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Impugnazione del testamento olografo: la Cassazione chiarisce su chi ricade l’onere di provare la sua non autenticità

Eredità - -
Impugnazione del testamento olografo: la Cassazione chiarisce su chi ricade l’onere di provare la sua non autenticità
Chi agisce contro l’erede testamentario deve proporre azione di accertamento negativo dell’autenticità del testamento e ricade su di lui il relativo onere probatorio.
La Sesta Sezione Civile della Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 24749/2019, ha avuto modo di pronunciarsi in merito al problema relativo alla prova della non autenticità del testamento olografo.

La questione sottoposta all’esame degli Ermellini era nata in seguito all’impugnazione del testamento olografo con cui la testatrice aveva istituito una donna quale sua erede universale, deducendo la falsità della scheda testamentaria e, comunque, l’incapacità di intendere e di volere della de cuius.

Sia il Tribunale che la Corte d’Appello, però, rigettavano le istanze attoree. La Corte territoriale, in particolare, riteneva che gli attori non avessero adempiuto né all’onere, gravante su di essi, di provare la falsità del testamento, sottolineando come, per contro, la convenuta, designata erede universale, avesse fornito, per testi, la prova della relativa autenticità, né all’onere di provare il dedotto stato di incapacità naturale della dante causa al momento della redazione del testamento.

Rimasti soccombenti all’esito di entrambi i gradi del giudizio di merito, gli originari attori decidevano di ricorrere dinanzi alla Corte di Cassazione, denunciando, in primo luogo, la violazione degli artt. 216 e 214 del c.p.c., in quanto la Corte d’Appello, a loro avviso, aveva errato nel ritenere autentico un testamento che essi avevano disconosciuto sin dal proprio atto di citazione.

Con un secondo motivo di ricorso, si denunciava l’erroneità e la contraddittorietà della motivazione fornita dai Giudici d’appello, nonché la violazione degli artt. 216 e 217 del c.p.c., anche in relazione agli artt. 115 e 116 del c.p.c. Secondo i ricorrenti, infatti, la Corte territoriale aveva errato nel ritenere raggiunta la prova che il testamento impugnato fosse stato redatto di propria mano dalla de cuius, senza che essa fosse stata a ciò istigata o costretta da chi vi avesse interesse.

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso.

In relazione al primo motivo di doglianza, gli Ermellini hanno, innanzitutto, evidenziato come, in realtà, la decisione impugnata risulti conforme al costante orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui chi agisce contro l’erede testamentario deve proporre azione di accertamento negativo dell’autenticità del testamento olografo ed è onerato del relativo onere probatorio (cfr. ex multis Cass. Civ., SSUU, n. 12307/2015; Cass. Civ., n. 24814/2018; Cass. Civ., n. 18363/2018).

In relazione, poi, alla tesi dei ricorrenti, per cui l’art. 216 del c.p.c. porrebbe a carico di chi intenda valersi di un testamento l’onere di proporre istanza di verificazione, qualora lo stesso venga disconosciuto, la stessa Cassazione ha già avuto modo di ribadire che il testamento olografo non è contestabile attraverso il procedimento previsto per le altre scritture private, in quanto tale negozio, pur gravitando nell’orbita delle scritture private, non può essere equiparato, in modo semplicistico, ad una qualsiasi scrittura proveniente da terzi, destinata, come tale, a rappresentare, quoad probationis, un’ordinaria forma di scrittura privata non riconducibile alle parti in causa (Cass. Civ., n. 18363/2018).

Quanto, poi, al secondo motivo di ricorso, gli Ermellini ne hanno dichiarato l’inammissibilità, risolvendosi, esso, in una mera istanza di revisione, da parte della Cassazione, delle valutazioni e dei convincimenti del Giudice di merito. La Corte di legittimità ha, infatti, più volte affermato che, nel giudizio di Cassazione, la parte non può censurare “la complessiva valutazione delle risultanze processuali contenuta nella sentenza impugnata, contrapponendo alla stessa una sua diversa interpretazione, al fine di ottenere la revisione da parte del giudice di legittimità degli accertamenti di fatto compiuti dal giudice di merito(Cass. Civ., n. 7972/2007).

Secondo il costante parere della Suprema Corte, dunque, le censure poste a fondamento del ricorso non possono risolversi nella sollecitazione ad una lettura delle risultanze processuali diversa da quella operata dal Giudice di merito, o investire la ricostruzione della fattispecie concreta, o riflettere un apprezzamento dei fatti e delle prove difforme da quello dato dal Giudice di merito.


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