ha natura assoluta e vincolante, ma costituisce un mero criterio di massima; ne consegue che resta in facoltà del giudice della divisione predisporre i detti lotti anche in maniera diversa, ove ritenga che l'interesse dei condividenti sia meglio soddisfatto attraverso l'attribuzione di un intero immobile, piuttosto che con il suo frazionamento, e che il relativo giudizio è incensurabile in cassazione se adeguatamente motivato.

Cass. civ. n. 2810/2017

In tema di divisione giudiziale, le spese occorrenti per sopperire alla vetustà degli elementi strutturali di alcuni dei beni da dividere vanno calcolate nella stima della porzione che li comprende, ai fini della tutela del diritto dei condividenti all'uguaglianza qualitativa delle distinte quote, e non poste a carico della massa, non trattandosi di spese necessarie allo svolgimento del giudizio nel comune interesse.

Cass. civ. n. 27405/2013

Il contenuto del diritto dei condividendi ad una porzione di beni immobili comuni, qualitativamente omogenea all'intero, consiste nella proporzionale divisione degli immobili considerati nel genere, contrapposti agli altri generi patrimoniali (mobili e crediti) e non in un frazionamento quotistico delle singole entità immobiliari (fabbricati, terreni, ecc.) comprese nella massa da dividere. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha confermato la decisione con cui il giudice di merito aveva ritenuto che taluni dei beni immobili oggetto di comunione potessero essere assegnati per l'intero ad una quota ed altri, sebbene aventi caratteristiche diverse, invece ad altra quota, reputando irrilevante che soltanto alcuni fossero produttivi di reddito, in quanto idonei alla locazione, stimando comunque omogenee tra loro le quote quanto al valore dei singoli cespiti, come attestato dall'esiguità dei conguagli, in relazione al valore dell'intero asse).

Cass. civ. n. 25946/2013

In tema di divisione, il principio della omogeneità delle porzioni, dettato dall'art. 727 cod. civ. ed applicabile anche alle comunioni ordinarie ex art. 1116 cod. civ., postula che la comunione abbia ad oggetto una pluralità di beni di diversa qualità, essendo diretto ad attuare il diritto dei condividenti a conseguire una frazione di valore proporzionalmente corrispondente a quella spettante singolarmente sull'unica massa da dividere, sicché esso non è applicabile alla comunione avente ad oggetto un unico immobile.

Cass. civ. n. 24657/2007

I crediti del de cuius, a differenza dei debiti, non si ripartiscono tra i coeredi in modo automatico in ragione delle rispettive quote, ma entrano a far parte della comunione ereditaria, essendo la regola della ripartizione automatica dell'art. 752 c.c. prevista solo per i debiti, mentre la diversa disciplina per i crediti risulta dal precedente art. 727, il quale, stabilendo che le porzioni debbano essere formate comprendendo anche i crediti, presuppone che gli stessi facciano pate della comunione, nonché dal successivo art. 757, il quale, prevedendo che il coerede al quale siano stati assegnati tutti o l'unico credito succede nel credito al momento dell'apertura della successione, rivela che i crediti ricadono nella comunione, ed è, inoltre, confermata dall'art. 760, che escludendo la garanzia per insolvenza del debitore di un credito assegnato a un coerede, necessariamente presuppone che i crediti siano inclusi nella comunione; né, in contrario, può argomentarsi dagli artt. 1295 e 1314 dello stesso codice, concernendo il primo la diversa ipotesi del credito solidale tra il de cuius ed altri soggetti e il secondo la divisibilità del credito in generale. Conseguentemente, ciascuno dei partecipanti alla comunione ereditaria può agire singolarmente per far valere l'intero credito comune, o la sola parte proporzionale alla quota ereditaria, senza necessità di integrare il contraddittorio nei confronti di tutti gli altri coeredi, ferma la possibilità che il convenuto debitore chieda l'intervento di questi ultimi in presenza dell'interesse all'accertamento nei confronti di tutti della sussistenza o meno del credito.

Cass. civ. n. 15105/2000

La norma di cui all'art. 727, comma primo, c.c. secondo la quale in sede di divisione le quote da assegnare ai condividenti devono comprendere una quantità di beni di uguale natura e qualità in proporzione all'entità di ciascuna quota, non stabilisce principi inderogabili, ma segna solo un indirizzo di massima dal quale il giudice può discostarsi non solo nelle ipotesi espressamente previste, (artt. 710 e 722 c.c.), ma anche quando la rigorosa applicazione della stessa verrebbe a risolversi in un pregiudizio del diritto dei condividenti di conseguire una porzione di valori proporzionalmente corrispondente a quella spettante singolarmente sulla massa, come potrebbe verificarsi specialmente nell'ipotesi di disuguaglianza delle quote.

Nella divisione ereditaria non si richiede necessariamente in sede di formazione delle porzioni una assoluta omogeneità delle stesse, ben potendo nell'ambito di ciascuna categoria di beni immobili, mobili e crediti da dividere, taluni di essi essere assegnati per l'intero ad una quota ed altri, sempre per l'intero, ad altra quota, salvi i necessari conguagli, giacché il diritto dei condividenti ad una porzione in natura di ciascuna delle categorie di beni in comunione non consiste nella realizzazione di un frazionamento quotistico delle singole entità appartenenti alla stessa categoria, ma nella proporzionale divisione dei beni compresi nelle tre categorie degli immobili, mobili e crediti dovendo evitarsi un eccessivo frazionamento dei cespiti in comunione che comporti pregiudizi al diritto preminente dei coeredi e dei condividenti in genere di ottenere in sede di divisione una porzione di valore proporzionalmente corrispondente a quello della massa ereditaria, o comunque del complesso da dividere. Pertanto, nell'ipotesi in cui nel patrimonio comune vi siano più immobili da dividere, il giudice del merito deve accertare se l'anzidetto diritto del condividente sia meglio soddisfatto attraverso il frazionamento delle singole entità immobiliari oppure attraverso l'assegnazione di interi immobili ad ogni condividente, salvo conguaglio.

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relative all'articolo 727 Codice Civile

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Luca Q. chiede
mercoledì 31/07/2019 - Piemonte
“Buongiorno, insieme alla mia famiglia abbiamo dei macchinari agricoli, ex rottami dell'attività agricola ad altri acquistati in passato quasi come rottami o con costi comunque contenuti, principalmente si tratta di alcuni trattori antichi (1930-50) 3 locomobili a vapore, 2 trebbiatrici antiche (1940). Sono stati accantonati per passione alla meccanica agraria, con la volontà di fare successivamente un museo. Ho cercato anni fa fondi regionali, ma per ora mancano ancora le risorse finanziarie. L'attività non è a scopo di lucro, e non è mai stata finalizzata a quello (a meno di eventuali vendite nascoste da parte di un famigliare), lo scorso anno è mancato mio padre, così l'unico appassionato e con la volontà del museo sono rimasto io, e fra i vivi sono anche l'unico che ha dedicato tempo e impegno al museo, comprese riparazioni e acquisti di alcuni macchinari. Oggi, la volontà degli altri componenti della famiglia, che evidentemente non sono appassionati, ed in passato hanno prestato poco o nulla dedizione ai macchinari e futuro museo, è quella di vendere e ripartire i proventi. Vedo il problema che si vuole trasformare l'attività di mio padre e mia in una cosa a scopo di lucro, per sostanzialmente lucrare sulla demolizione dei vecchi obiettivi (museo), nella sostanza anche la mia attività prestata verrebbe trasformata in qualcos'altro con il fine di lucro che di fatto non mi interessa, perché io ci sono appassionato. Ritengo che fin che rimane la volontà di qualcuno degli interessati nel fare il museo questo obiettivo non possa esser cambiato, e le macchine debbano rimanere nella disponibilità di chi le ha avute sino ad oggi disponibili. E' corretta questa mia pretesa? Quali sono i riferimenti normativi?”
Consulenza legale i 07/08/2019
Il primo problema che questo caso pone è quello della mancanza di una espressa volontà del de cuius, manifestabile a mezzo testamento, di tramandare ai propri eredi i beni di cui si discute al preciso fine di realizzare un museo di macchine agricole.
Il secondo problema è legato al fatto che siamo in presenza di beni mobili, si presume anche non registrati, per provare la titolarità dei quali vige il principio del c.d. possesso vale titolo.
Ciò comporta che, a meno che non si possiedano documenti di data certa (quali fatture o ricevute di acquisto), da cui si possa far risultare che alcuni di tali beni sono stati acquistati con il proprio contributo, sarà molto difficile far valere nei confronti degli altri eredi il proprio diritto ad una quota maggiore sugli stessi.

Si è detto che la prima difficoltà nel vedere realizzato il proprio progetto, e quello del proprio padre, nasce dall’assenza di un’espressa volontà di quest’ultimo; infatti, sarebbe stato sufficiente, al fine di portare avanti quel progetto comune, disporre per testamento di tali beni e nominare un esecutore testamentario ex artt. 700 e ss. c.c., al quale affidare il compito di curare la puntuale esecuzione delle disposizioni di ultima volontà del defunto (così art. 703 del c.c. comma 1), ossia la realizzazione del museo.
Per rafforzare poi ulteriormente la sua volontà, il testatore avrebbe anche potuto sottoporre la disposizione testamentaria alla condizione risolutiva del rifiuto da parte di uno o più eredi di realizzare il museo, prevedendo il soggetto in favore del quale i beni si sarebbero devoluti nel caso in cui la condizione non si avverasse (da individuare, ovviamente, nel figlio che insieme al padre si è adoperato per realizzare tale progetto).

Purtroppo, nulla di tutto ciò è stato fatto, e pertanto adesso sorge il problema di stabilire in che misura quel progetto potrà essere portato a compimento.
Una cosa intanto è certa: in mancanza di una specifica destinazione impressa a quei beni dal de cuius, non si può imporre agli altri eredi alcuna volontà, ed in particolare non si può costringere gli stessi a restare in comunione, imprimendo peraltro a quella comunione uno scopo ben preciso.
Si verrebbe di fatto a realizzare in questo modo una fattispecie per molti versi simile a quella che il legislatore definisce all’art. 2248 del c.c. come comunione a scopo di godimento, la quale si differenzia dalla società per il fatto che non ha ad oggetto lo svolgimento di una attività produttiva comune, ma il semplice godimento comune di uno o più beni.
Trattandosi di comunione, sarà alle norme per questa dettate che occorrerà rivolgere l’attenzione, dall’analisi delle quali si ricava che ciascun coerede ha il diritto di chiedere in qualunque momento lo scioglimento di essa (così art. 1111 del c.c.) e che, nel rispetto delle quote dei singoli partecipanti, sarà da preferire una divisione in natura dei beni.

Ma tra tali norme ve ne è anche una che potrebbe riuscire a soddisfare l’interesse di chi pone il quesito, ossia il terzo comma dell’art. 1108 del c.c., il quale richiede il consenso di tutti i comproprietari per l’alienazione dei beni che compongono il patrimonio comune.
Sarà in forza di quest’ultima norma che si potrà, dunque, riuscire a bloccare l’intenzione di vendere che anima gli altri fratelli, ma, come detto prima, non si potrà impedire loro di chiedere lo scioglimento della comunione su quei beni, con diritto di pretenderne la vendita per dividerne il ricavato qualora non fosse possibile la divisione in natura.

Se si dovesse giungere a tale soluzione, unico strumento di cui ci si potrebbe avvalere per conservare intatto il patrimonio costituito da quei beni di pregio storico ed affettivo, potrebbe essere quello di invocare l’applicazione del secondo comma dell’art. 727 c.c., il quale dispone che occorre evitare per quanto possibile il frazionamento delle collezioni che hanno un’importanza storica, scientifica o artistica.
Trattasi di norma che non può trovare applicazione per quelli che sono semplici ricordi o cimeli di famiglia, ma che si ritiene possa estendersi ai beni oggetto del caso di specie che, da come vengono descritti, sicuramente non possono non avere un certo valore storico.
A quel punto, però, sarà necessario procedere ad una stima degli stessi beni e, sulla base del valore complessivo così determinato, occorrerà detrarre il valore corrispondente alla propria quota ereditaria e soddisfare in denaro (ex art. 728 del c.c.) la quota degli altri eredi (sempre che nel patrimonio ereditario non vi siano altri beni in grado di soddisfare i loro diritti successori).

Resta l’ingiustizia di dover in tal modo ripagare beni in parte frutto del proprio lavoro, ma, in assenza di prove documentali certe, non è possibile purtroppo prospettare altra soluzione.
Per evitare tale situazione ingiusta potrebbe solo pensarsi di far valere l’usucapione, espressamente prevista peraltro in materia successoria dall’art. 714 del c.c..
Dispone tale norma che ciascuno degli eredi in comunione ha il diritto di chiedere in qualunque momento lo scioglimento della comunione anche nell’ipotesi in cui oggetto di essa siano beni di cui uno o più eredi ne abbiano goduto separatamente, ma viene fatto salvo il diritto di far valere l’usucapione per quei beni di cui si riesca a dimostrare di aver avuto il possesso esclusivo.

Occorrerebbe, dunque, dimostrare in un eventuale giudizio, anche a mezzo di prove testimoniali, che gli altri eredi non si sono mai interessati di quei mezzi e che non ne hanno mai avuto in alcun modo il possesso (si consideri che per i beni mobili l’art. 1161 del c.c. fissa in dieci anni il periodo di tempo necessario per far valere l’usucapione).
Sembra di intuire, però, che sarà difficile fornire in un eventuale giudizio la prova del possesso esclusivo di quei beni, in quanto nel corpo del testo del quesito viene precisato che anche il comune genitore dedicava la propria attività alla collezione, acquisto e riparazione di essi; ciò comporta che gli altri eredi non esiteranno a far valere la successione nel possesso esercitato dal padre ex art. 1146 del c.c..