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Articolo 433 Codice Civile

(R.D. 16 marzo 1942, n. 262)

[Aggiornato al 31/01/2024]

Persone obbligate

Dispositivo dell'art. 433 Codice Civile

All'obbligo di prestare gli alimenti(1) sono tenuti, nell'ordine(2):

  1. 1) il coniuge [51, 156](3);
  2. 2) i figli [legittimi o legittimati o naturali o adottivi] anche adottivi, e, in loro mancanza, i discendenti prossimi [, anche naturali](4);
  3. 3) i genitori [279] e, in loro mancanza, gli ascendenti prossimi; gli adottanti(5);
  4. 4) i generi e le nuore [434];
  5. 5) il suocero e la suocera(6);
  6. 6) i fratelli e le sorelle germani o unilaterali, con precedenza dei germani sugli unilaterali [439](7).

Note

(1) Gli alimenti legali sono prestazioni di assistenza materiale dovute per legge alla persona che si trova in stato di bisogno economico (così Bianca). Essi trovano la loro fonte, anche costituzionale, nel dovere di solidarietà (art. 2 Cost.).
Il diritto che ne consegue è un diritto personalissimo, intrasmissibile, irrinunciabile ed imprescrittibile (secondo il dettato dell'art. 2934 del c.c., co. II), inalienabile ed impignorabile; viene qualificato come obbligazione di durata.
(2) Deve precisarsi come l'obbligo gravi in primis in capo al donatario (art. 437 del c.c., art. 769 del c.c.), ed anche - nel solo caso di adozione di persone maggiori d'età - in capo all'adottante ex art. 436 del c.c..
L'elencazione tassativa non vige imperativamente per l'alimentando, il quale potrà ben rivolgersi a chi - tra gli obbligati - gli offra maggiori garanzie di adempimento.
(3) L'obbligo alimentare perdura finché vi è il matrimonio (quindi anche in caso di separazione); in caso di divorzio esso viene a cessare, ma potrà essere sostituito dall'assegno divorzile.
(4) Sono inclusi tutti gli adottivi: tanto gli adottati dopo la maggiore età, quanto i minori adottati in casi particolari.
Il d.lgs. 28 dicembre 2013, n. 154, a decorrere dal 7 febbraio 2014, ha totalmente parificato i figli naturali a quelli legittimi.
(5) L'obbligo alimentare dei genitori è sussidiario, almeno temporalmente e limitatamente all'ampiezza degli effetti, rispetto all'obbligo di mantenimento (che sussisterà finché i figli non siano in grado di provvedere a se stessi, soddisfacendo ogni esigenza di vita, mentre gli alimenti dipendono dal bisogno e sono finalizzati al soddisfacimento di esigenze più elementari).
(6) L'affinità deriva solo da matrimonio e non da adozione.
(7) Stante la totale equiparazione tra fratelli (di cui alla legge n. 219 del 10 dicembre 2012), sono inclusi i figli nati fuori dal matrimonio e quelli il cui rapporto derivi da adozione piena (cd. legittimante).

Brocardi

Necare videtur qui alimenta detrahit
Venter non patitur dilationem

Spiegazione dell'art. 433 Codice Civile

Considerando le caratteristiche dell'obbligazione alimentare, si può notare che la più appariscente e notevole riguarda la predeterminazione di una cerchia di soggetti tutti potenzialmente tenuti alla prestazione alimentare; mentre obbligato in concreto risulta normalmente uno solo di essi. Si parla a questo proposito di una gradualità del vincolo.
Questa nozione va chiarita ed integrata. Sussiste la necessità di provvedere all'assistenza di un dato soggetto. Questo soggetto può trovarsi nelle più diverse relazioni sociali e familiari: può essere figlio, padre, marito, genero, fratello e così via. La legge stabilisce in astratto tutte le speciali relazioni su cui può fondarsi il rapporto alimentare. In fatto si opera una prima selezione. La cerchia può essere più o meno stretta, in quanto i possibili obbligati non sussistano o perché sono defunti o perché l'alimentando non è entrato in quelle speciali relazioni sociali e familiari.

Si fa poi una seconda selezione in base a distinte considerazioni. Possibili alimentatori possono essere in istato di bisogno essi pure e comunque "non in grado di poter somministrare gli alimenti" (art. 440 e seg.). Rimangono in discussione soltanto coloro che sono in condizione di sopportare l'onere di somministrare gli alimenti. Fra questi si determina chi dev'essere l'effettivo obbligato. Possono in teoria darsi tre sistemi. È obbligato il più abbiente soltanto; sono obbligati pro parte tutti coloro che sono in condizione di sopportare l'onere; è obbligato fra costoro solo colui che ha con l'alimentando una relazione per cui la legge lo vuole tenuto in grado precedente ad altri che si trovino in diverse relazioni. Il sistema accolto dalla legge è il terzo, integrato però dal secondo (art. 433, art. 441).

La legge determina, dunque, una cerchia massima generica nella quale caso per caso in concreto si stabilisce la cerchia specifica dei possibili obbligati. In questo ambito, in relazione alle circostanze presenti, viene fissata l'attuale legittimazione, che può riguardare uno o anche più (in attuale concorso) degli obbligati. Si può, dunque, stabilire una distinzione fra obbligo potenziale (di tutti gli appartenenti alla cerchia su descritta) e obbligo attuale di uno o pochi più soltanto.
Il previo obbligo di tutti, chiamato potenziale, è una situazione con precisi effetti giuridici obbligatori. Fra gli obbligati "in potenza" ognuno può essere obbligato "in atto" col verificarsi delle previste circostanze. Si potrebbe anche dire che l'obbligazione alimentare vera e propria è quella che tocca contemporaneamente e complessivamente le varie persone comprese nella suddetta cerchia, per le quali si potrebbe parlare di obbligazione senza altra qualificazione. Il problema della attuale legittimazione riguarderebbe, così, non già le condizioni del diritto di credito alimentare (e della relativa obbligazione), bensì le condizioni d'esercizio del potere del creditore di esigere la prestazione, in relazione alle speciali circostanze in cui si debbano caso per caso apprezzare i presupposti del credito agli alimenti.

Con riguardo alla cerchia dei possibili legittimati passivi si potrebbe parlare di un caso di obbligazione collettiva: un indubbio residuo del carattere originario di ordinamento giuridico autonomo della famiglia, alla quale ha sempre fatto capo la maggiore, anche se non esclusiva, importanza della materia alimentare. Lo stesso significato (in un più vasto campo) e lo stesso presupposto storico hanno i carichi tributari nell'ordinamento giuridico statuale. Tutti, in relazione alla propria posizione economica e sociale, sono tenuti a contribuire; ma in fatto paga solo chi può pagare. In materia di imposte pubbliche tutti concorrono. Nel ristretto campo della materia alimentare, invece, una graduatoria che ha riguardo ai rapporti sociali o familiari fra alimentando e obbligato, fa si che normalmente il concorso non sia la regola e che uno solo fra i più obbligati possa essere di volta in volta tenuto. Ma, secondo quanto abbiamo detto, gradualità e sussidiarietà non riguardano tanto obbligazione quanto l'esercizio del potere del creditore.
Non bisogna dimenticare che il rapporto obbligatorio dura nel tempo connesso con il presupposto base del bisogno. Così si dice che, nel periodo in cui l'obbligazione dura, non l'obbligazione muta, ma solo di volta in volta la legittimazione passiva dei vari soggetti collettivamente obbligati.
Per definire l'obbligazione alimentare, infine, poco giova il criterio, per lo più addotto, della reciprocità. Al dovere di fornire gli alimenti corrisponde, si dice, il diritto di chiederli e viceversa. Tale proposizione corrente non ha alcun senso preciso. Essa presupporrebbe un concetto inesistente: vale a dire che i rapporti alimentari si svolgano su di una base esclusivamente bilaterale e che una speciale qualifica personale si richieda nell'avente diritto.
L'avente diritto, invece, chiede gli alimenti sulla base del solo requisito del bisogno e può avanzare la domanda non già verso una sola persona, ma verso una pluralità.
In questa sfera si trovano soggetti che possono essere legittimati alla richiesta in base alle più varie ragioni di rapporti familiari e sociali. Se si esamina l'elenco dei possibili obbligati, si trova che, oltre l'obbligazione alimentare del marito, ve ne può essere una della moglie. Così i nonni devono gli alimenti ai nipoti. Questi devono gli alimenti (ove sia il caso) ai suddetti nonni. Abbiamo accostato questi casi, in cui vi è una corrispondenza di rapporto familiare; ma non avrebbe alcun preciso significato il dire che sussiste una reciprocità di obbligazione alimentare. Solo vale constatare che tanto il marito che la moglie, tanto i suoceri che i generi e le nuore, ecc., sono nell'elenco dei possibili obbligati. A titolo di coniuge o di suocero o di genero o di padre o di figlio ecc., alcuno può essere talora legittimato a prestare e talora, allo stesso titolo, legittimato a chiedere gli alimenti.
Quanto all'obbligazione alimentare del coniuge, è opportuno osservare che qui opera il nuovo criterio accolto dal codice vigente, che distingue nettamente l'obbligazione alimentare vera e propria, fondata sul bisogno, dall'obbligo di mantenimento che sorge a favore del coniuge che, in seguito ad una sentenza di separazione, non disponga di adeguati redditi propri.

Per ciò che riguarda le obbligazioni alimentari degli ascendenti, deve parimenti ricordarsi il criterio discretivo accolto fra il dovere familiare di mantenere, educare e istruire in proporzione delle sostanze, e la materia delle obbligazioni alimentari vere e proprie fondate sul presupposto del bisogno.
Mentre nelle norme del codice del 1865 relative ai rapporti fra ascendenti e discendenti i due ordini di doveri erano confusi, il nuovo codice ha attuato una netta separazione. Basti osservare gli articoli del codice civile vigente ove si parla di un puro e semplice dovere dei genitori di mantenere, educare ed istruire la prole.
In ognuno di tali casi, nell'intento della legge, si è fuori dalla materia alimentare.
Quando, allora, interverranno le obbligazioni alimentari dei genitori, e in generale degli ascendenti, nei riguardi dei discendenti? Una risposta in termini generali è facile: tutte le volte che non operino più i presupposti d'applicazione degli articoli che si riferiscono al mantenimento e sussista lo stato di bisogno nel discendente, a prescindere da ogni altra considerazione, come fosse dell'età, di cattiva condotta e simili.

Mentre nell'art. #142# del codice del 1865 si parlava genericamente di ascendenti, nella nuova disposizione dell'art. 433 è precisato che l'obbligazione dei genitori precede quella degli altri ascendenti e questi sono gli ascendenti prossimi, vale a dire i nonni. I nonni, sia paterni che materni, debbono tutti intendersi tenuti in uguale grado e concorrenti pro capite.

L'obbligazione dei figli riguarda tutti in egual grado e sullo stesso piano, siano essi maschi o femmine, coniugati oppure no, di primo letto oppure di successivo. Il quesito se sia ammissibile una obbligazione di un nascituro (nell'ipotesi che questo abbia ricevuto per testamento), risolto affermativamente da qualche decisione giurisprudenziale, esige invece con sicurezza la soluzione negativa; soluzione che si fonda sulla eccezionalità della norma che, con riguardo alla materia successoria, stabilisce una rilevanza giuridica della condizione del nascituro.

Relazione al Codice Civile

(Relazione del Ministro Guardasigilli Dino Grandi al Codice Civile del 4 aprile 1942)

213 L'art. 433 del c.c. indica le persone tenute agli alimenti, stabilendone l'ordine relativo. In primo grado è menzionato il coniuge. Al riguardo peraltro è da tenere presente che nello svolgimento normale dei rapporti matrimoniali il marito è tenuto al mantenimento della moglie, e la moglie a contribuire al mantenimento del marito, quando questi non abbia mezzi sufficienti, a norma dell'art. 145 del c.c.. Poiché l'obbligo del mantenimento non è derogato dalla norma che dichiara il coniuge tenuto agli alimenti, è ovvio che quest'ultima non troverà applicazione quando non vi sia separazione ovvero nei riguardi del coniuge, che non ha colpa nella separazione, giacché questi conserva tutti i suoi diritti, secondo quanto dispone l'art. 156 del c.c.. Anzi queste considerazioni inducono a rilevare che l'obbligazione alimentare anche per altre categorie di obbligati, come, ad esempio, i genitori verso i figli, non deroga al più ampio dovere del mantenimento tutte le volte che la legge lo prescrive.

Massime relative all'art. 433 Codice Civile

Cass. civ. n. 33789/2022

Il diritto agli alimenti è legato alla prova non solo dello stato di bisogno, ma anche dell'impossibilità da parte dell'alimentando di provvedere in tutto o in parte al proprio sostentamento mediante l'esplicazione di attività lavorativa, per cui deve essere rigettata la domanda di alimenti ove l'alimentando non provi la propria invalidità al lavoro per incapacità fisica, e la impossibilità, per circostanze a lui non imputabili, di trovarsi un'occupazione confacente alle proprie attitudini ed alle proprie condizioni sociali. Inoltre lo stato di bisogno, quale presupposto del diritto agli alimenti previsto dall'art. 438 cod. civ., esprime l'impossibilità per il soggetto di provvedere al soddisfacimento dei suoi bisogni primari, quali il vitto, l'abitazione, il vestiario, le cure mediche, e deve essere valutato in relazione alle effettive condizioni dell'alimentando, tenendo conto di tutte le risorse economiche di cui il medesimo disponga ed è ben distinto dallo stato di difficoltà economica compatibile con un'occupazione intermittente.

Cass. civ. n. 34168/2019

In tema di oneri deducibili dal reddito delle persone fisiche, il titolare dell'impresa familiare che versi contributi previdenziali nell'interesse dei collaboratori ha soltanto diritto di rivalsa nei confronti del beneficiato, potendo invece portare in deduzione il relativo importo unicamente nelle ipotesi in cui il collaboratore sia un familiare indicato nell'art. 433 c.c. e a condizione che sia persona a suo carico.

Cass. civ. n. 21234/2019

Ai fini dell'attribuzione e della quantificazione dell'assegno divorzile si deve tenere conto della funzione assistenziale e, a determinate condizioni, anche compensativo-perequativa cui tale assegno assolve. Da ciò consegue che, nel valutare l'inadeguatezza dei mezzi dell'ex coniuge che ne faccia richiesta, o l'impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, si deve tener conto, utilizzando i criteri di cui all'art. 5, comma 6, della l. n. 898 del 1970, sia della impossibilità di vivere autonomamente e dignitosamente da parte di quest'ultimo e sia della necessità di compensarlo per il particolare contributo, che dimostri di avere dato, alla formazione del patrimonio comune o dell'altro coniuge durante la vita matrimoniale, senza che abbiano rilievo, da soli, lo squilibrio economico tra le parti e l'alto livello reddituale dell'altro ex coniuge, tenuto conto che la differenza reddituale è coessenziale alla ricostruzione del tenore di vita matrimoniale, ma è oramai irrilevante ai fini della determinazione dell'assegno, e l'entità del reddito dell'altro ex coniuge non giustifica, di per sé, la corresponsione di un assegno in proporzione delle sue sostanze. (Cassa con rinvio, CORTE D'APPELLO GENOVA, 05/04/2018).

Cass. civ. n. 18287/2018

All'assegno divorzile in favore dell'ex coniuge deve attribuirsi, oltre alla natura assistenziale, anche natura perequativo-compensativa, che discende direttamente dalla declinazione del principio costituzionale di solidarietà, e conduce al riconoscimento di un contributo volto a consentire al coniuge richiedente non il conseguimento dell'autosufficienza economica sulla base di un parametro astratto, bensì il raggiungimento in concreto di un livello reddituale adeguato al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare, in particolare tenendo conto delle aspettative professionali sacrificate. (Cassa con rinvio, CORTE D'APPELLO BOLOGNA, 15/06/2017).

Cass. civ. n. 15397/2013

La circostanza che la pretesa alimentare sia rivolta nei confronti di un fratello non comporta la sua infondatezza, ma solo la determinazione del relativo importo nella misura dello stretto necessario, ai sensi dell'art. 439 c.c..

Cass. civ. n. 6395/2004

Il vitalizio alimentare, con il quale una parte si obbliga, in corrispettivo dell'alienazione di un immobile o della attribuzione di altri beni od utilità, a fornire all'altra parte vitto, alloggio ed assistenza, per tutta la durata della vita ed in correlazione ai suoi bisogni, è soggetto al rimedio della risoluzione per il caso d'inadempimento, tenendo conto che si tratta di contratto atipico, non riconducibile, per peculiarità dell'alea, delle prestazioni del vitaliziante e della funzione perseguita, nell'ambito della rendita vitalizia, e, quindi, sottratto all'applicazione diretta dell'art. 1878 c.c. in tema di esclusione della risoluzione in ipotesi di mancato pagamento di rate di rendita scadute, e che, inoltre, tale ultima norma la quale trova giustificazione nella non gravità della turbativa dell'equilibrio negoziale in presenza di inadempienza nel pagamento di dette rate di rendita, oltre che nella possibilità di un soddisfacimento coattivo del creditore non è suscettibile di applicazione analogica al vitalizio alimentare, caratterizzato da prestazioni indispensabili per la sopravvivenza del creditore, in parte non fungibili e basate sullo "intuitus personae".

Cass. civ. n. 1992/1996

Il Ministero dell'interno, quale istituzione intermediaria ai sensi della Convenzione di New York del 20 giugno 1956 sul riconoscimento all'estero degli obblighi alimentari, allorquando chiede la delibazione di sentenze straniere recanti la condanna agli alimenti a favore di minori agisce con propria legittimazione come portatore di un interesse proprio di natura pubblicistica ed il relativo potere di azione è svincolato dal rilascio della procura da parte del soggetto creditore degli alimenti, restando subordinato solo alla richiesta avanzata dalle autorità speditrici. Ne consegue che la procura del creditore alimentare all'autorità intermediaria, prevista solo in via eventuale dall'art. 3 n. 3 della suddetta convenzione, non conferisce alla detta istituzione nessun potere rappresentativo ulteriore ed è riconducibile alla categoria dei meri atti di impulso.

Cass. civ. n. 557/1970

Il diritto agli alimenti esula dall'ambito dei rapporti familiari, sottraendosi quindi ai principi d'ordine pubblico che investono la loro disciplina, così come quella delle limitazioni di prove a detti rapporti inerente, e, rientrando nella sfera delle obbligazioni patrimoniali, è regolato (in virtù dell'art. 25 delle disposizioni sulla legge in genere) dalla legge del luogo ove è avvenuto il fatto dal quale l'obbligo degli alimenti deriva.

Cass. civ. n. 2859/1968

La convenzione con la quale due coniugi, prima dell'omologazione della separazione consensuale si distribuiscono l'obbligo delle contribuzioni patrimoniali verso i figli e determinano l'ammontare degli assegni alimentari e il modo di somministrarli conserva validità anche dopo la successiva omologazione della separazione consensuale, salvo che non sia stata espressamente modificata.

Cass. civ. n. 2066/1966

Il diritto agli alimenti sussiste anche se l'alimentando versi in stato di bisogno per propria colpa. La legge prevede solo che gli alimenti siano ridotti in caso di condotta disordinatamente colpevole dell'alimentando.

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Consulenze legali
relative all'articolo 433 Codice Civile

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Anonimo chiede
sabato 02/03/2024
“Siamo 4 fratelli Tizio Caio Mevio e Sempronio. Tizio e Mevio anno sempre lavorato assieme in macelleria. Nel 2014 hanno chiuso la macelleria e credo abbiano accumulato un buon patrimonio immobiliare e finanziario. in questi anni si sono intestati le loro proprietà ora il problema è che Tizio è senza figli, rimasto vedovo con demenza senile, ed è ricoverato in casa di riposo da un anno dove si pagano circa 4000 euro al mese. Mevio ha sempre seguito tutto gestione finanziaria e gestione personale. Ora è venuto a mancare in data 02-02-2024, noi fratelli Caio e Sempronio cosa dobbiamo fare?? Per legge ci dicono che dovremmo essere noi fratelli ad interessarsi di Tizio. Come ci dobbiamo comportare?”
Consulenza legale i 07/03/2024
Il dovere di prendersi cura dei propri cari che si trovino in condizioni di difficoltà trova fondamento, certo, nelle norme costituzionali, che tutelano i diritti inviolabili della persona umana, nonché la famiglia e la salute.
Tuttavia, anche senza “scomodare” la Costituzione, lo stesso codice civile stabilisce degli obblighi a carico dei familiari di una persona che si trovi in stato di bisogno e non sia in grado di provvedere al proprio mantenimento. Si tratta dell’obbligo di versare i cosiddetti alimenti (artt. 433 e ss. c.c.), che consistono - nella visione del codice civile - essenzialmente in una prestazione di natura pecuniaria, cioè nel pagamento di una somma di denaro. Esiste però anche un modo alternativo per adempiere all’obbligazione alimentare, cioè accogliere presso di sé e mantenere la persona che vi ha diritto.

Occorre dire che i fratelli e le sorelle sono gli ultimi in ordine di priorità ad essere chiamati a versare gli alimenti, e quindi vi sono tenuti quando non vi siano altri familiari obbligati secondo la “graduatoria” prevista dall’art. 433 c.c.
Inoltre, l’art. 439 c.c. precisa che “tra fratelli e sorelle gli alimenti sono dovuti nella misura dello stretto necessario”.

Altro punto importantissimo è che gli alimenti vanno versati tenendo conto non solo del bisogno del beneficiario ma anche delle condizioni economiche di chi deve versarli (art. 438 c.c.).
Se, poi, come nel nostro caso, esistono più soggetti obbligati (nello specifico, due fratelli), secondo l’art. 441 c.c. la prestazione alimentare va suddivisa in proporzione alle rispettive capacità economiche.

In ogni caso, non è possibile disinteressarsi del familiare in difficoltà ma occorre, semmai, accordarsi tra fratelli (in mancanza di altri soggetti obbligati) per provvedere a quanto necessario per la vita del fratello bisognoso.
In proposito è opportuno (se già non si è provveduto) chiedere al giudice tutelare la nomina di un amministratore di sostegno (artt. 404 e ss. c.c.), compito che potrà essere svolto da uno dei due fratelli.

Federico chiede
giovedì 01/10/2020 - Lombardia
“Nel 2017 è morto mio padre, ancora lavoratore dipendente. I suoi unici eredi siamo io e due mie sorelle.
La nonna paterna è vedova e ancora viva e percepisce la pensione minima. Oltre a mio padre, mia nonna aveva altri due figli (anche loro ancora in vita e lavoratori dipendenti).
Quando mio padre era in vita, i tre figli avevano concordato (a voce) di contribuire mensilmente alle spese della nonna, a causa della bassa pensione.
Alla morte di mio padre, i fratelli superstiti hanno chiesto a me e alle mie sorelle di contribuire alle spese mensili della nonna, cosa a cui eravamo ovviamente inizialmente favorevoli.
A causa di litigi intra-familiari, sei mesi fa io e le mie sorelle abbiamo deciso di non contribuire più alle spese mensili della nonna.
L'avvocato degli zii ci ha contattato dicendo che la Legge costringe me e le mie sorelle a pagare in quanto eredi di nostro padre. Ha citato l´art. 433 Codice civile che recita: “All'obbligo di prestare gli alimenti sono tenuti [...]: i figli [...] e, in loro mancanza, i discendenti prossimi [anche naturali].”
Secondo gli zii, io e le mie sorelle siamo tenuti a pagare in quanto eredi di nostro padre.
Premesso che:
• nessun giudice ha constatato lo stato di indigenza di nostra nonna
• sono ancora vivi due figli di nostra nonna
La mia DOMANDA è: la Legge costringe me e le mie sorelle a contribuire economicamente al sostentamento della nonna in quanto eredi di nostro padre? Ci sono sentenze passate in giudicato che chiarificano l´articolo 433 del Codice Civile?”
Consulenza legale i 07/10/2020
L'obbligo degli alimenti legali trova la sua specifica disciplina nel titolo XIII del libro I del codice civile (artt. 433 e ss. c.c.), al termine della disciplina del diritto di famiglia, ed è costruito sul concetto di famiglia estesa, la quale comprende anche discendenti e ascendenti di qualunque grado, alcuni affini in linea retta di primo grado, fratelli e sorelle.
La funzione dell'obbligazione alimentare viene generalmente individuata nella tutela di quelle persone che si trovano in stato di bisogno perché incapaci di provvedere alle proprie necessità, ed è ormai prevalente la tesi secondo cui il fondamento dell'istituto si deve ricercare nel “diritto alla vita” dell'indigente.
L'ordinamento, pertanto, appresta gli strumenti affinché l'indigente possa ottenere i mezzi necessari alla sussistenza da parte di soggetti che si trovino con lui in una particolare relazione personale e che abbiano la possibilità economica di corrispondergli ciò di cui necessita.

Infatti, presupposti dell'obbligo alimentare sono, sotto il profilo soggettivo, l'esistenza di un legame fra avente diritto ed obbligato, mentre, sotto il profilo oggettivo, l'esistenza di uno stato di bisogno dell'alimentando, la correlativa incapacità dello stesso di provvedere al proprio mantenimento, nonché la capacità economica dell'obbligato.
Dal punto di vista soggettivo, la tutela dell'individuo che si trova in stato di bisogno è imposta dalla legge ad una cerchia di soggetti determinati; a tal fine, le disposizioni contenute negli artt. 433, 434, 436 e 437 c.c. indicano opportunamente i potenziali debitori dell'obbligo alimentare.

Si tratta di un'elencazione che si definisce tassativa e progressiva, nel senso che il primo soggetto in grado di adempiere esclude gli altri; l'ordine è dato dall'intensità decrescente del vincolo di parentela o di affinità.
In particolare, per ciò che qui ci interessa, i nn. 2 e 3 dell’art. 433 c.c. disciplinano, quale legame tra potenziale obbligato e soggetto bisognoso, il rapporto di parentela (legittima, legittimata, naturale o adottiva) in linea retta, sia discendente che ascendente (con precedenza della linea discendente su quella ascendente) e senza limite di grado, ma con precedenza del grado prossimo rispetto al remoto.
Pertanto, sembra che sia abbastanza chiara l’interpretazione che va data di tale norma: i nipoti, discendenti dei figli e parenti in linea retta di secondo grado, saranno obbligati a prestare gli alimenti soltanto in mancanza dei figli, parenti in linea retta di primo grado.
Nessuna sentenza è dato rinvenire su tale specifico tema, almeno tra quelle contenute nelle banche dati di cui si avvale questa Redazione; ciò dovrebbe far già presupporre che la norma di cui all’art. 433 c.c., almeno sotto questo profilo, non lascia spazio a particolari dubbi interpretativi.

Quanto detto vale sotto il profilo soggettivo, ossia sotto il profilo dell’individuazione di coloro che sono obbligati a prestare gli alimenti (finché vi saranno i figli e questi avranno adeguata capacità economica, saranno i figli a dover corrispondere gli alimenti e non i nipoti).
A ciò si aggiunga che, nel caso di specie, sembrano difettare anche i presupposti oggettivi perché possa dirsi sussistente un vero e proprio obbligo alimentare.
Infatti, costituisce orientamento costante nella giurisprudenza della Corte di Cassazione (cfr. Cass. 2199/1990) quello secondo cui il diritto agli alimenti sorge in seguito ad una specifica domanda giudiziale dell'alimentando.
L’alimentando deve fornire in giudizio la prova non solo del proprio stato di bisogno, ma anche dell'impossibilità di provvedere al proprio sostentamento mediante l'esplicazione di un'attività lavorativa (così Cass. N. 2165/1987; Cass. N. 1099/1990; Cass. N. 3334/2007; Cass. 20509/2010; nella giurisprudenza di merito Appello Milano 28.06.2019).
In questo caso la persona a cui viene prestato il contributo alimentare non è chiaramente nelle condizioni di svolgere un’attività lavorativa, ma a tal proposito va segnalata una sentenza di merito (Tribunale Vallo della Lucania dell/8.07.1991), la quale ha attribuito correttamente rilevanza, nella valutazione dello stato di bisogno, all'assistenza sanitaria prestata dal Servizio sanitario nazionale, al riconoscimento del diritto all'indennità di accompagnamento di cui alla L. 11.2.1980, n. 18 nonché all’eventuale pensione sociale di cui goda il bisognoso (nel quesito si dice che la nonna percepisce la pensione minima come casalinga, della quale si dovrà necessariamente tener conto al fine di valutare il suo stato di indigenza).

Quanto all'onere della prova, sicuramente la prova del requisito soggettivo e dello stato di bisogno spetta a chi chiede gli alimenti.
Giudice competente per l'azione alimentare, secondo la regola generale di cui all'art. 18 del c.p.c., è quello del luogo in cui risiede o è domiciliato il convenuto; inoltre, trova anche applicazione l'art. 20 del c.p.c., e dunque è competente anche il giudice del luogo dove l'obbligazione è sorta (ossia dove l'alimentando risiede o è domiciliato quando si verifica lo stato di bisogno) o deve essere eseguita.

Si tenga comunque presente che quanto fin qui detto riguarda l’ipotesi in cui l’obbligo alimentare venga disposto in forza di una sentenza, al termine di un giudizio nel corso del quale il giudice adito abbia riconosciuto l'esistenza di uno stato di bisogno dell'avente diritto, la correlativa incapacità di provvedere al proprio mantenimento, nonché la capacità economica dell'obbligato.
L’obbligazione alimentare, tuttavia, può derivare anche da altra fonte, in particolare da una fonte negoziale, quale può essere un contratto (c.d. contratto alimentare) o un legato.
Escluso in questo caso il ricorrere di un legato, potrebbe riconoscersi nell’accordo sussistente tra la nonna ed i suoi figli un’ipotesi di contratto alimentare, il quale si presenta come un contratto atipico, a cui può ritenersi applicabile in via analogica la disciplina della rendita vitalizia, per la quale il legislatore richiede al n. 10 dell’art. 1350 del c.c. il rispetto del requisito della forma scritta.
Nel caso in esame, non soltanto tale requisito di forma non è stato rispettato (il che fa sorgere parecchi dubbi sulla sua concreta validità), ma si pretenderebbe di estendere gli effetti di tale contratto anche a soggetti diversi da coloro tra cui è stato concluso, in palese violazione del disposto di cui all’art. 1372 del c.c., il quale dispone che il contratto ha forza di legge tra le sole parti che lo hanno concluso e che non è in grado di produrre effetti nei confronti dei terzi se non in specifici casi previsti dalla legge (tra cui, sicuramente, non rientra il contratto alimentare, dato il carattere strettamente personale della prestazione che ne costituisce l’oggetto sia dal lato attivo che dal lato passivo).

In conclusione, nei confronti dei nipoti non può dirsi sussistente alcuna obbligazione alimentare, né legale né contrattuale.


Evasio C. chiede
mercoledì 16/09/2020 - Marche
“Nel Regolamento Unico di Ambito Territoriale Sociale per l'accesso alle prestazioni sociali sono previsti i criteri di compartecipazione ai costi a carico dei beneficiari e conseguentemente i costi (l'integrazione) a carico dei Comuni. Il riferimento è ovviamente all'ISEE. Il punto è che per richiedere l'integrazione della retta, nel caso di soggetti inseriti, o da inserire in strutture, (disabilità, anziani non autosufficienti, salute mentale) è previsto: " Dichiarazione attestante la presenza di soggetti tenuti agli alimenti di cui all'art. 433 CC o della loro mancanza" ed ancora: "Attestazione ISEE in corso di validità relativa ai redditi dei soggetti tenuti agli alimenti di cui all'art. 433 CC". Vorrei sapere se la richiesta è legittima visto che in nessuna fattispecie di ISEE ho rintracciato la previsione della presentazione ISEE dei soggetti di cui all'art. 433.
Se possibile fatemi conoscere le Vostre valutazioni entro lunedì pv.
Grazie e cordiali saluti.

Consulenza legale i 21/09/2020
Il quesito riguarda l’annosa questione della sussistenza dell’obbligo per i soggetti tenuti agli alimenti ex art. 433 c.c. di contribuire al costo delle prestazioni assistenziali erogate a favore del parente non autosufficiente.
Per motivi di sinteticità e chiarezza, nel presente parere si fornirà una breve panoramica della normativa di riferimento e della giurisprudenza relativa alla legittimità dei regolamenti comunali simili a quello di specie, tralasciando le altre problematiche connesse, ma differenti, che sono state affrontate da altre decisioni in materia (come ad es. la validità degli accordi che spesso vengono fatti sottoscrivere ai parenti degli assistiti, con i quali essi si obbligano a partecipare alle rette delle strutture assistenziali).

In primo luogo, si nota che la L. n. 328/2000 citata nelle premesse del Regolamento inviato a corredo del quesito, ai fini della ripartizione delle spese, individua quale esclusivo parametro di riferimento la situazione economica del richiedente, prevedendo un’integrazione economica da parte del Comune di residenza.
Anche l’art. 20, L. R. delle Marche n. 32/2014, anch’esso posto a fondamento del Regolamento comunale citato, stabilisce che il soggetto tenuto a partecipare al costo delle prestazioni sia il solo assistito, sulla base di livelli differenziati per reddito e patrimonio definiti con riferimento all’ISEE.
In terzo luogo, l'art. 2, c. 1, D.P.C.M. n. 159/2013, recante "Regolamento concernente la revisione delle modalità di determinazione e i campi di applicazione dell'Indicatore della situazione economica equivalente (ISEE)", dispone, poi, che "La determinazione e l'applicazione dell'indicatore ai fini dell'accesso alle prestazioni sociali agevolate, nonché della definizione del livello di compartecipazione al costo delle medesime, costituisce livello essenziale delle prestazioni, ai sensi dell'articolo 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione, fatte salve le competente regionali in materia di normazione, programmazione e gestione delle politiche sociali e sociosanitarie e ferme restando le prerogative dei comuni".
L’art. 6 dello stesso D.P.C.M., infine, disciplina il cosiddetto “ISEE sociosanitario”, dettando i criteri sulla base dei quali stabilire il peso dei redditi dei vari componenti familiari nel calcolo dell’ISEE della persona che usufruisce delle prestazioni assistenziali.
In particolare, per quanto riguarda le prestazioni residenziali -come i ricoveri presso Residenze Socio Sanitarie Assistenziali-, per il calcolo dell' ISEE si tiene conto anche della condizione economica dei figli del beneficiario non inclusi nel nucleo familiare, integrando l'indicatore con una componente aggiuntiva per ciascun figlio.

La giurisprudenza amministrativa ha avuto modo in diverse occasioni di valutare la legittimità della normativa regolamentare locale, che impone il coinvolgimento diretto degli obbligati agli alimenti nel pagamento degli oneri della retta dovuta per il ricovero dei loro congiunti, ad esempio chiedendo anche a tali soggetti di presentare il proprio ISEE.
In generale, i Giudici amministrativi hanno concluso che può essere ritenuto obbligato al pagamento soltanto il soggetto che riceve la prestazione, anche se il suo reddito viene calcolato con riferimento alla sua situazione familiare, utilizzando i criteri e i parametri considerati dalle norme sull'ISEE (T.A.R. Milano, sez. III, 08 ottobre 2013, n. 2242; T.A.R. Venezia, sez. III, 03 febbraio 2012, n. 132; T.A.R. Venezia, sez. III, 25 gennaio 2012, n. 56; T.A.R. Milano, sez. I, 7 febbraio 2008, n. 291).
Infatti, la normativa sopra ricordata riconosce quali obbligati solo l'assistito e il il Comune, qualora sia necessaria una eventuale integrazione economica, e non altri soggetti a vario titolo chiamati in causa dai regolamenti comunali sottoposti al sindacato di legittimità da parte del G.A.
Di particolare interesse è, poi, una recente sentenza del TAR Marche relativa alla legittimità di una nota comunale che aveva negato la compartecipazione dell’Ente ai costi in discorso, sulla base dell'esistenza di redditi posseduti dai soggetti tenuti agli alimenti ex art. 433 c.c.
Il ricorso è stato accolto, affermando il principio secondo cui il Comune non può autonomamente stabilire modi diversi di calcolo del reddito disponibile, in assenza di un’autonoma disciplina regionale sul punto, e non può rivolgersi a soggetti differenti da quelli i cui redditi sono inclusi nell’ISEE, e tanto meno ai i soggetti di cui all’art. 433 c.c. (TAR Marche, sez. I, 12 Giugno 2018, n. 427).

Dal quadro delle norme e della giurisprudenza sopra ricordate emerge, dunque, che non esiste una specifica disposizione legislativa che ponga in capo ai soggetti tenuti alle prestazioni alimentari anche l’obbligo di compartecipare ai costi dei servizi sociali-assistenziali.
Peraltro, si osserva che il diritto a percepire gli alimenti è personalissimo, intrasmissibile ed inalienabile (art. 447 c.c.) e, quindi, il Comune non sembra potersi sostituire all’assistito –nemmeno a mezzo di un regolamento comunale- nella possibilità di agire per chiedere l’adempimento di tale obbligazione.
I redditi dei familiari, dunque, possono essere considerati non in via diretta, ma solo nell’ambito dell’ISEE relativo all'assistito, nei limiti fissati dal D.P.C.M. n. 159/2013.

Marcello F. chiede
martedì 09/07/2019 - Sardegna
“Mio padre, separato, divorziato e risposato è sopravvissuto alla sua seconda moglie. Si è allontanato da noi, la sua prima famiglia, dal 1978. Vive da solo, ha 86 anni, ed è seguito, in nero, da una signora che fa le pulizie a casa sua ma che lavora anche altrove. E' abbastanza autosufficiente ma ha sperperato tutti i suoi risparmi. Un anno fa ho proposto l'amministrazione di sostegno ma non ne vuole sapere, così come non vuole entrare in una casa di riposo.
Ora che però è senza risparmi(percepisce comunque 1700 euro mensili di pensione), la signora delle pulizie si è stufata di seguirlo e vuole che me ne occupi io.
Sono obbligato per legge, anche se lui si è risposato ed ha avuto per più di quaranta anni un'altra famiglia?
Come posso tutelarmi?
Grazie in anticipo”
Consulenza legale i 16/07/2019
Dalle informazioni fornite sembrerebbe potersi escludere che vi sia, in questo caso, un obbligo di assistenza “economica” nei confronti del padre. Infatti, anche se questi risulta aver “sperperato” i propri risparmi, percepisce comunque una pensione di importo certamente non esiguo.
Da un punto di vista civilistico, ai sensi degli artt. 433 ss. c.c. i figli sono tenuti a prestare gli alimenti ai genitori, ovvero a versare quanto sia “necessario per la vita” degli stessi. Tuttavia, ha diritto agli alimenti solo chi versa in stato di bisogno e non è in grado di provvedere al proprio mantenimento: situazione che appunto, nel caso che ci occupa, sembrerebbe esclusa.

Quanto ai profili penalistici, che suscitano particolare preoccupazione nel figlio, l’art. 570 del c.p. potrebbe in astratto applicarsi nella parte in cui (comma 2, n. 2) sanziona il comportamento di chi fa mancare i mezzi di sussistenza agli ascendenti.
La giurisprudenza ha precisato che nella nozione di mezzi di sussistenza rientrano non solo i mezzi per la sopravvivenza vitale (quali il vitto e l'alloggio), ma anche gli strumenti che consentano, in rapporto alle reali capacità economiche e al regime di vita personale del soggetto obbligato, un sia pur contenuto soddisfacimento di altre complementari esigenze della vita quotidiana (Cass. Pen., Sez. VI, sentenza n. 12400/2017).
Il reddito di cui dispone il padre sembra comunque sufficiente a garantirgli il soddisfacimento delle fondamentali esigenza legate alla vita quotidiana.
Nel nostro caso, semmai, più che un problema di sostegno economico al genitore si pone quello dell’assistenza, intesa come attività di accudimento, di cura, relativamente ad un soggetto che, in considerazione della propria età avanzata, potrebbe non essere in grado di badare a se stesso.
In tal senso rileva appunto l’art. 591 del c.p., norma che punisce chiunque abbandoni - per quanto qui specificamente interessa - una persona incapace, per malattia di mente o di corpo, per vecchiaia, o per altra causa, di provvedere a se stessa, e della quale abbia la custodia o debba avere cura. L’ultimo comma della norma stabilisce una circostanza aggravante se il fatto è commesso - tra l’altro - dal figlio.

In proposito, di recente la Corte di Cassazione (Sez. V Penale, sentenza 44089/2016) si è pronunciata in merito al caso di una donna, condannata sia in primo che in secondo grado per il delitto di abbandono di persone incapaci, commesso proprio nei confronti del padre.
In particolare, la difesa dell’imputata sosteneva che l’obbligo di assistenza non gravava su quest’ultima, in quanto il padre non era affidato alla sua custodia.
Sul punto, la Suprema Corte ha condiviso le valutazioni dei giudici di merito, secondo cui in capo alla figlia era ravvisabile un dovere giuridico, oltre che morale, di cura. La sussistenza di tale dovere deriva da “una corretta interpretazione sistematica delle norme di livello costituzionale riguardanti il riconoscimento della famiglia come società naturale (art. 29 Cost.), il suo inquadramento tra le formazioni sociali ove si svolge la personalità dei singoli e l'adempimento dei doveri di solidarietà sociale (art. 3 Cost.), nonché di quelle del codice civile che impongono il dovere di rispetto dei figli verso i genitori, che diventa concretamente stringente in caso di stato di bisogno ed incapacità del singolo a provvedere al proprio mantenimento ( art 433 c.c.)”, a cui devono aggiungersi “le norme contenute nel codice civile sull'amministrazione di sostegno, dirette ai figli, per l'attivazione di meccanismi giuridici di protezione dei genitori non autonomi”.

Pertanto, in linea di principio, il figlio ha un obbligo giuridico di prendersi cura del genitore anziano, obbligo sanzionato anche penalmente dall’art. 591 c.p.
Sempre la giurisprudenza ha precisato che, “in tema di abbandono di persona incapace, l'elemento materiale è costituito da qualunque azione od omissione contrastante con il dovere giuridico di custodia che grava sul soggetto agente e da cui derivi uno stato di pericolo anche potenziale per l'incolumità dello stesso incapace. Corollario di tale enunciazione è che l'interesse giuridico della norma deve ritenersi violato anche quando l'abbandono sia solo relativo e parziale. In ordine al dolo, l’art. 591 c.p. richiede la consapevolezza di abbandonare a se stesso il soggetto incapace di provvedere alle proprie esigenze, in una situazione di pericolo per la sua integrità fisica; il dolo non è escluso dal fatto che chi ha l'obbligo di custodia ritenga il soggetto in grado di badare a se stesso” (Cass. Pen., Sez. V, sentenza 2149/2014).

Nel caso in esame, anche se risulta che il padre è “abbastanza autosufficiente”, in considerazione della sua età avanzata non può comunque essere abbandonato a se stesso.
Una possibile strada potrebbe essere quella dell’amministrazione di sostegno (spesso, in situazioni familiari conflittuali, il giudice tutelare nomina amministratore di sostegno il sindaco del comune di residenza).
La nomina di un amministratore di sostegno può essere chiesta, infatti, anche dai congiunti dell’interessato; tuttavia la volontà di quest’ultimo è tutt’altro che irrilevante, anzi deve essere tenuta in debita considerazione.

Al riguardo, poiché il padre risulta aver manifestato la propria opposizione a una simile soluzione, la giurisprudenza ha sottolineato come la normativa sull’amministrazione di sostegno sia caratterizzata dalla “precisa direttiva di “non mortificare” la persona, da realizzare evitando o riducendo, quanto più possibile, la limitazione della capacità di agire dell’interessato così da non intaccare la dignità personale del beneficiario (art. 2 Cost.), conservandogli il più possibile la capacità di agire”.
La valutazione va fatta caso per caso dal giudice; per cui, nel caso in cui l’interessato abbia manifestato il proprio rifiuto alla nomina di un amministratore di sostegno, “il difficile equilibrio che il giudice chiamato a risolvere il conflitto dovrà trovare, deve essere guidato dalla necessità di privilegiare il rispetto dell’autodeterminazione dell’interessato, distinguendo il caso in cui la protezione sia già di fatto assicurata in via spontanea dai familiari o dal sistema di deleghe (in precedenza attivato autonomamente dal disabile stesso) da quello in cui la scelta della nomina dell’amministratore di sostegno s’imporrà perché non vi siano supporti e la riluttanza della persona fragile si fondi su un senso di orgoglio ingiustificato, con il rischio di non dare una adeguata tutela ai suoi interessi” (Cass. Civ., Sez. I, sentenza 22602/2017).
Nel nostro caso, anche qualora il giudice dovesse rigettare l’eventuale domanda di amministrazione di sostegno, e comunque in attesa della decisione del giudice, il figlio potrebbe comunque ricercare una persona che si occupi dell’assistenza al padre, sia pure per alcune incombenze e per una parte della giornata (pare infatti che il genitore sia in buone condizioni di salute): chiaramente non la “donna delle pulizie” che ha incombenze diverse.

Alessandro S. chiede
giovedì 05/04/2018 - Lombardia
“Buonasera, ho il seguente problema per cui mia madre, invalida al 100%, riceve aiuto da sua sorella, sposata a una persona molto abbiente, co-intestataria di svariate proprietà, con pensioni alte e dividendi annuali da società. Io ho 36 anni e dopo aver lavorato all'estero son dovuto rientrare per stare vicino, anche moralmente, a mia mamma. Mio padre, nonostante siano separati da vent'anni, le passa 350 euro/mese, io circa 400.
Mia zia passa 12000 euro l'anno, ma a causa di questo sta avendo ogni tipo di pretese nei miei confronti, trattandomi molto sgarbatamente come fossi un figlio disgraziato. Vorrei puntualizzare che i miei 400/mese sono molti per le mie tasche, in quanto corrispondono circa a un quarto di quanto percepisco dalla mia attività, che essendo molto particolare, in Italia sono costretto ad esercitare in maniera freelance.

Avendo qualche risparmio che mi deriva dalla vendita dell'appartamento in cui stavo (una ventina di migliaia di euro scarsi) da parte, ed essendo mia zia a conoscenza di questo, ora vuole una mia dichiarazione scritta in cui mi impegni a conservarlo per le spese future di mia mamma. Gruzzoletto che io vorrei invece mettere come caparra di un piccolo appartamento per non continuare a pagare l'affitto: sarebbe in pratica l'unico modo di assicurarmi un investimento, o per dirla in altro modo, una pensione.
Oltre a questo, vuole un impegno scritto da parte mia a depositare in anticipo 5000 euro per quest'anno, cosa che metterebbe a repentaglio la mia posizione bancaria, in quanto un eventuale mutuo mi vien dato solo sulla base dei miei risparmi attuali, sulla fiducia, e non del mio 740.

So che l'art 443 recita che NELL’ORDINE: il coniuge; i figli legittimi o legittimati o naturali e adottivi e, in loro mancanza, i discendenti prossimi anche naturali; i genitori e, in loro mancanza, gli ascendenti prossimi, anche naturali; gli adottanti; i generi e le nuore; il suocero e la suocera; i fratelli e le sorelle germani o unilaterali, con precedenza dei germani sugli unilaterali.

Ma l'art 441 dice che "Se le persone chiamate in grado anteriore alla prestazione non sono in condizioni di sopportare l'onere in tutto o in parte l'obbligazione stessa è posta in tutto o in parte a carico delle persone chiamate in grado posteriore."

Ci son stati altri episodi in cui mia zia intervenga economicamente, ma in maniera tale da voler sempre come riscontro una piccola (o grande) sofferenza da parte di qualche altro congiunto, ed in questo frangente la mia, che mi vedo anche dover accettare lavori più pagati ma che al contempo non gettano le basi per un futuro di lavoro più stabile.

Detto questo, sarebbe interessante dati guadagni per 16000 euro nella mia ultima dichiarazione dei redditi, e di circa 25000 euro da parte di mio padre, quanto spettasse invece a loro visto che hanno risorse bene o male illimitate, incluse svariate case in Sardegna, mentre paiono voler impedire a me di gettare le basi per un monolocale a B.

Nel momento in cui toccherò l'argomento legale, mia zia, che fa mobbing ed è interessata a mantenere uno stato di guerra fredda nonostante di facciata voglia dimostrare a mia madre di avere un cuore d'oro, probabilmente vorrà ritirare le sue offerte, in tal modo effettivamente rischiando di lasciare mia madre senza cure (fisioterapia), dimostrando quanto poco valga il suo impegno. Vorrei capire come un giudice potrebbe stimare la differenza tra 1000, 400 e 350 euro che noi tre parti versiamo: se la giurisprudenza stimasse che potrei migliorare la mia situazione e quella di mio padre, o perlomeno non peggiorarla, passerei sicuramente alle vie legali in maniera da impedirle di spadroneggiare e mandarmi email di minacce nonostante io stia facendo la mia parte al massimo delle mie possibilità e sacrificando molte opportunità e inficiando in qualche modo il mio futuro.
Grazie e cordiali saluti

Consulenza legale i 11/04/2018
Nel caso in esame, secondo quanto prospettato, deduciamo che Sua madre viva in uno stato di bisogno ma che le somme corrisposte (da Lei, da Suo padre e da Sua zia) non derivino da un provvedimento di un giudice emesso su richiesta dell’avente diritto (cioè Sua madre) ma da uno spontaneo adempimento.
A tal proposito, occorre tenere presente che il primo comma dell’art. 438 c.c. afferma che “Gli alimenti possono essere chiesti solo da chi versa in stato di bisogno e non è in grado di provvedere al proprio mantenimento”. Dunque l’attribuzione degli alimenti non è automatica, ma è l’avente diritto che può scegliere se richiederli o meno.
La non obbligatorietà degli alimenti si evince anche dal tenore dell’art. 445 c.c. il quale prevede che “Gli alimenti sono dovuti dal giorno della domanda giudiziale o dal giorno della costituzione in mora dell'obbligato, quando questa costituzione sia entro sei mesi seguita dalla domanda giudiziale”.
I soggetti tenuti agli alimenti sono elencati, nell’ordine, nell’art. 433 del codice civile ma, come previsto dal secondo comma dell’art. 441 c.c. “Se le persone chiamate in grado anteriore alla prestazione non sono in condizioni di sopportare l'onere in tutto o in parte l'obbligazione stessa è posta in tutto o in parte a carico delle persone chiamate in grado posteriore.”

Riguardo il concetto di “stato di bisogno” quale presupposto del diritto agli alimenti previsto dall’art. 438 c.c. la Cassazione ha specificato che esso “esprime l'impossibilità per il soggetto di provvedere al soddisfacimento dei suoi bisogni primari, quali il vitto, l'abitazione, il vestiario, le cure mediche, e deve essere valutato in relazione alle effettive condizioni dell'alimentando, tenendo conto di tutte le risorse economiche di cui il medesimo disponga, compresi i redditi ricavabili dal godimento di beni immobili in proprietà o in usufrutto, e della loro idoneità a soddisfare le sue necessità primarie” (Cass. n. 25248/2013).

Ciò posto, in risposta alla domanda contenuta nel quesito si osserva quanto segue.
In base all’art. 438 c.c. gli alimenti devono essere assegnati in proporzione del bisogno di chi li domanda e delle condizioni economiche di chi deve somministrarli.
Come ha statuito la Suprema Corte in una sentenza datata ma valida ancora oggi per il principio in essa espresso: “al fine del riconoscimento e della quantificazione del diritto agli alimenti, nonché della ripartizione del relativo onere in presenza di più obbligati, il raffronto fra le rispettive condizioni economiche va effettuato con riferimento alla situazione in atto, e, quindi, deve prescindere da vicende future, quale la probabile riscossione di crediti, le quali potranno avere influenza, al loro verificarsi, per un'eventuale revisione di dette statuizioni, ai sensi dell'art. 440 c.c." (Cass. Pen. n.9432/1994).

Nel caso in esame, in realtà, il primo obbligato è il coniuge.
I 350 euro mensili sono stati determinati nel provvedimento del tribunale di separazione dei coniugi oppure c’è stata solo una mera separazione di fatto e tale cifra è stata autonomamente quantificata dal coniuge?
Solo laddove il coniuge non provveda, subentra allora il figlio.
Nella presente vicenda, la corresponsione -tra padre e figlio – della somma di euro 750 mensili appare già sufficiente a coprire i bisogni essenziali dell’avente diritto (ricordiamo che stiamo parlando di alimenti).
Pertanto, le ulteriori somme di denaro versate dalla sorella di Sua madre -ultima nella graduatoria dei soggetti tenuti agli alimenti- riteniamo non possano nemmeno essere qualificate come alimenti ma come una sorta di atti di liberalità.
Tra l’altro, l’art. 439 c.c. prevede espressamente che tra fratelli e sorelle gli alimenti siano dovuti soltantonella misura dello stretto necessario.
Chiaramente, questo non legittima Sua zia ad avere alcun genere di pretesa né può obbligare Lei ad assumere alcun obbligo scritto.

Ciò premesso, nel momento in cui dovesse essere azionata tutela legale (da parte di Sua madre che, da quello che leggiamo, ha una invalidità fisica ma non una situazione di interdizione o inabilitazione) per ottenere un provvedimento del giudice relativo agli alimenti, possiamo ragionevolmente supporre che il Giudice nel provvedimento disporrebbe gli alimenti a carico del coniuge (sempre che non ci sia già un provvedimento disposto a suo tempo con la separazione legale).
Solo se il coniuge non sia in grado di sopportare l'onere in tutto o in parte l'obbligazione stessa sarebbe posta in tutto o in parte a carico delle persone chiamate in grado posteriore e, quindi, a Suo carico.
Tra l’altro, in quanto invalida al 100%, Sua madre avrebbe diritto anche ad una indennità di accompagnamento.
La sorella di Sua madre, seppur la più agiata economicamente, verrebbe presa in considerazione solo laddove il Giudice ritenesse che la somma versata da Suo padre e da Lei non sia in grado di coprire i bisogni essenziali. Ricordiamo infatti che l’obbligo sorge a carico di chi si trova nel grado più vicino, secondo l’ordine indicato nell’art.433 c.c. e solo nel caso di più persone nello stesso grado, l’obbligazione si divide in proporzione delle loro condizioni economiche.
In ogni caso ribadiamo, come accennato sopra, che il Giudice valuterebbe le condizioni economiche attuali dei soggetti obbligati prescindendo da eventuali potenziali cambiamenti futuri migliorativi o peggiorativi (come pare venga ipotizzato nel quesito). Infatti, in caso di mutamento delle condizioni (sia dell’alimentando che dei soggetti obbligati) rispetto a quando gli alimenti sono stati disposti, "l'autorità giudiziaria provvede per la cessazione, la riduzione o l'aumento", come espressamente previsto dall’art. 440 del codice civile.


Massimo chiede
giovedì 08/09/2016 - Emilia-Romagna
“Buongiorno, avrei un quesito riguardo all’art.433.


Questo il quesito, che potete pubblicare in forma anonima:


Mia madre anziana, è ricoverata in casa di riposo, la pensione è insufficiente a pagare le rette della casa di riposo.
Solo alcuni dei figli contribuiscono a pagare la retta; la madre, a cui è affiancato un amministratore di sostegno, non ha fatto formale richiesta di alimenti, e ha proprietà che lascerà ai figli.

Alcuni dei figli hanno ricevuto donazioni.

Dato che i donatari avrebbero la precedenza sugli altri obbligati,
i versamenti fatti dai donatari per il mantenimento sarebbero conteggiati in futuro, più avanti possibile negli anni, nella successione di mia madre, facendo diminuire il valore delle donazioni effettuate?
Oppure il donatario dovrebbe versare gli alimenti fino all’ammontare della donazione, ai sensi dell art. 438 ultimo comma, e poi paradossalmente portare in collazione tutto il valore della donazione come se non avesse versato gli alimenti ?
C’è un modo chiaro ed inequivocabile per stabilire che quanto dato per pagare le rette venga poi conteggiato al momento della successione e scalato dal valore della donazione ?

Grazie e saluti.”
Consulenza legale i 12/09/2016
Il caso che si propone trova quasi integrale soluzione nella norma di cui all’art. 737 c.c., rubricata “Soggetti tenuti alla collazione
Dalla lettura di tale norma, infatti, si desume che presupposti per il sorgere dell’obbligazione collatizia sono:
1. la qualità di donatario del soggetto tenuto a collazione;
2. la qualità di discendente (legittimo, naturale o adottivo) o di coniuge del de cuius del soggetto tenuto a collazione;
3. la qualità di coerede (legittimo o testamentario) del soggetto tenuto alla collazione;
4. l’assenza di una dispensa da collazione;
5. l’esistenza di un relictum da dividere.

La giurisprudenza maggioritaria sottolinea che è principio consolidato quello secondo cui la collazione, in quanto presuppone una comunione ereditaria, opera solo se vi è relictum da dividere.
Pertanto, qualora il defunto abbia esaurito l’asse ereditario con donazioni, legati o altri atti di natura dispositiva, in modo tale che risulti mancante un relictum, non si può dar luogo a divisione e pertanto neppure a collazione, salvo l’esito dell’eventuale azione di riduzione (così Cass. Civ. 9 luglio 1975, n. 2704; Cass. Civ. 17 novembre 1979, n. 5982; Trib. Pavia, 20 gennaio 1989, in Nuova giurisp. Civ. comm., 1998, I, 915; In dottrina: Azzariti “La collazione”, in Trattato di diritto privato, Vol. VI, Torino, 1982, 387, U. Carnevali op. cit. 473; Gazzoni, “Manuale di diritto privato”, Napoli, 2006, 530).
Ciò che conta, dunque, è che il donatario sia posto in condizione di partecipare alla divisione dell’asse ereditario, tanto è vero che il medesimo donatario, qualora reputi conveniente ritenere la donazione (ad esempio, se il valore del bene donato sia superiore alla quota di eredità), può semplicemente rinunziare all’eredità sottraendosi in tal modo alla collazione, salva, naturalmente, un’ eventuale azione di riduzione nei suoi confronti da parte del legittimario leso dalla donazione.

Poiché nel caso che si propone è detto che solo alcuni dei figli contribuiscono ad integrare la retta per il ricovero della madre nella casa di riposo e considerato che la medesima madre ha delle proprietà di cui poter disporre mortis causa, sarebbe opportuno, onde evitare il sorgere della comunione ereditaria con conseguente obbligo di collazione per i coeredi donatari, chiedere al Giudice tutelare, con ricorso di volontaria giurisdizione a firma dell’amministratore di sostegno, l’autorizzazione alla stipula di un contratto di cessione onerosa, per effetto del quale la madre trasferirà ai figli che concorrono al suo mantenimento i beni di cui è proprietaria in cambio dell’assunzione da parte degli stessi dell’obbligo di mantenimento presso la casa di cura per una quota che potrà anche formare oggetto di espressa pattuizione.

Nell’ipotesi in cui, poi, i figli che non siano stati beneficiari di alcuna donazione, lamentino una lesione della loro quota di riserva e decidano di agire in riduzione, i donatari potranno legittimamente opporre di aver contributo alle spese di mantenimento della madre presso la casa di riposo, alle quali si ricordi tutti i soggetti di cui all’art. 433 c.c. sono obbligati in solido in virtù di una obbligazione legale.

Altra soluzione si rinviene sempre nello stesso articolo 737 codice civile, nella parte in cui è previsto che i donatari sono obbligati alla collazione “salvo che il defunto non li abbia da ciò dispensati.
Dispone tuttavia il secondo comma di tale norma che “La dispensa da collazione non produce effetto se non nei limiti della quota disponibile”.
Si ritiene che la dispensa dalla collazione comporti un rafforzamento dell’attribuzione patrimoniale disposta a favore del donatario, fino al limite invalicabile costituito dalla intangibilità della quota di riserva spettante ai legittimari (così Cass. 29 luglio 1961, n. 1845).
Per quanto concerne la sua natura giuridica, è prevalente sia in dottrina che in giurisprudenza la tesi secondo cui la dispensa costituisce una liberalità, più precisamente una liberalità supplementare rispetto alla donazione principale cui si riferisce.

Dal punto di vista dei rapporti tra contratto di donazione e dispensa in esso contenuta, talvolta quest’ultima viene configurata quale clausola accessoria apposta al negozio di liberalità, altre volte quale mera modalità della donazione stessa, altre volte ancora quale elemento accidentale apposto al contratto.
Oltre a poter essere contenuta in un testamento, può essere non solo contestuale, ma anche successiva alla donazione.
In quest’ultimo caso non vi è uniformità di opinioni per ciò che riguarda la forma di cui tale dispensa deve essere rivestita, fermo rimanendo che, qualora contenuta in un testamento, essa sarà comunque soggetta al particolare formalismo previsto dal legislatore per tale tipo negoziale.

E’ evidente che per coloro che aderiscono alla tesi della dispensa quale liberalità supplementare, sarà sempre necessaria la forma richiesta per l’atto di donazione (atto pubblico), mentre per i sostenitori della tesi dell’autonomia della dispensa dalla collazione essa, se contenuta in un atto inter vivos successivo alla donazione, sarà soggetta al principio di libertà della forma, non costituendo, infatti la dispensa in oggetto, una liberalità tipica.

Potrebbe anche ipotizzarsi di limitare la dispensa in misura pari al valore di quanto prestato dai donatari al donante per spese di mantenimento nella casa di cura, e ciò per l’ipotesi in cui il valore delle donazioni ricevute possa essere superiore al valore di quanto prestato a tale titolo.

Si ritiene infine opportuno evidenziare che l’obbligo di prestare gli alimenti, ove per alimenti deve intendersi tutto ciò che si rende necessario per il vivere dignitoso di una persona, nasce ex lege in capo ai soggetti di cui all’art. 433 c.c., assumendo pertanto natura di obbligo legale.

Inoltre, è pur vero che ex art. 437 c.c. il donatario è tenuto a prestare gli alimenti al donante con precedenza su ogni altro obbligato e che ex art. 438 c.c. il donatario deve adempiere tale sua obbligazione legale entro i limiti del valore della donazione tuttora esistente nel suo patrimonio, ma è anche vero che una volta raggiunto tale limite, l’obbligazione alimentare assume natura solidale tra tutti i soggetti coobbligati, con la conseguenza che il soggetto e/o i soggetti adempienti avranno diritto di agire in regresso nei confronti degli inadempienti.


Anonimo chiede
domenica 07/08/2016 - Piemonte
“Buongiorno, avrei bisogno gentilmente di alcuni chiarimenti relativi all'art. 433 e seguenti del codice civile e un parere legale riguardo la seguente situazione.
Mia mamma si è presa cura per diversi anni di mia nonna finché, non abitando nella stessa città e mia nonna avendo bisogno di assistenza 24 ore al giorno, ha dovuto assumere due badanti che insieme a mia mamma seguivano mia nonna a casa.
Mia nonna prende 400 euro di pensione e solo ora le è stato concesso l'accompagnamento per altri 400 euro. Comunque le due badanti messe in regola costavano 1000 euro ciascuna, quindi sostanzialmente una buona parte della spesa è stata sostenuta da mia mamma.
Purtroppo poi mia mamma si è ammalata e si è deciso di portare mia nonna in una casa di riposo nella nostra città, così da essere più vicini. La casa di riposo costa 1800 euro al mese, quindi sostanzialmente anche di questo importo mia mamma paga più della metà di tasca propria.
In tutto ciò, mia mamma ha un fratello che non si è mai occupato di mia nonna non solo personalmente ma anche economicamente. Mia mamma lo ha sempre informato sia di quando ha assunto le badanti che quando l'abbiamo portata in casa di riposo e gli ha chiesto di contribuire al costo ma mio zio ha sempre fatto finta di nulla.
Ora, mia nonna, proprietaria di una casa e di un pezzo di terra, ha scritto testamento lasciando la casa a mia mamma e la terra a mio zio.
Premesso che non sono state fatte valutazioni, probabilmente il valore della casa è il doppio di quello della terra. Vorrei chiedervi se, nel momento in cui mia nonna mancherà, in fase di successione e apertura del testamento mia mamma potrà presentare il conto a mio zio per le cure a mia nonna e scalare la parte che gli spetta dalla sua parte di eredità?
La mia paura è che lui chieda di scalare questo importo dalla totalità dell'eredità, io invece vorrei essere certa che il testamento venga poi rispettato e che lui paghi la sua parte di tasca sua o con la sua parte di eredità.
Grazie e saluti


Consulenza legale i 09/08/2016
L'anziana madre potrebbe anche pensare di disporre dei suoi beni ancora in vita, mediante donazione, per essere certa di vedere realizzato il suo intento.

Preme sottolineare, peraltro, come la donazione dell’immobile effettuata in vita sia comunque poi soggetta a collazione, a mente dell’art. 737 c.c.

Lo stesso dicasi per il lascito testamentario: qualora il lascito fatto in favore della figlia leda la quota di legittima spettante al figlio, egli ben potrà impugnare il testamento e chiedere giudizialmente la parte di eredità spettantegli in qualità di legittimario.

Va in ogni caso precisato che nel caso di successione di due figli, la quota riservata per legge a ciascuno dei due è 1/3 del tutto. L'anziana madre potrebbe, quindi. del tutto legittimamente, donare o lasciare per testamento alla figlia 2/3 del suo intero patrimonio. Andrebbero fatti dei conti precisi per capire se il valore del terreno è pari circa ad 1/3 del totale valore del patrimonio della signora.


Ciò che potrebbe essere fatto al momento (anche se ormai tardi, in quanto non ha effetto retroattivo e quindi non consentirebbe di recuperare le spese già sostenute dalla mamma) è una richiesta di alimenti, che avrebbe il vantaggio di far condividere il peso economico del sostentamento della madre con il fratello.
Tale richiesta andrebbe però effettuata dalla diretta interessata (qualora sia in grado di intendere e volere), in caso contrario (e con allungamento di tempi) occorrerebbe richiedere al giudice tutelare la nomina di un amministratore di sostegno, il quale potrebbe poi occuparsi della pratica.
Gli alimenti, ai sensi dell’art. 438 c.c., hanno però una misura ben precisa: “devono essere assegnati in proporzione al bisogno di chi li domanda e delle condizioni economiche di chi deve somministrarli. Non devono tuttavia superare quanto sia necessario per la vita dell’alimentando”.
Con ciò si intende sottolineare come – forse – lo zio sia sempre stato piuttosto tranquillo, posto che le due badanti potrebbero apparire quantomeno eccessive e in ogni caso non coperte dalla misura degli alimenti. In sostanza, per quanto possa apparire 'ingiusto', dal punto di vista prettamente legale, nulla può essergli mosso a rimprovero: la richiesta di alimenti andava effettuata fin da subito, e tutto ciò che si può fare adesso è costringerlo a concorrere (da ora) al sostentamento della madre, sempre che – naturalmente – ricorrano i presupposti legali degli alimenti (stato di bisogno dell’alimentando, condizioni economiche degli obbligati).

Ciò che deve essere chiaro è che ne la madre ne la sorella potranno mai chiedere al figlio/fratello la restituzione della metà dei soldi spesi fino ad oggi dalla sorella per il sostentamento della madre stessa. Neppure, tali denari, potranno essere "messi in conto" allo zio sulla eredità che gli spetta da parte della madre, legittimando in questo modo una eventuale lesione della legittima.

Si ripete che il miglior modo di risolvere concretamente la questione è quello di far subito donare dall'anziana madre alla figlia (meglio subito che con testamento) i 2/3 del suo patrimonio. Lasciando così per il figlio solamente l'1/3 che gli spetta per legge e che in ogni caso non potrebbe essergli sottratto, nonostante il comportamento moralmente condannabile tenuto nei confronti dell'anziana madre. La figlia, beneficiando dei 2/3 dell'intera eredità, potrà in questo modo - concretamente - rientrare, almeno in parte, delle spese sostenute negli anni a vantaggio della madre. Va visto però se casa e terreno corrispondono circa a dette frazioni. Se non dovessero corrispondere ci sono comunque altri modi per risolvere.






Salvatore C. chiede
venerdì 08/04/2016 - Toscana
“salve, avrei bisogno di un parere, sono un dipendente comunale e percepisco uno stipendio di 1.400,00 euro mensili, ho una sorella che per sua scelta in quanto non ha voluto studiare ne lavorare, ora versa in stato di bisogno e mi chiede gli alimenti per se e per il figlio (non è sposata ed il padre ha disconosciuto il figlio); premesso che pago un affitto di 800,00 euro ed ho la cessione del quinto dello stipendio, mia moglie non lavora, ed io sono malato, quindi ricapitolando detratti 800 euro + 200 cessione mi rimangono circa 370. 400 euro.
Sono obbligato agli alimenti da versare a mia sorella in base alla legge?”
Consulenza legale i 14/04/2016
Gli alimenti, com’è noto, consistono in un’obbligazione posta dalla legge a favore di chi versa in stato di bisogno ed a carico di un determinato gruppo di soggetti appartenenti alla cerchia dei parenti o dei familiari latamente intesi.

Essi possono essere richiesti, appunto, da colui che si trova in uno stato di bisogno e non è in grado di provvedere al proprio mantenimento (art. 438 c.c.). “Stato di bisogno”, in particolare, secondo la definizione offerta dalle pronunce dei giudici, è quello di chi manca di ogni risorsa o dispone di mezzi insufficienti a soddisfare le sue necessità primarie ed a garantirgli un’esistenza dignitosa, tenendo conto di tutte le risorse economiche di cui il medesimo disponga, compresi i redditi ricavabili dal godimento di beni immobili in proprietà o in usufrutto (Cassazione civile, sez. II, 08/11/2013, n. 2524).

Purtroppo la legge non pone dei limiti che consentano al soggetto tenuto agli alimenti, qualora egli si trovi al di sotto di una determinata soglia reddituale/patrimoniale, di essere esonerato dall’obbligo in questione: pertanto, anche chi goda di modeste fonti di reddito, non può esimersi dal prestare gli alimenti.

Sia il legislatore, tuttavia, che la giurisprudenza hanno tenuto conto della posizione, non facile, dell’obbligato, stabilendo tutta una serie di regole e fornendo un’interpretazione delle norme in materia che vanno anche a beneficio di chi si trova costretto alla prestazione in commento.

In primo luogo gli alimenti devono essere assegnati non solamente in proporzione al bisogno di chi li domanda ma altresì delle condizioni economiche di chi deve somministrarli, secondo i principi che seguono.
Va data la prova non solo dello stato di bisogno ma altresì dell’impossibilità dell'alimentando di provvedere in tutto o in parte al proprio sostentamento, mediante la prestazione di un’attività lavorativa (e l’eventuale invalidità al lavoro – specifica la Corte di Cassazione - dev’essere motivata da incapacità fisica o impossibilità, per circostanze intrinseche non imputabili al richiedente gli alimenti, di trovarsi un'occupazione confacente alle sue abitudini di vita ed alle sue condizioni sociali); si noti bene che lo stato di bisogno può anche essere “colpevole” (nel senso che l’alimentando può essersi trovato nella situazione che gli attribuisce il diritto agli alimenti anche per sua esclusiva colpa, ma ciò purtroppo non è sufficiente ad escludere l’obbligo di legge), tuttavia si richiede che l’alimentando si attivi per essere in grado di mantenersi e, nonostante questo, sia incapace di rimuovere la situazione.

All’obbligato, al contrario, non si richiedono alcuno sforzo o attività particolari, anzi, egli è tenuto solo nei limiti delle proprie condizioni patrimoniali e reddituali, senza eccessivo disagio e dopo aver soddisfatto in precedenza i propri bisogni; nel caso specifico di alimenti dovuti tra fratelli e sorelle, poi, la legge (art. 439 c.c.) stabilisce che questi devono limitarsi allo “stretto necessario”, cioè a soddisfare i bisogni primari comuni a tutti gli individui (vitto, alloggio, vestiario, cure mediche e simili) ed eventualmente, se l’alimentando è un minore, anche alle spese per l’educazione e l’istruzione.

Se successivamente all’assegnazione degli alimenti mutano le condizioni economiche di una delle due parti, queste ultime possono rivolgersi all’autorità giudiziaria per ottenere la cessazione, riduzione o aumento dell’obbligo alimentare. Va detto che, in realtà, non è obbligatorio rivolgersi al Giudice e che le parti possono legittimamente trovare un accordo tra di loro: l’autorità giudiziaria interverrà solamente nel caso di disaccordo, su iniziativa di una delle due. La riduzione è possibile anche nel caso di condotta “disordinata e riprovevole” dell’alimentando, ovvero quando quest’ultimo non utilizzi i mezzi di sussistenza ricevuti in conformità alla loro effettiva destinazione (non così, invece, nel caso di condotta immorale).

E’, ancora, opportuno tenere presente che, sempre a beneficio dell’obbligato, quest’ultimo ha la possibilità di scegliere in che modo soddisfare l’obbligo alimentare: può, infatti, corrispondere all’alimentando un assegno, oppure accogliere e mantenere quest’ultimo in casa propria (e ancora, scelta una delle due modalità di legge – che non sono tassative ma solo esemplificative - può anche variarla in seguito). La scelta non è insindacabile – nel senso che, se richiesto, il Giudice può stabilire diversamente – ma ciò che rileva è che l’alimentando non può che accettare la scelta dell’obbligato (salvo che sia del tutto inidonea a soddisfare i suoi bisogni o sia per lui particolarmente gravosa).

E’ bene ricordare che l’obbligo degli alimenti non ha natura esclusivamente civile ma altresì penale: chi, infatti, vi si sottrae intenzionalmente, commette il reato di cui all’art. 570 del codice penale - “Violazione degli obblighi di assistenza familiare” – ed è tenuto altresì al risarcimento del danno.

Da ultimo si osserva come, nel caso di specie, nonostante la richiesta dell’alimentanda di ricevere gli alimenti non solo per sé ma anche per il figlio, l’obbligo del fratello sussiste in realtà solamente nei confronti della sorella e non anche del nipote. Infatti, l’elenco dei soggetti tenuti agli alimenti contenuto nell’art. 433 c.c. – tra cui, al punto 6, i fratelli e le sorelle germani ed unilaterali - è tassativo ed immodificabile.

ANONIMO chiede
martedì 23/02/2016 - Veneto
“Buongiorno,
vorrei chiedere un chiarimento sull’articolo 433.
Mia nonna materna è deceduta OMISSIS. La nonna aveva due figlie: mia madre, deceduta OMISSIS, e una figlia vivente. Come nipoti ci siamo io e mia cugina (figlia della figlia vivente).
La nonna, vedova, viveva nella casa, ereditata dal marito, di cui aveva il diritto all’abitazione e di cui possedeva 1/3. Mia zia possedeva 1/3 e io l’altro 1/3 ereditato da mia madre.
Ora che la nonna è morta quindi io e la zia siamo comproprietari ciascuno del 50% della casa in cui viveva la nonna. In virtù di questo, la zia (che era anche amministratore di sostegno della nonna) mi chiede verbalmente di versarle il 50% delle spese che ha sostenuto negli ultimi mesi di vita della nonna. Spese che riferisce non fossero più coperte dalle risorse economiche della nonna (risparmi + pensione di reversibilità + accompagnatoria) e per le quali la zia dice di aver utilizzato circa OMISSIS euro propri. Le spese a grandi linee riguardano OMISSIS di pagamento del tfr della badante della nonna, OMISSIS di spese funerarie e per il rifacimento della lapide della nonna insieme al nonno, OMISSIS di lavori di muratura sui terrazzi della casa in cui abitava e circa OMISSIS di bollette varie di acqua, telefono, elettricità ecc. pervenute negli ultimi mesi.
Chiedo quindi:
- avendo la zia una situazione economica a mio parere migliore della mia, può chiedere ugualmente il mio intervento?
- se la zia comunque dimostrasse di non avere sufficienti risorse economiche, l’obbligo ricadrebbe solo su di me o anche su mia cugina? E in che misura?
- ammesso che spese funebri e lavori di muratura immagino mi spettino per altre leggi, ma il tfr della badante e le utenze domestiche compreso il telefono, rientrano negli obblighi alimentari?
- ma soprattutto, queste richieste possono essere fatte dopo la morte dell’interessata (pur essendo mia zia amministratore di sostegno) o no?
Ringrazio anticipatamente e porgo cordiali saluti.”
Consulenza legale i 02/03/2016
Con riferimento al quesito sottoposto all'attenzione della nostra redazione giuridica, si rileva quanto segue.
Ai sensi dell'art. 459 del c.c. "l'eredità si acquista con l'accettazione. L'effetto dell'accettazione risale al momento nel quale si è aperta la successione".
La conseguenza dell'accettazione dell'eredità da parte dei chiamati alla eredità è che l'erede si sostituisce al defunto in tutti i suoi rapporti attivi e passivi.
Nel caso di specie, poiché sembra essere pacifico che sia il nipote, sia la zia, abbiano accettato l'eredità del defunto, entrambi concorrono, per una quota pari al 50% ognuno, ai debiti ereditari.
Ciò premesso, vediamo ora nel dettaglio le singole voci di spesa.
a) quanto a Euro OMISSIS a titolo di TFR per la badante, costituendo certamente un debito del de cuius al momento dell'apertura della successione, occorre che sia ripartito tra gli eredi che hanno accettato l'eredità in proporzione alla rispettiva quota, e ciò ai sensi dell'art. 752 del c.c. (quindi 50% a carico della zia, 50% a carico del nipote).
I chiamati alla eredità non risponderebbero di tali debiti solo nel caso in cui avessero rinunciato espressamente all'eredità (cosa che non sembra proprio essere accaduta nel caso di specie); in proposito si veda, a titolo meramente esemplificativo, Tribunale Bolzano, Sez. Lav., 27 aprile 2007: "Un soggetto che abbia lavorato in qualità di domestica e badante alle dipendenze della "de cuius", che intenda rivendicare spettanze retributive verso gli eredi, ha l’onere di dimostrare l’esistenza di un rapporto lavorativo. Spetta cioè su chi agisce in giudizio, fornire la prova del fatto costitutivo del proprio diritto, rappresentato dalla ricorrenza del debito e dall’accettazione dell’eredità";
b) quanto a Euro OMISSIS a titolo di spese funebri, costituendo anche questo senza dubbio un peso ereditario, occorre che sia parimenti ripartito tra gli eredi che hanno accettato l'eredità in proporzione alla propria quota; pertanto, la zia ha diritto alla restituzione della metà delle spese sostenute, salvo che il nipote non si fosse opposto esplicitamente a spese eccessivamente onerose (cosa che non sembra essersi verificata, l'importo indicato sembra, infatti, del tutto congruo); in proposito si veda, a titolo meramente esemplificativo, Cassazione Civile, Sez. II, 3 gennaio 2002, n. 28: "Le spese per le onoranze funebri sono da comprendere tra i pesi ereditari, cioè tra quegli oneri che sorgono in conseguenza dell'apertura della successione e, pur dovendo essere distinti dai debiti ereditari - ossia dai debiti esistenti in capo al "de cuius" e che si trasmettono, con il patrimonio del medesimo, a coloro che gli succedono per legge o per testamento - gravano sugli eredi per effetto dell'acquisto dell'eredità, concorrendo a costituire il passivo ereditario, che è composto sia dai debiti del defunto sia dai debiti dell'eredità; ne consegue che colui che ha anticipato tali spese ha diritto di ottenere il rimborso dagli eredi, sempre che non si tratti di spese eccessive sostenute contro la volontà espressa dai medesimi";
c) quanto a Euro OMISSIS per le bollette del defunto degli ultimi mesi, si ritiene che possa essere un spesa riconducibile all'ipotesi di cui all'art. 433, n. 2 del c.c., pertanto tale spesa rimarrebbe in capo alla zia (figlia del defunto); infatti, la corresponsione degli alimenti è dovuta in favore di coloro che si trovino in stato di bisogno, che non abbiano alcuna risorsa o dispongano di mezzi insufficienti al soddisfacimento delle sue necessità primarie; il codice civile non specifica esattamente in cosa debbano consistere gli alimenti, ma dottrina e giurisprudenza sono arrivati ad enucleare due categorie: si ritengono dovuti sia gli alimenti c.d. naturalia (vitto, abitazione, vestiario, cure), sia quelli c.d. civilia, cioè connessi ai bisogni sociali e morali della persona, variabili in relazione alla personalità del soggetto; le utenze certamente potrebbero rientrare nell'obbligazione alimentare della prima specie, in quanto fornitrici di servizi essenziali (acqua, luce, gas) per le esigenze primarie della persona;
d) quanto a Euro OMISSIS per i lavori del terrazzo, si ritiene che laddove gli stessi fossero stati necessari per la sicurezza e la stabilità dell'abitazione del defunto (in sostanza non fossero procrastinabili) - e pertanto la zia li avrebbe sostenuti per intervenire tempestivamente - il nipote dovrebbe contribuire in proporzione alla propria quota (50%), considerando la spesa sostenuta come imputabile ai debiti del de cuius (salvo che lo stesso si fosse opposto in maniera espressa alla spesa non ritenendola congrua per l'intervento da effettuare); in caso contrario, laddove tale intervento non fosse stato necessario, e pertanto la decisione relativa alla realizzazione dei lavori fosse stata presa in autonomia dalla zia, si ritiene che il nipote non debba contribuire.
Si rimane a disposizione per ogni ulteriore chiarimento.

Antonio E. chiede
venerdì 22/01/2016 - Lazio
“Un ragazzo di 38 anni, orfano di madre e padre. E' senza reddito e la sua matrigna (2° moglie del padre) percepisce la pensione di reversibilità del defunto ammontante ad € 850,00 mensili. Non spetta nulla al figliastro senza casa e senza reddito?”
Consulenza legale i 01/02/2016
Per il soggetto che versa in stato di bisogno la legge contempla l'istituto degli alimenti. Presupposti affinché sorga il diritto agli alimenti sono lo stato di bisogno (cioè la mancanza o la limitatezza delle risorse necessarie a soddisfare esigenze primarie) ed il fatto che il soggetto non sia in grado di provvedere al proprio mantenimento (art. 438 co. 1 c.c.).

Essi vanno corrisposti in proporzione ai bisogni dell'alimentando, senza che possano superare quanto necessario per la sua vita, ma avuto riguardo anche alla sua posizione sociale (art. 438 co. 2, 3 c.c.). Nella loro determinazione si devono però considerare anche le condizioni economiche di chi è tenuto a versarli (art. 438 co. 2 c.c.).

Il codice individua anche i soggetti che vi sono obbligati, rispetto ai quali detto obbligo si spiega o con l'esistenza di un vincolo familiare, che crea un dovere reciproco di assistenza e solidarietà (art. 433 c.c.) ovvero perché vi è stata una donazione, la quale fa presumere un dovere di gratitudine nel donatario (art. 437 del c.c.; in tal caso, infatti, gli alimenti sono dovuti nei limiti della donazione, art. 438 co. 4 c.c.).
La nozione di "vincolo familiare" va intesa in senso lato, cioè non va circoscritta alla sola famiglia nucleare perché il codice ne adotta un concetto ampio. Dispone infatti l'art. 433 c.c. che sono obbligati agli alimenti, nell'ordine:
"1) il coniuge;
2) i figli, anche adottivi e, in loro mancanza, i discendenti prossimi;
3) i genitori e, in loro mancanza, gli ascendenti prossimi; gli adottanti;
4) i generi e le nuore;
5) il suocero e la suocera;
6) i fratelli e le sorelle germani o unilaterali con precedenza dei germani sugli unilaterali
".

Tuttavia, come si evince, il codice non contempla tra gli obbligati di cui all'art. 433 c.c. anche il coniuge del genitore (a meno che non abbia adottato il figlio). Poiché questi non è ascendente, non può annoverarsi tra i soggetti sui quali il dovere sussiste ai sensi del citato n. 3. Questa conclusione sembra avallata anche dalla stesa ratio sottesa al dovere degli alimenti che grava sui famigliari, dovere che si basa sulla affectio che si crea nella famiglia e che invece, di regola, non accompagna il rapporto con i nuovi coniugi dei genitori.

La pensione che si indica percepita dalla matrigna si presume essere di totale spettanza della medesima, quindi in tal senso nulla spetterebbe al figliastro.
In relazione alla reversibilità, se il figlio fosse stato inabile al lavoro al decesso del padre e a suo carico, ai sensi di quanto prevede la legge, egli potrebbe aver diritto ad una reversibilità autonoma. In tal caso dovrebbe rivolgersi agli enti previdenziali per verificare la effettiva ricorrenza dei presupposti.

Giuseppina S. chiede
martedì 30/06/2015 - Piemonte
“Buongiorno. Una mia cugina, figlia del fratello di mio padre, ha sposato un divorziato con un figlio. Il marito qualche anno fa è deceduto. Dal matrimonio non sono nati figli.Quali doveri abbiamo nei suoi confronti io e il figlio del marito ( a sua volta con moglie e due figli maggiorenni)? La persona di cui parlo manifesta ultimamente vuoti preoccupanti di memoria, per cui è stato diagnosticato un inizio di Alzheimer. Io e la famiglia del figlio stiamo collaborando, ma siamo abbastanza disorientati. Non ha attualmente problemi economici , ma non accetta la presenza di una persona che l'accudisca.
Ringrazio per i chiarimenti che potrete darci.”
Consulenza legale i 06/07/2015
La donna descritta nel quesito potrebbe avere bisogno di un amministratore di sostegno o di un tutore, viste le sue crescenti difficoltà nel gestire la vita quotidiana.
I suoi parenti e il figlio del marito non hanno specifici obblighi, tuttavia, visto che la solidarietà tra familiari è un valore da preservare, essi potrebbero attivarsi per far nominare un rappresentante legale della donna, magari proponendosi in prima persona per l'incarico.

In particolare, il tutore è il soggetto preposto alla tutela di persone che, in quanto minori o interdetti, non sono in grado di curare personalmente i propri interessi e rispetto alle quali assume il ruolo di legale rappresentante dell'incapace, con poteri di rappresentanza e di gestione del patrimonio (art. 357 del c.c.).
L'interdizione va richiesta nei casi più gravi, quando la persona, a causa di una condizione di abituale infermità mentale, è totalmente incapace di agire o di provvedere ai propri interessi.

L'amministratore di sostegno è una figura prevista per casi meno gravi, in quanto può essere richiesta a beneficio di una persona che per effetto di un'infermità ovvero di una menomazione fisica o psichica si trovi nell'impossibilità anche parziale di provvedere ai propri interessi. Va dato atto del fatto che, sebbene la norma dell'art. 404 del c.c. possa far pensare che basti un semplice impedimento fisico per poter dare luogo alla nomina di un amministratore di sostegno, deve invece essere presente una certa limitazione della capacità decisionale del soggetto. La nomina dell'amministratore di sostegno viene disposta dal giudice tutelare con decreto motivato, immediatamente esecutivo, il cui contenuto verrà determinato tenendo conto della particolarità della situazione concreta. Il provvedimento individuerà la persona dell'amministratore di sostegno e del beneficiario e conterrà le determinazioni in ordine alla durata, ai limiti e all'oggetto dell'incarico.

Entrambi i procedimenti possono essere promossi dallo stesso soggetto beneficiario oppure dal coniuge, dalla persona stabilmente convivente, dai parenti entro il quarto grado, dagli affini entro il secondo grado, dal tutore o curatore ovvero dal pubblico ministero.
La cugina è parente di quarto grado mentre il figlio del coniuge è affine di primo grado.
La disciplina dell'interdizione è contenuta negli artt. 414-432; quella dell'amministrazione di sostegno negli artt. 404-413 c.c.

Quanto all'eventuale obbligazione alimentare a favore della donna, nessuno dei soggetti (cugina e figlio del marito) risulta obbligato per legge. Difatti, i soggetti obbligati sono il coniuge (qui deceduto), i figli (qui non presenti), i genitori (che si presume siano defunti), i generi e le nuore (non ci sono), il suocero e la suocera (se in vita) e i fratelli e le sorelle (se esistenti).

Valentina C. chiede
domenica 19/04/2015 - Emilia-Romagna
“Buongiorno,
vorrei un chiarimento circa il punto 2 dell'art. 433 del codice civile: nel caso in cui uno dei figli sia morto, il suo obbligo economico nei confronti del genitore si estingue (sarà quindi compito degli altri fratelli sostenere i genitori) o gli eredi del deceduto devono intervenire al suo posto?

In termini pratici il caso è il seguente:
Io sono una studentessa di 27 anni, orfana di padre, e convivo con il mio compagno che mi aiuta economicamente.
Mia nonna, vedova novantenne, da qualche mese ha deciso autonomamente di farsi aiutare da una badante ma le spese ora superano le entrate e tra poco bisognerà intervenire economicamente per aiutarla.
Mio padre è deceduto ma mio zio (fratello bilaterale di mio padre) è presente e vive vicino alla nonna con la sua famiglia. Mi è stato spiegato da mia zia che, quando arriverà il momento, anche io e mia madre dovremo partecipare alla sussistenza della nonna in quanto, a suo dire, devono contribuire per legge "i figli o chi per loro".
La casa dove vive la nonna (usufruttuaria) è attualmente intestata allo zio (1/4), alla zia (1/4), a mia mamma (3/8) e a me (1/8), e secondo mia zia gli alimenti andranno versati in base a queste percentuali ma non ho trovato alcun riscontro di ciò nel codice civile.
Ringraziandovi per l'aiuto, porgo gentili saluti”
Consulenza legale i 21/04/2015
L'art. 433, al n. 2, stabilisce che sono tenuti a prestare gli alimenti i figli, anche adottivi, e, in loro mancanza, i discendenti prossimi. La "mancanza" dei figli significa che gli stessi non sono più in vita o non possono prestare gli alimenti per altri motivi. Di conseguenza, nel caso di specie, la nipote (figlia del figlio) dell'anziana signora è in effetti una potenziale obbligata alla prestazione degli alimenti, nel caso in cui lo zio non sia in grado di prestarli.

Quanto alla nuora dell'anziana (la moglie del figlio premorto), anch'essa risulta astrattamente obbligata alla prestazione alimentare, ai sensi del n. 4 dell'art. 433. La morte di suo marito non la esime da tale dovere, in quanto è ancora in vita la figlia avuta con il coniuge (v. in tal senso l'art. 434 del c.c.).

Per quanto riguarda la suddivisione dell'obbligo alimentare, non risulta alcuna precisa prescrizione di legge.
Tale aspetto viene lasciato in primis alle parti, che mediante accordo possono stabilire in che percentuale contribuire ai bisogni dell'alimentando; oppure affidato al giudice, in caso di disaccordo tra gli obbligati.

Precisamente, va chiarito che l'obbligo alimentare sorge esclusivamente in base ad un provvedimento dell'autorità giudiziaria: quanto dato spontaneamente dai parenti prima dell'emissione di un tale ordine giudiziale ha carattere volontario, quindi può essere conferito nella misura che le parti concordemente preferiscono (ad esempio, nel nostro caso, seguendo le quote di proprietà dell'immobile dove risiede la signora anziana).

Se, invece, la persona che si trova in stato di bisogno chiede gli alimenti ad un giudice, si seguono regole diverse.
Innanzitutto, l'alimentando proporrà la sua richiesta ai soggetti indicati dall'art. 433, nell'ordine previsto: quindi, nel caso di specie, prima di tutto chiederà al figlio ancora in vita e alla nipote, se il primo non è in grado di assolvere l'onere da solo; solo se le persone chiamate in grado anteriore non sono in condizione di sopportare l'onere in tutto o in parte, l'obbligazione verrà posta anche in carico alle persone chiamate in grado posteriore, nel nostro caso le due nuore (art. 441, secondo comma, c.c.).

Se, poi, tutti i chiamati effettivi non trovano un accordo per la suddivisione tra loro della prestazione alimentare, provvederà l'autorità giudiziaria (terzo comma dell'art. 441), la quale terrà conto delle rispettive situazioni patrimoniali.

Renata B. chiede
sabato 13/12/2014 - Friuli-Venezia
“Buongiorno,
vorrei avere una risposta in merito a "persone obbligate a versare gli alimenti".
Ho uno zio di 81 anni residente in una casa di riposo privata, mai coniugato e i cui unici parenti sono due sorelle (germani) e i loro rispettivi figli. L'unica fonte di reddito di mio zio è una pensione minima INPS di 620,00 Euro mensili. Finora è riuscito a pagarsi da solo
la retta mensile (1420,00 Euro al mese) aggiungendo alla pensione il ricavato della vendita di un piccolo appartamento di proprietà.
Purtroppo fra 2 mesi questi soldi saranno esauriti per cui chiedo:
il pagamento della retta della casa di riposo va considerato come "alimenti " per il sostentamento di mio zio?
In caso affermativo a chi spettano e quale è la procedura per ottenerli?
Preciso che mio zio non può essere assistito in famiglia poiché ha avuto due ictus (purtroppo non gli è stata riconosciuta la pensione di invalidità) ma nella struttura in cui si trova riceve tutte le prestazioni assistenziali occorrenti.
Preciso inoltre che solo una delle due sorelle (mia madre) che ha una pensione minima è disposta ad aiutarlo per una quota del 50% della
differenza retta (400,00 Euro) mentre l'altra sorella, pur avendo anch'essa la pensione minima INPS ma notevole liquidità bancaria, si rifiuta categoricamente.
Attendo fiduciosa una risposta a tale quesito e porgo cordiali saluti”
Consulenza legale i 23/12/2014
Il diritto agli alimenti previsto dagli artt. 433 ss. c.c. presuppone uno stato di bisogno della persona in difficoltà ed è limitato al necessario per la vita dell'alimentando (in ciò gli alimenti si differenziano dal mantenimento). Si trova in stato di bisogno chi manca di ogni risorsa o dispone di mezzi insufficienti al soddisfacimento delle sue necessità primarie.

Il codice civile non specifica esattamente in cosa debbano consistere gli alimenti, ma studiosi e giurisprudenza sono arrivati ad enucleare due categorie: si ritengono dovuti sia gli alimenti c.d. naturalia (vitto, abitazione, vestiario, cure), sia quelli c.d. civilia, cioè connessi ai bisogni sociali e morali della persona, variabili in relazione alla personalità del soggetto.
Nel caso di specie, viste le necessità di cura dell'anziano, si ritiene che la retta della casa di riposo possa rientrare nell'obbligazione alimentare, in quanto comprende tutte le esigenze primarie della persona (la cura dell'anziano in casa è esclusa per le sue condizioni mediche). Al più, si potrebbe valutare se esiste una struttura più economica, ma ciò comporterebbe anche una serie di altre valutazioni che non possono essere qui risolte (esiste una struttura del genere? è vicina? l'anziano può essere spostato dal suo ambiente? etc.).

La misura degli alimenti nel caso in esame, tuttavia, sarebbe un po' diversa da quella prevista dalla norma generale dell'art. 438 del c.c., in quanto attiene ad una figura particolare di parentela: quella tra fratelli. L'art. 439 del c.c. dice tra fratelli e sorelle gli alimenti sono dovuti nella misura dello "stretto necessario". Con questa espressione ci si riferisce ai bisogni primari dell'individuo, quindi vitto, alloggio, vestiario, cure mediche, con esclusione di tutti i bisogni ulteriori.
Però, nonostante la diversità della norma, il caso proposto attiene ad una persona anziana, i cui unici bisogni sono proprio quelli primari: per questo, si ritiene che la misura degli alimenti continui a poter corrispondere alla differenza della retta dell'istituto di cura che l'anziano non riesce a sopportare integralmente.

Ciò detto, va inoltre sottolineato che, ai sensi del terzo comma dell'art. 438 c.c., gli alimenti devono, sì, essere assegnati in proporzione al bisogno dell'alimentando, ma anche delle condizioni economiche dell'alimentante.
Ciò significa che il giudice eventualmente chiamato a decidere se concedere o meno gli alimenti, deve valutare se la persona obbligata ha la capacità economica per prestare l'aiuto richiesto. Lo stato di bisogno dell'alimentando deve essere provato da questi, e, per l'opinione prevalente, spetta a lui anche l'onere di provare la capacità economica dell'obbligato: quindi, se lo zio agirà in giudizio contro la sorella che non vuole partecipare al suo sostentamento, potrebbe dar prova che questa ha un patrimonio sufficiente per venire incontro alle esigenze del fratello e di conseguenza potrebbe condannarla a prestare gli alimenti.
In caso di concorso tra più persone obbligate (come qui, dove ci sono due sorelle), tutte devono concorrere alla prestazione in proporzione alle proprie condizioni economiche: se gli obbligati non sono concordi sulla misura, sulla distribuzione o sul modo di somministrazione degli alimenti, provvede l'autorità giudiziaria, secondo le circostanze (art. 441 del c.c.).

Quanto alla procedura da seguire, come anticipato, gli alimenti sono dovuti solo laddove richiesti con domanda giudiziale: prima di allora, non esiste per nessuno l'obbligo di versarli alla persona bisognosa (di conseguenza non esiste un diritto agli "arretrati").
E' legittimata ad agire in giudizio la persona che versi in stato di bisogno (quindi, lo zio), eventualmente rappresentata da un amministratore di sostegno o tutore nel caso in cui vi sia una incapacità parziale o totale della persona.
Il giudice dovrà valutare con prudente apprezzamento la situazione esposta dalle parti in giudizio e determinare l'entità degli alimenti dovuti e il modo in cui dovranno essere somministrati.

Luciana chiede
lunedì 03/11/2014 - Emilia-Romagna
“Un signore 75enne, benestante, ha una sorella 58enne divorziata con assegno divorzile pari ad € 320, abitazione di proprietà, 2 figlie coniugate con prole, laureate, attualmente impiegate in uffici pubblici.
Poiché la sorella in questione non ha altri redditi al di fuori dell'assegno divorzile, chi è obbligato ad integrare il suo reddito?
Mentre resto in attesa ringrazio vivamente e porgo distinti saluti.”
Consulenza legale i 05/11/2014
La situazione della signora divorziata potrebbe dare luogo, ove ne sussistano tutti i presupposti, come si dirà fra breve, al diritto di chiedere gli alimenti ai familiari.

Gli alimenti legali sono prestazioni di assistenza materiale dovute per legge alla persona che si trova in stato di bisogno economico. Il diritto agli alimenti ha natura di diritto soggettivo ed ha carattere personale: non può essere alienato, trasmesso, pignorato, né sottoposto a sequestro.

E' molto importante sottolineare che gli alimenti possono essere chiesti solo da chi versi in stato di bisogno e non sia in grado di provvedere al proprio mantenimento in maniera incolpevole (ad esempio, perché invalida al lavoro per incapacità fisica). Va poi precisato che gli alimenti sono dovuti solo laddove richiesti con domanda giudiziale: prima di allora, non esiste per nessuno l'obbligo di versarli alla persona bisognosa.

Quanto alle persone che sono tenute a prestare gli alimenti, il codice civile prevede questo ordine da seguire:

- l'art. 437 del c.c. sancisce che il donatario sia tenuto, con precedenza su ogni altro obbligato, a prestare gli alimenti al donante, a meno che si tratti di donazione fatta in riguardo di un matrimonio o di una donazione rimuneratoria: quindi, se la signora ha fatto delle donazioni significative nel corso della sua vita, potrà chiedere prima di tutto gli alimenti alla persona che ha beneficiato della donazione. Il donatario non è comunque tenuto oltre il valore della donazione tuttora esistente nel suo patrimonio;
- quanto al coniuge, in caso di divorzio, l'obbligo alimentare nei confronti dell'altro coniuge viene a cessare, potendo essere sostituito dall'assegno divorzile. Quindi, l'ex marito non deve nulla più di quanto già dà a colei che era sua moglie;
- i figli sono le persone tenute a provvedere ai bisogni alimentari del genitore se mancano le persone di cui alle due voci precedenti: nel nostro caso, senza dubbio le due figlie sarebbero tenute a prestare gli alimenti alla madre, laddove questa li chiedesse loro;
- ci sono poi i genitori o i nonni (se ancora viventi);
- nuore, generi, suoceri (tecnicamente "affini" del coniuge), non sono più tenuti a dare gli alimenti in caso di divorzio;
- infine, fratelli e sorelle sono gli ultimi indicati dalla norma come obbligati a prestare gli alimenti.

Poiché il codice civile prevede un ordine tassativo, nel nostro caso le figlie saranno tenute agli alimenti prima del fratello.
Solo in un caso anche il fratello dovrà prestare l'obbligazione alimentare: qualora - non esistendo in vita i genitori della signora o se questi non fossero abbienti - le figlie non siano in condizioni (economiche) tali da sopportare da sole l'onere, in tutto o in parte (art. 441 del c.c.).
Se ciò dovesse accadere, i tre soggetti dovranno ripartire tra loro gli alimenti da dare alla parente: se gli obbligati non trovano un accordo sulla misura, sulla distribuzione e sul modo di somministrazione degli alimenti, provvederà l'autorità giudiziaria secondo le circostanze.

Claudio C. chiede
lunedì 29/09/2014 - Campania
“vorrei sapere
c'è rapporto di affinità tra una moglie e una seconde moglie del suocero affine
Es.
Carlo F. sposa Maria D. e questi 2 hanno come figlio Matteo F.
Matteo F. sposa Teresa G. e dopo un po Maria D. muore di malattia.
Carlo F. così dopo essersi ripreso e fatto passare qualche anno sposa Giulia T.
Ora tra Giulia T. seconda moglie di Carlo F. e Teresa G. esiste qualche rapporto di affinità?
Grazie mille”
Consulenza legale i 01/10/2014
L'affinità è il vincolo tra un coniuge e i parenti dell'altro coniuge (art. 78 del c.c.).
Giulia, seconda moglie del padre di Matteo, non è parente di Matteo (va ricordato che, giuridicamente, la parentela è il vincolo che sorge tra le persone che discendono da uno stesso stipite). Di conseguenza, non è affine della moglie di Matteo.

Barbara P. chiede
mercoledì 11/06/2014 - Emilia-Romagna
“Mia mamma ha 100 anni, papà è morto l'anno scorso a 98. Siamo 3 figli, 2 maschi e 1 femmina, io. Seguo i miei genitori da 20 anni almeno (ripetuti ricoveri, mamma stomatizzata, femore rotto, papà dialisi, giorni in ospedale e notti passate con l'altro genitore a casa ecc.) Io lavoro e ho una famiglia come gli altri fratelli, ma quasi tutti i sabati e/o le domeniche le passavo con loro e ora con mamma. In questi ultimi 10 anni, i miei non avevano risorse economiche così abbiamo cominciato a versare ogni mese una cifra ciascuno (300€) ma io essendo la più presente versavo di meno perché quasi ogni giorno ero da loro, li accompagnavo alle visite, mamma dal parrucchiere, acquisto scarpe, vestiti, alimentari, insegnare al badante di turno a far da mangiare, medicine, ecc. Ora abbiamo un badante fisso: uno dei miei fratelli, dopo la morte di papà che aveva un amministratore di sostegno perché noi non andavamo d'accordo, ha fatto fare i conti al commercialista e ha visto che io avevo pagato meno di loro: ora vuole che io paghi di più nonostante la mia assidua presenza: anzi vuole prendere un altro badante per il week-end per estromettermi dalla cura alla persona di mamma. Io credo di avere il diritto di assistere mia mamma, la mia bambina, e chiaro pago anch'io 300€ più tutte le varie altre spese per un terzo (TASI, TARI, IMU, BADANTE, BOLLETTE ecc.) Ci siamo rivolti tutti e tre ad avvocati ma mi dicono che con la legge 433 ha ragione mio fratello e che cioè tutto quello che ho fatto in questi anni e sto ancora facendo non vale NIENTE, che la figura del care-giver non è riconosciuta (in Francia mi hanno detto che viene riconosciuta). Forse sono un'illusa ma vorrei sentire il vs. parere. Per me la legge dice tutto e niente. grazie per una risposta”
Consulenza legale i 19/06/2014
Per comprendere bene la situazione è necessario operare una ricognizione delle norme sugli alimenti presenti nel codice civile.
Il diritto agli alimenti del soggetto che versi in stato di bisogno è un diritto che sorge solo dal giorno della domanda giudiziale con cui la persona chiede ai propri parenti (o agli altri soggetti previsti dall'art. 433 del c.c.) un aiuto economico, o dalla costituzione in mora dell'obbligato. Lo dice l'art. 445 del c.c., prevedendo quindi che l'effettiva prestazione degli alimenti è dovuta soltanto dal giorno della domanda, anche se ne preesistono i presupposti di legge (in particolare, lo stato di bisogno).
Va poi ricordato che l'obbligazione alimentare può essere somministrata sia mediante corresponsione di un "assegno", quindi di una somma di denaro, ma anche mediante l'accoglienza e il mantenimento nella propria casa del soggetto bisognoso. Il giudice, secondo le circostanze, può inoltre determinare altro modo di somministrazione degli alimenti, non esclusa in astratto anche la prestazione di servizi o beni in natura per un certo periodo (art. 443 del c.c.).
Quindi, posto che è vero che la figura del caregiver familiare ad oggi non è sufficientemente valorizzata e tutelata nel nostro ordinamento, l'assistenza materiale e morale che una delle figlie ha prestato ai genitori poteva essere valorizzata, anche sul piano economico, agli occhi degli altri obbligati (i fratelli).
Tuttavia, ciò che emerge dal quesito, è che, nonostante il versamento da parte dei figli dell'importo di € 300,00 (minore per la sorella che materialmente curava gli anziani genitori), non vi è stata alcuna domanda giudiziale da parte di questi nei confronti dei figli. Questi ultimi, hanno versato - come sembra - spontaneamente e non su ordine di un giudice. Apparentemente, quindi, sembra essersi creata una situazione di adempimento a obbligazione cosiddetta "naturale" (art. 2034 del c.c.). In altre parole, i figli hanno adempiuto ad un dovere morale che sentivano nei confronti dei genitori, con l'unica conseguenza, dal punto di vista normativo, che non potranno chiedere la restituzione di quanto versato. Di conseguenza, poiché nessuna autorità giudiziaria ha stabilito l'importo dell'assegno alimentare, ciascuno ha dato quanto ha ritenuto di poter dare, chi in denaro, chi parte in denaro e parte in assistenza fattiva alla vita dei genitori.
Ora, visto che la madre dei tre figli è ancora in vita e la sorella intende prendersene cura ma i fratelli si oppongono, è bene chiarire, anche di fronte alla legge, la situazione. Appare piuttosto evidente, ma questa è una valutazione del tutto extragiudiziale, che l'assistenza amorevole da parte di una figlia sia sempre da preferire all'incarico dato ad un estraneo, che peraltro comporterebbe spese indubbiamente maggiori.
Se i fratelli non giungeranno ad un accordo, sembra inevitabile dover ricorrere al giudice per chiedere la nomina di un amministratore di sostegno (o un tutore, se esiste una grave infermità di mente) che prenda legalmente le decisioni circa l'assistenza e la tutela dell'anziana signora.
L'amministratore di sostegno (o il tutore) potranno poi anche chiedere in giudizio gli alimenti ai figli della donna, e in tale sede si potrà convenire tra le parti ed il giudice che una degli obbligati (la figlia) possa commutare parte dell'assegno in denaro in assistenza alla madre di diverso tipo (acquisto diretto di beni necessari, cura e presenza in alcuni giorni della settimana).

Anonimo chiede
giovedì 15/05/2014 - Emilia-Romagna
“Sono separato da (omissis) anni, con obbligo di alimenti verso la moglie (figlia maggiorenne indipendente economicamente, ma risiede con la madre).
Dal (omissis) sono in pensione ed a tale data, con scrittura privata, l'ammontare dell'assegno alimentare e' stato ridotto ad € (omissis).
Ritengo che la mia ex moglie contribuisca alla (omissis) residente in (omissis), utilizzando il danaro che le verso come assegno alimentare.
Desidero sapere se, in tale caso, posso chiedere la riduzione o la interruzione dell'assegno alimentare.
Grazie”
Consulenza legale i 27/05/2014
L'assegno di mantenimento al coniuge economicamente più debole, in caso di separazione o divorzio dei coniugi, presuppone che chi riceve tale importo si trovi in una situazione tale da non consentire di mantenere un tenore di vita analogo a quello di cui ha goduto durante il matrimonio, a prescindere dal fatto che sia o meno disoccupato o riceva redditi di qualche tipo.
La valutazione della situazione economica del coniuge più debole va fatta di regola sulla base dei redditi percepiti (es. busta paga, rendite di proprietà immobiliari, di titoli azionari, di partecipazioni sociali in genere, ...); il giudice può inoltre tenere anche conto, quale ulteriore parametro di valutazione, della capacità di spesa del coniuge obbligato, che potrebbe far emergere la presenza di entrate non regolarmente dichiarate al fisco.
Gli importi ricevuti a titolo di mantenimento devono essere utilizzati per sostenere un tenore di vita simile a quello goduto durante il matrimonio: il mantenimento comprende quindi più dello stretto necessario per vivere.

La revisione dell'assegno al fine della sua riduzione o revoca presuppone che venga verificata la sopravvenuta modifica delle condizioni economiche delle parti, tale da mutare l’assetto patrimoniale sussistente al momento della separazione, secondo una valutazione comparativa delle condizioni economiche di entrambe le parti (v. Cassazione n. 10133/07).
La modificabilità dei provvedimenti relativi alla separazione è sancita dal codice civile (art. 156 del c.c.) e la procedura è stabilita dagli artt.710 e 711 c.p.c. La legge parla precisamente di "giustificati motivi".

Nel caso di specie, si deve verificare la situazione economica della moglie, poiché quella del marito non è mutata in senso peggiorativo, e non può quindi costituire motivo per chiedere la riduzione dell'assegno.

Non è rilevante come la moglie spenda il suo denaro, se la sua situazione reddituale non è tale da far ritenere che il mantenimento procurato dal marito sia in realtà superfluo. E' necessario, quindi, un vero e proprio mutamento del quadro economico della moglie, che giustifichi un miglioramento delle sue finanze e quindi entrate maggiori.

Quindi, se la moglie percepisce redditi costanti (ovvero non ha nuovi redditi) e, con il proprio sacrificio (quindi comprimendo il suo tenore di vita abituale), contribuisce a pagare (omissis), a discapito del proprio tenore di vita, il marito non può chiedere la riduzione dell'assegno di mantenimento.
Al contrario, se la moglie ha iniziato a percepire ulteriori redditi, tali non solo da permetterle di godere dello stesso tenore di vita goduto durante il matrimonio ma anche da potersi permettere il contributo al fratello, sussisterebbero i presupposti per chiedere la revisione dell'assegno da parte del marito.

Si precisa, però, una cosa. Nel quesito si dice che i coniugi hanno concordato una diminuzione dell'assegno con scrittura privata. Tale accordo, raggiunto senza la partecipazione del giudice, può essere ritenuto invalido o inefficace se contrasta con l'art. 160 del c.c. ("Gli sposi non possono derogare né ai diritti né ai doveri previsti dalla legge per effetto del matrimonio"). Difatti, il diritto all'assegno di mantenimento è in generale un diritto indisponibile per i coniugi. Essi possono, al più, concordare un importo differente da quello sancito dinnanzi al Giudice per renderlo più corrispondente alle reali possibilità del coniuge obbligato ed ai bisogni del beneficiario. Tuttavia, tale accordo è per sua natura transitorio e sussiste anche il rischio che ne possa essere eccepita l’inefficacia, qualora scaturisca da una valutazione non libera ed erronea del coniuge che ha accettato la riduzione.
Alla luce di quanto esposto, si consiglia di valutare con un legale l'opportunità di presentare l'istanza di revisione dell'assegno.

Daniele chiede
martedì 15/05/2012 - Lazio

“Salve vorrei una risposta al seguente quesito:
mia madre è morta nel 2003, mio fratello vive da allora con mio padre in un appartamento con mutuo intestato a mio padre, mentre io il prossimo anno mi sposerò, ed attualmente convivo in affitto con la mia compagna e presumo che anche dopo sposati saremo in affitto, in un'altra città, diversa da quella di mio padre e mio fratello.
Il problema è che mio fratello è una persona più grande di me di 5 anni nata nel 1972 mentre io sono il più piccolo nato nel 1977.
Lui è una persona molto aggressiva, non ha mai lavorato e vive tuttora alle spalle di mio padre.
Mi domando: quando mio padre non ci sarà più, sarò obbligato ad assisterlo?
Vi ringrazio in anticipo per la risposta.”

Consulenza legale i 16/05/2012

Se una persona si trova in uno stato di bisogno e non ha i mezzi per provvedere al suo sostentamento, nè è in grado di procurarseli con il proprio lavoro, sorge per questa un diritto agli alimenti di fonte legale.

La legge disciplina le categorie di soggetti obbligati agli alimenti, fornendo un ordine ben preciso. L'art. 433 del c.c. contiene un elenco di persone tenute a prestare gli alimenti, indicando anche l'ordine: il coniuge; i figli legittimi o legittimati naturali o adottivi e, in loro mancanza, i discendenti prossimi, anche naturali; i genitori e, in loro mancanza, gli ascendenti prossimi, anche naturali; gli adottanti; i generi e le nuore; il suocero e la suocera; i fratelli e le sorelle germani o unilaterali, con precedenza dei germani sugli unilaterali. In particolare, i fratelli ai fratelli debbono soltanto gli alimenti strettamente necessari per vivere ai sensi dell'art. 439 del c.c..

Pertanto, nel caso prospettato, se il soggetto non ha nè i mezzi per provvedere al suo sostentamento nè è in grado di procurarseli, e non vi è nessuno dei soggetti indicati nel predetto ordine se non il fratello, questo sarà obbligato agli alimenti strettamente necessari per vivere.


Nevio chiede
martedì 17/04/2012 - Piemonte
“Gradirei avere una risposta al seguente quesito: mia sorella inferma è da circa nove anni sotto tutela giudiziaria con un legale come tutore nominato da un giudice; ha un figlio del quale si hanno poche notizie e che non sappiamo come rintracciare; ultimamente mia sorella si è aggravata e il legale tutore si è rivolto a me e ai miei due fratelli chiedendoci di concorrere alle spese di assistenza medica e di sostentamento in quanto l'assegno di invalidità percepito da mia sorella non è più sufficiente. In questi anni mia sorella è stata ospite di una famiglia in convenzione con l'ASL locale che pagava un mensile appunto a questa famiglia. Le condizioni di mia sorella non permettono più un'assistenza famigliare per cui si prevede un ricovero in una struttura di lungodegenza o, in alternativa, presso una casa di riposo con assistenza continuativa. La domanda è: in questo caso noi fratelli abbiamo l'obbligo di concorrere al sostegno dei costi oppure tale obbligo spetta al figlio ed, eventualmente, al marito separato giuridicamente ma non divorziato? Anticipatamente ringrazio per la cortese attenzione. Zampieri Nevio”
Consulenza legale i 21/04/2012

Se una persona si trova in uno stato di bisogno e non ha i mezzi per provvedere al suo sostentamento, né è in grado di procurarseli con il proprio lavoro, sorge per questa un diritto agli alimenti di fonte legale.

La legge disciplina le categorie di soggetti obbligati agli alimenti, fornendo un preciso ordine.

L'[art. 433 del c.c. contiene un elenco di persone tenute a prestare agli alimenti, indicandone anche l'ordine:

  • il coniuge, anche se separato poiché la separazione non fa venire meno un siffatto obbligo ai sensi dell'[[156,III comma,cc]];
  • i figli legittimi o legittimati o naturali o adottivi, e, in loro mancanza, i discendenti prossimi, anche naturali;
  • i genitori e, in loro mancanza, gli ascendenti prossimi, anche naturali; gli adottanti;
  • i generi e le nuore;
  • il suocero e la suocera;
  • i fratelli e le sorelle germani o unilaterali, con precedenza dei germani sugli unilaterali. In particolare i fratelli ai fratelli debbono soltanto gli alimenti strettamente necessari per vivere ai sensi dell'art. 439 del c.c..

Pertanto, nel caso prospettato il primo soggetto tenuto a prestare gli alimenti sarà il coniuge, anche se separato, successivamente il figlio ed infine, in mancanza di genitori, generi, nuore, suoceri, i fratelli e le sorelle, come previsto dalla predetta norma.


Nulea chiede
martedì 18/01/2011

“Nell'anno 1987 mi sono sposato con una donna divorziata che aveva di una figlia di 9 anni invalida al 100% avuta durante il precedente matrimonio. Durante il matrimonio abbiamo avuto un figlio che attualmente vive con me. Nel 1993 mia moglie presentava istanza presso il tribunale dei minori di adozione in casi particolari, pertanto alla predetta ragazza veniva dato in aggiunta al suo anche il mio cognome. Nel 1994 mia moglie presentava domanda di separazione consensuale. Nel 1999 ottenevamo il divorzio. Dopo circa due anni la mia ex moglie chiedeva gli alimenti per sia per lei che per la propria figlia, il tribunale stabiliva il mantenimento solo per sua figlia, mentre per mio figlio provvedevo solo ed esclusivamente io. Adesso la figlia della ex ha 33 anni sempre invalida al 100% percepisce sempre la pensione di invalidità e di accompagnamento e da circa due anni risulta ricoverata permanentemente presso una struttura pubblica. Devo continuare a corrispondere il mantenimento? Vi è qualche possibilità di recedere da predetta adozione in quanto non sono mai riuscito ad instaurare un rapporto affettivo con predetta ragazza?
Grazie”

Consulenza legale i 21/01/2011

Con l’adozione in casi particolari, l’adottante assume gli obblighi di assistenza, istruzione e mantenimento nei riguardi dell’adottato, la titolarità e l’esercizio della potestà genitoriale su di lui, ma non l’usufrutto legale sui suoi beni; ha l’obbligo di effettuare l’inventario dei beni del minori con poteri in tutto e per tutto coincidenti con quelli del tutore.

L’adottato, invece, conserva diritti e obblighi nei confronti della famiglia originaria e, contemporaneamente, li acquista verso quell’adottiva. Ha diritto di successione sia rispetto alla famiglia naturale sia rispetto a quell’adottiva; conserva il cognome originario, ma con l’anteposizione di quello dell’adottante; pur nella permanenza dei divieti matrimoniali, non ha rapporti giuridici con i parenti dell’adottante (ma la regola vale anche per l’adottante che non diventa parente dei parenti dell’adottato).

Lo stato di figlio adottivo può essere revocato giudizialmente per indegnità dell’adottato (art. 51 della legge sulle adozioni), quando questi abbia commesso dei gravi delitti nei confronti dell’adottante o della sua famiglia ovvero può essere revocato per indegnità dell’adottante (art. 52 l. n. 183 del 1984) ovvero su richiesta del Pubblico Ministero quando vi sia violazione degli obblighi gravanti sugli adottanti.

Nel caso di specie sembra difficile si possa parlare di una revoca dello stato di figlio adottivo, mancandone i presupposti. Essendo poi la figlia adottiva invalida al 100%, e quindi bisognosa di cure e incapace di provvedere a sè stessa, appare improbabile la possibilità di cessare la corresponsione dell'assegno di mantenimento.


MARIA M. chiede
sabato 13/11/2010
“Ai sensi dell'art. 433 del Codice Civile in mancanza di fratelli e di sorelle hanno obbligo i discendenti prossimi?”
Consulenza legale i 14/11/2010

Ai sensi dell'art. 433 del c.c. se una persona si trova in stato di bisogno e non ha mezzi per provvedere al proprio sostentamento, nè ha la capacità di procurarseli col proprio lavoro nasce un diritto agli alimenti di fonte legale. I soggetti obbligati,secondo l'ordine della legge, sono essenzialmente il coniuge, i parenti e gli affini in base ad un vincolo di solidarietà familiare. Il coniuge è tenuto agli alimenti solo quando sono cessati gli obblighi patrimoniali assai più importanti nei confronti dell'altro coniuge. Seguono i figli (legittimi, naturali, adottivi, senza distinzione) o in loro mancanza i discendenti prossimi, quindi i genitori. Il genero e la nuora, poi il suocero e la suocera, quindi gli affini di primo grado, sono obbligati ancor prima dei fratelli (germani e poi unilaterali) che chiudono la graduatoria.


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