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Articolo 437 Codice Civile

(R.D. 16 marzo 1942, n. 262)

[Aggiornato al 31/01/2024]

Obbligo del donatario

Dispositivo dell'art. 437 Codice Civile

Il donatario è tenuto, con precedenza su ogni altro obbligato, a prestare gli alimenti al donante, a meno che si tratti di donazione fatta in riguardo di un matrimonio o di una donazione rimuneratoria [438 co. III, 785, 801](1).

Note

(1) Il fondamento dell'obbligo primario (poiché vi è la precedenza su ogni altro obbligato) di colui che abbia ricevuto una donazione (non rimuneratoria od obnuziale, di cui all'art. 785 del c.c.) consiste nel rapporto di gratitudine che si è di tal guisa instaurato.
Per quanto concerne il quantum, la prestazione dovrà avvenire nei limiti del valore della donazione tuttora esistente nel patrimonio del donatario-debitore (come previsto dal successivo articolo).

Brocardi

Donatio ante nuptias
Donatio omnium bonorum praesentium et futurorum non valet
Donatio remuneratoria

Spiegazione dell'art. 437 Codice Civile

In testa a tutte viene l'obbligazione del donatario.
Costituisce questa una decisa innovazione sul regime del codice del 1865; non già tanto per ciò che riguarda l'esistenza stessa dell'obbligazione, che una parte autorevole della dottrina già ammetteva, quanto per ciò che concerne la struttura e i limiti dell'obbligazione alimentare del donante, la quale si presenta ora con un'ampiezza ed una autonomia prima sconosciute. Anzitutto, deve rilevarsi che si tratta di una obbligazione vera e propria, con azione e sanzione dirette come in ogni altra obbligazione alimentare; mentre nel regime precedente interveniva, se mai, una sanzione indiretta consistente nella possibilità di revoca per ingratitudine. Del tutto innovando su i criteri prima correnti, l'art. 437 pone l'obbligazione alimentare del donatario in testa a tutte le altre, non essendo ragionevole, secondo la Relazione della Commissione reale, che il donatario "trattenga l'emolumento e si arricchisca, mentre la famiglia del donante, che pur ha risentito gli effetti sfavorevoli della donazione, debba provvedere al suo mantenimento".
Non si è ritenuto necessario stabilire che debba trattarsi di una donazione considerevole. Il giudice, i cui poteri sono in materia assai vasti, stabilirà se sussista o meno l'obbligo. Deve anche osservarsi che il donatario non è tenuto oltre il valore della donazione tuttora esistente nel suo patrimonio. Ma qui può sorgere il dubbio se debba trattarsi di valore fruttifero, oppure anche di semplice valore capitale. Il Progetto preliminare fissava la regola che "gli alimenti sono somministrati tenuto conto della natura e della entità della donazione, dell'arricchimento del donatario e di ogni altra circostanza".
In forza di varie considerazioni, nel Progetto definitivo questa specificazione fu tolta, nonostante che la Commissione parlamentare avesse insistito affinché venisse ripristinata, con speciale riguardo a doni consistenti in cose che non hanno utilità economica. Nella Relazione finale al Re, il Guardasigilli obbiettò che non può dirsi "che le cose donate possono non avere alcuna utilità economica, poiché, anche se si tratti, ad esempio, di biblioteche, castelli o altri beni non redditizi, si ha pur sempre un valore capitale innegabile". Ma il problema rimane.
A parte tali esempi di donazioni eccezionali, possono darsi molteplici casi di donazioni di oggetti di qualche valore, ma del tutto non redditizi (es. una spilla, un orologio donato per ricordo). Il donatario può avere, per altro lato, fonti di lauto reddito; ma può anche non averne. Deve egli essere costretto ad alienare l'oggetto onde procurarsi i mezzi per provvedere agli alimenti del donante? In alcuni casi certo sì. Non potrebbe ammettersi una regola secondo cui solo le donazioni di oggetti fruttiferi siano presupposto di obbligazioni alimentari (avuto riguardo alla possibilità di provvedere con i frutti alle somministrazioni senza intaccare il capitale). Ma in parecchi casi, che il giudice dovrà apprezzare equitativamente, quella soluzione sarà da respingere. Così, dovranno escludersi le donazioni di piccola entità (siano esse di oggetti fruttiferi o meno); ciò non significa che debbano venire in considerazione solo quelle assai notevoli.

Relazione al Codice Civile

(Relazione del Ministro Guardasigilli Dino Grandi al Codice Civile del 4 aprile 1942)

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Consulenze legali
relative all'articolo 437 Codice Civile

Seguono tutti i quesiti posti dagli utenti del sito che hanno ricevuto una risposta da parte della redazione giuridica di Brocardi.it usufruendo del servizio di consulenza legale. Si precisa che l'elenco non è completo, poiché non risultano pubblicati i pareri legali resi a tutti quei clienti che, per varie ragioni, hanno espressamente richiesto la riservatezza.

ENZO P. chiede
venerdì 13/03/2020 - Lombardia
“Con rif. consulenza Q202024876.
Ringrazio per la esauriente risposta e chiedo una precisazione.
Il fratello n°7 in sede di divisione ereditaria è entrato in possesso di un terreno ed un immobile.
Il terreno è andato recentemente all'asta su richiesta di creditori ora soddisfatti.
L'immobile ,valore di perizia 2008 del CTU circa 45000 euro, evidentemente per sottrarlo ai creditori, è stato "donato" ad un nipote figlio del fratello n°6.
Questo atto di donazione è contestabile ed annullabile?
Grazie”
Consulenza legale i 19/03/2020
Nella consulenza resa al quesito n. Q202024876 è stato detto che, non essendo la persona che versa in stato di bisogno coniugata, né avendo figli, ascendenti, generi e nuore, né suoceri, ma solo fratelli e sorelle, l’obbligo di prestare gli alimenti, nella misura della stretto necessario, non può che farsi gravare sui membri di quella che si definisce famiglia estesa, ossia fratelli e sorelle, e ciò per effetto del combinato disposto dell’art. 433 del c.c. e dell’art. 439 del c.c. (la prima individua i soggetti obbligati, mentre la secondo la misura in cui gli stessi sono tenuti a prestare gli alimenti).

Adesso, però, viene fornita una nuova informazione che cambia radicalmente la situazione prospettata e che conduce ad una diversa soluzione, sicuramente più vantaggiosa per chi pone il quesito.
Si precisa, infatti, che la persona bisognosa ha donato un immobile ad uno dei nipoti, e precisamente al figlio del fratello n. 6.
Ciò consente agli altri fratelli e sorelle di invocare l’applicazione dell’art. 437 c.c., norma che obbliga il donatario a prestare gli alimenti al donante con precedenza su qualunque altro soggetto possa esservi obbligato per legge, purché non si tratti di donazione fatta in riguardo di un matrimonio o di una donazione rimuneratoria.

Ad escludere quest’ ultima condizione si ritiene che concorra chiaramente la ragione che ha spinto il donante a donare quel bene, ossia sottrarlo ad una possibile aggressione da parte dei suoi creditori.
Il fondamento dell’obbligo alimentare da parte del donatario viene individuato essenzialmente in considerazioni di equità, in quanto sarebbe estremamente ingiusto che il bisognoso si rivolgesse ad un membro della cerchia familiare quando vi è un soggetto che dallo stesso ha ricevuto un beneficio patrimoniale, continuando a godere dei vantaggi della donazione senza nel contempo soccorrere il donante indigente.
In tal modo il legislatore ha voluto anche tutelare la famiglia del donante che, avendo visto deluse le aspettative ereditarie sui beni donati, non può essere costretta a farsi carico anche del sostentamento del donante.

Come è già stato detto per gli obblighi alimentari dei familiari di cui all’art. 433 del c.c., anche l’obbligo alimentare del donatario ha fonte legale, nel senso che esso discende direttamente dalla legge e non dalla donazione, la quale ne rappresenta soltanto il presupposto.
Inoltre, come previsto già per l’obbligazione alimentare dei fratelli e delle sorelle, anche per quella del donatario il legislatore ha voluto stabilire un limite ben preciso, disponendo all’ultimo comma dell’art. 438 del c.c. che la misura dell’obbligo non può superare il valore della donazione tuttora esistente nel suo patrimonio (misura che trova la sua spiegazione nel fatto che il presupposto dell’obbligo del donatario non discende da un vincolo di solidarietà familiare).
Ciò significa che nella determinazione della misura degli alimenti che il donatario è tenuto a prestare non ci si può riferire alle condizioni economiche del donatario stesso, come previsto dal secondo comma dell’art. 438 c.c.
E’ stato anche esplicitamente chiarito in giurisprudenza (Cass. 536/1951) ed in dottrina che l’obbligo del donatario non dipende dal fatto che lo stato di bisogno del donante si sia potuto verificare a causa della donazione.

Indubbiamente, per la parte di bisogno dell’alimentando che rimane insoddisfatto, troverà applicazione la disposizione dell’art. 433 c.c., secondo le modalità illustrate nella consulenza che qui viene richiamata.

Qualora, poi, il donatario dovesse rifiutarsi di soccorrere il donante, allora il donante stesso ovvero colui che lo rappresenta (es. un amministratore di sostegno) potrà anche chiedere la revocazione della donazione per ingratitudine ex art. 801 del c.c..
Soltanto sotto questo profilo, e così si risponde alla domanda esplicitamente posta nel quesito, la donazione potrà essere “contestata e annullata”.
Una volta revocata la donazione, il donatario dovrà ex art. 807 del c.c. restituire il bene in natura ed i frutti relativi a partire dal giorno della domanda, mentre se il bene è stato alienato, dovrà restituirne il valore.
A quel punto, di quel bene o del suo valore ci si potrà avvalere per soddisfare le esigenze della persona bisognosa, almeno finché basteranno.


Anonimo chiede
lunedì 23/11/2015 - Toscana
“Buongiorno,

sono proprietario insieme a (omissis) di un appartamento ereditato da mio padre, che a sua volta l'aveva ricevuto in eredità; questo appartamento si trova in un edificio di (omissis), era di mio nonno. Tale appartamento ha l'ingresso e le scale a comune con altri due appartamenti che appartengono a mie cugine, anch'essi ereditati da miei zii; le mie cugine hanno sempre avuto la piena proprietà mentre io per un periodo ho avuto solo la nuda proprietà, perché mio padre, per volontà testamentaria, aveva lasciato l'usufrutto a mia madre. Dalla morte di mia madre e quindi al ricongiungimento non sono trascorsi vent'anni. Esiste un altro fondo appartenente ad un altro cugino ereditato anch'esso, ma non con scala ed ingresso a comune, contribuisce comunque per quanto gli spetta alle spese di manutenzione dell'immobile.
L'edificio si trova (omissis) ed è servito da un passaggio pedonale che attraversando varie proprietà collega una particella pubblica di un borgo, alla strada comunale a monte del paese principale, tutto il percorso è evidenziato con tratteggio anche nelle mappe catastali mentre nello sviluppo del borgo non sembra essere indicato; moltissimi paesani comunque conoscono ed hanno usato da sempre questa strada. Il tratto di strada che dalla casa va verso la via comunale è stata resa carrabile mentre quella che va verso il borgo è rimasta pedonale.
Una proprietà da dove passa la strada, all'interno del borgo, da circa un mese ha recintato impedendo il passaggio.Leggendo le varie successioni non abbiamo trovato nessun titolo riguardante questa strada. Detta strada di collegamento col paese, chiesa, cimitero ed asilo è molto utile perché molto più breve dell'altro percorso attraverso la strada comunale, non essendo carrabile è percorribile in sicurezza anche da bambini ed anziani oltre a godere di un bel paesaggio, apprezzato moltissimo dai nostri ospiti. La strada pedonale è usata dai nostri parenti, residenti nel paese, soprattutto anziani che ci vengono a trovare a piedi, sono costretti con questa chiusura a diradare le visite, perché solo se accompagnati con auto dai figli o nipoti, per chi li ha.
Il Condominio non ha amministratore.
Penso che ci siano gli elementi per chiedere l'usucapione alla proprietà che ha recintato. Ma, volendo chiederlo per l'intero condominio, come dobbiamo procedere?
Da considerare: 1) la mia posizione (periodo con solo nuda proprietà) 2) mancanza amministratore, 3) eventuale aggregazione del quarto proprietario.

Consulenza legale i 30/11/2015
La questione esposta riguarda l'impedimento a passare su una strada perché essa è stata recintata dal proprietario. Pertanto, il diritto di cui si chiede tutela non è la proprietà ma il diritto di passaggio, che è un diritto di servitù (art. 1027 ss c.c.).
La servitù è un diritto reale (cioè un diritto che riguarda un bene, una res) che si sostanzia nel peso imposto ad un fondo (fondo servente) per l'utilità di un altro fondo (fondo dominante). Nel caso in esame, consisterebbe nel peso (dato dal sopportare il passaggio) posto a carico del fondo oggi recintato a favore del fondo del richiedente.
Per verificare se la pretesa del richiedente è tutelabile, quindi, bisogna stabilire se il suo fondo gode del diritto di servitù a carico del fondo oggi recintato. Infatti, come premesso, la servitù riguarda l'utilità dei fondi, non dei soggetti.
La servitù di passaggio può costituirsi:
a) coattivamente se, in forza di legge, il proprietario del fondo ha diritto di ottenere la costituzione del diritto da parte del proprietario di altro fondo: in tal caso le parti possono accordarsi e, in mancanza, il beneficiario ha diritto ad ottenere una sentenza che gli riconosce il diritto;
b) volontariamente (cioè in assenza di obbligo legale) per: contratto tra le parti; testamento; usucapione; destinazione del padre di famiglia (quando un soggetto è proprietario di due fondi di cui uno posto a servizio dell'altro, e i fondi passano nella titolarità di due soggetti, in tal caso il rapporto di servizio diventa servitù di un fondo a favore dell'altro).
Nel caso sottoposto sono escluse tanto l'ipotesi testamentaria che della destinazione del padre di famiglia; ferma la possibilità che, nell'ambito della costituzione volontaria, le parti raggiungano un accordo, si possono analizzare le ipotesi di costituzione coattiva e per usucapione.
La servitù di passaggio coattivo è prevista dall'art. 1051 c.c. a favore del fondo privo di passaggio sulla via pubblica (interclusione assoluta) o per il quale il titolare potrebbe procurarsi il passaggio solo con eccessivo dispendio o disagio (interclusione relativa). E' prevista anche a favore del fondo che ha già un accesso alla via pubblica (fondo non intercluso), in due casi: il passaggio, per il conveniente uso del fondo, deve essere ampliato per il transito di veicoli anche a trazione meccanica (art. 1051 co. 3 c.c.); l'accesso è inadatto per il bisogno del fondo e non può essere ampliato, ma a condizione che la costituzione della servitù soddisfi esigenze di agricoltura, industria ovvero di accessibilità delle persone portatrici di handicap verso edifici ad uso abitativo (C. Cost. 167/1999).
Dal quesito sottoposto si può escludere l'applicazione di entrambe le ipotesi dell'art. 1051 c.c. (interclusione assoluta e relativa). Si può escludere anche l'applicazione dell'art. 1052 c.c., poiché la situazione descritta non è di accesso inadatto o insufficiente ai bisogni del fondo bensì, piuttosto, ai bisogni di chi esercita il passaggio. In ogni caso, la nuova servitù non servirebbe a esigenze di agricoltura, industria o portatori di handicap.
L'usucapione della servitù è possibile solo per le servitù c.d. apparenti (art. 1061 co. 1 c.c.). Sono tali quelle per il cui esercizio sono destinate opere visibili e permanenti, che rendono inequivoco che il peso esiste (art. 1061 co. 2 c.c.).
Nel caso della servitù di passaggio la giurisprudenza ha stabilito che l'apparenza "si configura come presenza di segni visibili di opere permanenti obiettivamente destinate al suo esercizio e rivelanti in modo non equivoco l'esistenza del peso gravante sul fondo servente, in modo da rendere manifesto che non si tratta di attività compiuta in via precaria, bensì di preciso onere a carattere stabile. Ne consegue che non è al riguardo sufficiente l'esistenza di una strada o un percorso idonei allo scopo, essenziale viceversa essendo che essi mostrino di essere stati posti in essere al preciso fine di dare accesso attraverso il fondo preteso servente a quello preteso dominante e, pertanto, un quid pluris che dimostri la loro specifica destinazione all'esercizio della servitù" (Cass. 5733/2011; Cass. 13238/2010). Quindi si deve dimostrare che la strada era destinata certamente a consentire l'accesso al fondo dominante, e lo era almeno da quando è iniziato a decorrere il ventennio necessario per usucapire (Cass. 5733/2011). Un sentiero formatosi in modo naturale e per un passaggio non sporadico può anche essere sufficiente, purché dal suo tracciato o da altra opera o segno su di esso si desuma senza incertezze la funzione di accesso dal fondo servente al fondo dominante e che l'opera serve (anche se non esclusivamente) per l'utilità del fondo dominante (Cass. 15869/2006).
Quanto al tempo necessario per l'usucapione, esso è ventennale (art. 1158 c.c.). Il possesso utile a maturarlo deve essere stato continuo, pacifico, pubblico, non interrotto (da causa naturale o civile), e con corrispondente totale inerzia del proprietario.
Nel caso sottoposto, alla morte del padre il richiedente ha conseguito solo la nuda proprietà del bene. Tuttavia, ciò non esclude che egli possa vantare a suo favore, anche per questo periodo, un possesso utile per l'usucapione. Infatti secondo la Cassazione in caso di usufrutto di un bene, il possesso che rileva per l'usucapione è, innanzitutto, quello dell'usufruttuario, che può esercitarlo anche a vantaggio del nudo proprietario; ma questo non esclude che se il nudo proprietario ha, di fatto, la disponibilità del bene, possano assumere rilievo anche i suoi atti di possesso, dei quali, naturalmente, dovrà dare la prova (Cass. 21231/2010). Ciò significa che se nel periodo in cui era nudo proprietario il richiedente ha comunque esercitato il possesso della servitù, potrà giovarsi di tale possesso per l'usucapione; se, invece, lo ha esercitato la madre-usufruttuaria potrà giovarsene in quanto questa lo ha esercitato anche a vantaggio del nudo proprietario.
Circa la legittimazione ad usucapire la servitù di passaggio vi sono, astrattamente, due alternative.
Innanzitutto, nominare un amministratore condominiale ai sensi di legge (art. 1129 c.c.), tenendo presente, in tal caso, che si ritiene che la legittimazione ad agire per l'usucapione non rientri tra i poteri che la legge (art. 1131 c.c., art. 1130 c.c.) attribuisce all'amministratore. Si discute, infatti, se sia sufficiente che l'assemblea gli conferisca il potere (così Cass. 9573/1997), ovvero se serva sempre un mandato speciale da parte di ciascun condomino (così Cass.12678/2014).
In alternativa, il richiedente potrebbe agire in quanto è uno dei proprietari del fondo dominante, argomentando nel senso che, essendo la servitù un rapporto tra fondi e vigendo il principio di indivisibilità, essa non può essere circoscritta solo ad uno dei condomini richiedenti ma va estesa ad ognuno di essi. In tal senso ha statuito la Cassazione in relazione, però, ad un'ipotesi di passaggio coattivo a favore di un fondo intercluso (Cass. 4399/2012, Cass. 247/1969). Tuttavia, il riferimento al rapporto tra fondi ed al principio di indivisibilità riguardano l'istituto della servitù in sé considerato, pertanto ci sembra che l'argomento speso per la servitù coattiva potrebbe essere fatto
valere anche per la sua usucapione (che, in quanto modo di costituzione volontario, prescinde dai requisiti richiesti per la costituzione coattiva).
In conclusione, sulla base del quesito esposto e delle considerazioni svolte, al fine di usucapire la servitù di passaggio è necessario in primo luogo che il richiedente ne dimostri l'apparenza, sulla scorta di quanto detto; inoltre dovrà dimostrarne il passaggio pacifico, continuato ed ininterrotto per 20 anni, potendo fare leva sul suo possesso attuale e su quello esercitato quale nudo proprietario (salvo giovarsi del possesso della madre). Potrà decidere di agire previa nomina di amministratore condominiale (tenendo conto di quanto esposto) o egli stesso quale proprietario del fondo.
Per accertare l'avvenuta usucapione (fermo quanto già detto nel merito) è necessario che egli agisca con l'azione ex art. 1079 c.c., al fine di ottenere una sentenza dichiarativa del suo diritto e della cessazione di eventuali turbative. Potrà però anche agire per la reintegra del possesso (art. 1168 c.c.), per ottenerne tutela immediata contro lo spoglio altrui. L'azione è concessa al possessore (in questo caso del diritto di servitù) che dimostri di essere tale e che agisca entro un anno dallo spoglio.

Paola T. chiede
mercoledì 18/11/2015 - Veneto
“Buongiorno avvocati,
io sono vedova e invalida al 100% da 5 anni, dopo un ictus.
Con me vive mia sorella, ospitata 25 anni fa, da me e mio marito, perché rimasta sola e senza figli, ma con altre sorelle.
Ora mia sorella si è allettata e mi chiedevo se le mie figlie, che non abitano con me e si alternano per accudirmi, sono obbligate a farlo anche nei confronti della zia.
La situazione è insostenibile, quindi abbiamo pensato a una casa di riposo. Essendo mia sorella nullatenente e con una pensione al minimo, che finora ha versato in casa per il suo sostentamento, io posso obbligare le altre sorelle a concorrere all'integrazione della retta della casa di riposo?
Resto in attesa di una Vs. risposta, e vi chiedo quale procedura seguire in caso di parere favorevole. Grazie.”
Consulenza legale i 23/11/2015
Con il quesito si pongono due domande:
- le nipoti (figlie di sorella) hanno obbligo di accudire la zia?
- le sorelle di una donna priva di risorse per la propria sopravvivenza, devono aiutarla economicamente?

La risposta alla prima domanda è negativa.
Va premesso che non esiste un vero e proprio obbligo di prendersi cura personalmente di un parente (al di fuori del rapporto genitori-figli, che ha una disciplina più stringente, soprattutto, quando i figli sono minori).
La legge prevede un obbligo di reciproca assistenza tra parenti con l'istituto degli alimenti (artt. 433-448), che di norma sono costituiti da una somma di denaro.
Le nipoti da parte di sorella, però, non fanno parte dei soggetti obbligati per legge a prestare gli alimenti. Difatti, ai sensi dell'art. 433 risultano obbligati, nell'ordine, solo
1) il coniuge;
2) i figli anche adottivi, e, in loro mancanza, i discendenti prossimi;
3) i genitori e, in loro mancanza, gli ascendenti prossimo, anche naturali; gli adottanti;
4) i generi e le nuore;
5) il suocero e la suocera;
6) i fratelli e le sorelle germani o unilaterali, con precedenza dei germani sugli unilaterali.
Al più, le nipoti possono risultare obbligate se hanno ricevuto dalla zia una donazione, e risultano essere quindi donatarie (vedi art. 437 del c.c.).

Quanto alla seconda questione, la risposta è certamente positiva, in virtù sempre dell'obbligo alimentare previsto per legge.
Dal punto di vista giuridico, i fratelli/sorelle hanno l'obbligo di corrispondere alla sorella gli alimenti, cioè di regola una somma di denaro stabilita dal giudice.
Presupposti per l'accoglimento della domanda di alimenti sono che la persona si trovi in stato di bisogno economico e che i soggetti obbligati abbiano le risorse economiche per poter sostenere la contribuzione a favore del familiare.

L'ammontare dovuto a titolo di alimenti è limitato al necessario per la vita dell'alimentando (in ciò gli alimenti si differenziano dal mantenimento).
Va precisato, inoltre, che l'art. 439 del c.c. stabilisce, nel caso specifico del rapporto tra fratelli e sorelle, che gli alimenti sono dovuti nella misura dello "stretto necessario": con questa espressione ci si riferisce ai bisogni primari dell'individuo, quindi vitto, alloggio, vestiario, cure mediche, con esclusione di tutti i bisogni ulteriori. Nel caso di una persona anziana, gli unici bisogni sono di norma proprio quelli primari: per questo, si ritiene che la misura degli alimenti possa corrispondere alla retta dell'istituto di cura che l'anziano eventualmente non riesca a sopportare integralmente con i propri redditi.

Per quanto riguarda la suddivisione dell'obbligo alimentare, non risulta alcuna precisa prescrizione di legge.
Tale aspetto viene lasciato in primis alle parti, che mediante accordo possono stabilire in che percentuale contribuire ai bisogni dell'alimentando; oppure affidato al giudice, in caso di disaccordo tra gli obbligati.
Va chiarito che l'obbligo alimentare sorge esclusivamente in base ad un provvedimento dell'autorità giudiziaria. Ciò implica due cose:
- che quanto dato spontaneamente dai parenti prima dell'emissione di un tale ordine giudiziale ha carattere volontario, quindi può essere conferito nella misura che le parti concordemente preferiscono;
- che, prima della sentenza, non esiste per nessuno l'obbligo di versare gli alimenti alla persona bisognosa, di conseguenza non esiste un diritto agli "arretrati".

In assenza di accordo tra le sorelle, la sorella bisognosa deve adire il Tribunale.
Il procedimento è un normale giudizio civile (dalla durata, quindi, non prevedibile), nel corso del quale si può chiedere un provvedimento del presidente del tribunale con cui sia disposto un assegno in via provvisoria (art. 446 del c.c.): l'ordinanza sarà un provvedimento interinale e modificabile dal giudice, non reclamabile e destinato a venire inglobato nella sentenza che fisserà gli alimenti.
E' legittimata ad agire in giudizio la persona che versi in stato di bisogno, eventualmente rappresentata da un amministratore di sostegno o tutore nel caso in cui vi sia una incapacità parziale o totale della persona.
Il giudice dovrà valutare con prudente apprezzamento la situazione esposta dalle parti in giudizio e determinare l'entità degli alimenti dovuti e il modo in cui dovranno essere somministrati.
Per instaurare il procedimento è necessario rivolgersi ad un avvocato.

In ogni caso, non va dimenticato che gli alimenti sono dovuti solo da chi abbia le capacità economiche per prestarli: quindi, se anche una persona sia nel bisogno, ma la persona obbligata (nel nostro caso, le sorelle) non abbia la capacità economica per sostenere un obbligo alimentare, questo non può essere disposto a suo carico dal giudice. Si tratta di una valutazione rimessa alla discrezionalità dell'autorità giudiziaria.