La decisione che ci accingiamo a esaminare scaturisce da una sentenza del Tribunale di Cosenza, resa in materia previdenziale. In particolare, per quanto qui specificamente interessa, all’esito del procedimento il giudice di merito aveva condannato l'INPS alla rifusione delle spese di lite, liquidate in complessivi Euro 1.932,00, oltre accessori e spese della consulenza tecnica d'ufficio espletata in corso di causa.
Avverso tale sentenza l’attrice proponeva ricorso per Cassazione, basato su un solo motivo. L'Istituto previdenziale resisteva con controricorso.
In particolare, con l’unico motivo di impugnazione, la ricorrente lamentava:
1) violazione e falsa applicazione delle seguenti norme:
- art. 9 del D.L. n. 1/2012, convertito con modificazioni nella L. n. 27/2012;
- art. 13 della legge n. 247/2012 (Legge professionale forense);
- D.M. n. 55/2014, aggiornato sulla base del D.M. n. 147/2022;
- art. 1 del D.M. n. 37/2018;
- art. 111, comma 7 della Costituzione;
2) insufficiente e contraddittoria motivazione circa i punti decisivi della controversia, in relazione all'art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c., per avere il Tribunale liquidato le spese legali in violazione dei parametri fissati dal D.M. n. 55/2014, modificato dal D.M. n. 37/2018 e successivamente aggiornato sulla base del D.M. n. 147/2022, liquidando al di sotto dei parametri minimi, per la "particolare semplicità della controversia" ma, con ciò, ledendo la dignità professionale del difensore, il quale si era visto corrispondere un compenso, di fatto irrisorio, che sminuiva e sviliva ogni tipo di attività difensiva svolta.
La questione riguardava la possibilità, per il giudice, in caso di liquidazione delle spese di lite a carico del soccombente, di derogare - sia pure in maniera motivata - ai minimi dettati dai parametri di cui alla L. n. 247 del 2012, art. 13, per effetto della novella del D.M. n. 55 del 2014, operata dal D.M. n. 37 del 2018, e confermata dalle previsioni di cui al D.M. n. 147 del 2022.
La S.C. ha ritenuto fondato il ricorso, sulla base delle argomentazioni che saranno di seguito esposte.
Si parte da una articolata premessa circa le norme vigenti in tema di determinazione dei compensi degli avvocati.
In primo luogo, l’art. 13 della Legge professionale forense stabilisce, al comma 6, che "i parametri indicati nel decreto emanato dal Ministro della giustizia, su proposta del CNF, ogni due anni, ai sensi dell'art. 1, comma 3, si applicano quando all'atto dell'incarico o successivamente il compenso non sia stato determinato in forma scritta, in ogni caso di mancata determinazione consensuale, in caso di liquidazione giudiziale dei compensi e nei casi in cui la prestazione professionale è resa nell'interesse di terzi o per prestazioni officiose previste dalla legge".
Il successivo comma 7 della medesima disposizione aggiunge che "i parametri sono formulati in modo da favorire la trasparenza nella determinazione dei compensi dovuti per le prestazioni professionali e l'unitarietà e la semplicità nella determinazione dei compensi".
In attuazione dell’art. 13 citato veniva emesso il D.M. 10 marzo 2014, n. 55, che ha sostituito integralmente, per gli esercenti la professione forense, sia la parte generale sia quella che era loro specificamente dedicata (artt. 2 - 14) del previgente D.M. 20 luglio 2012, n. 140.
Così spiega la Corte nella pronuncia in esame: “la novella, pur avendo lasciato immutato il criterio di liquidazione, per le quattro fasi processuali distinte già individuate, secondo una ripartizione valida per tutti gli organi giurisdizionali davanti ai quali venga svolta l'attività, e onnicomprensive, ha però nella sostanza confermato la possibilità di deroga ai valori minimi e massimi, quali scaturenti dalle percentuali di aumento e diminuzione massimi che il giudice può apportare ai valori medi, essendo stato valorizzato l'utilizzo dell'inciso "di regola" per indicare l'entità dell'aumento o della diminuzione, in quanto volto a sottendere come tali indicazioni non sono vincolanti per il giudice che può quindi anche discostarsi da esse nella misura che ritenga adeguata al caso specifico, purché ne dia conto in motivazione”.
Un’ulteriore modifica di tale quadro normativo è avvenuta a seguito dell'entrata in vigore del D.M. n. 37 del 2018, avvenuta il 27 aprile 2018, che ha modificato solo alcune delle previsioni del D.M. n. 55 del 2014, integrando - per ciò che qui rileva - i parametri per la determinazione dei compensi, sia per l'attività giudiziale che per quella stragiudiziale (rispettivamente artt. 4 e 19), precisando che la riduzione, rispetto al valore medio di liquidazione, non può essere superiore alla misura del 50% (per la sola fase istruttoria fino al 70%), mentre l'aumento può essere anche superiore alla percentuale fissata di regola nell'80%, eliminando per il potere di riduzione l'espressione "di regola" che aveva, appunto, giustificato l'interpretazione volta a consentire, sia pure con motivazione, la liquidazione anche al di sotto dei minimi tariffari.
In proposito, la Corte richiama il parere reso dal Consiglio di Stato sullo schema del decreto del 2018 (parere numero 02703/2017 del 27/12/2017), nel quale si sottolinea come tra gli obiettivi del Ministero vi fosse anche quello di "superare l'incertezza applicativa ingenerata dalla possibilità, nell'attuale sistema parametrale, che il giudice provveda alla liquidazione del compenso dell'avvocato senza avere come riferimento alcuna soglia numerica minima, rendendo inadeguata la remunerazione della prestazione professionale", limitando quindi "il perimetro di discrezionalità riconosciuto al giudice, individuando delle soglie minime percentuali di riduzione del compenso rispetto al valore parametrico di base al di sotto delle quali non è possibile andare".
Nel parere - aggiunge il Supremo Collegio - si sottolineava altresì come la modifica proposta non si palesasse in contrasto neppure con la normativa comunitaria in materia, anche alla luce della sentenza n. 427 del 23 novembre 2017 della Corte di Giustizia dell'Unione Europea.
A favore del principio della inderogabilità dei minimi i giudici di legittimità menzionano un ulteriore argomento, di carattere sistematico, relativo alla pressoché coeva introduzione della disciplina in tema di "equo compenso" per le attività professionali svolte in favore di imprese bancarie e assicurative, nonché di imprese non rientranti nelle categorie delle microimprese o delle piccole o medie imprese, previsto dall'art. 13 bis, comma 1 Legge professionale forense, introdotto dal D.L. 16 ottobre 2017, n. 148, convertito con modificazioni dalla L. 4 dicembre 2017, n. 172 (articolo ora abrogato, n.d.r.).
Da tale attenta disamina del quadro normativo vigente emerge dunque, secondo la Corte, la “evidente volontà del legislatore di assimilare i parametri minimi fissati dall'apposito decreto alla misura dell'equo compenso, trattandosi di esigenza che trova un suo fondamento costituzionale nell'art. 35, e che si giustifica al fine di impedire la conclusione di accordi volti a mortificare la professionalità dell'esercente la professione forense, con la fissazione di compensi meramente simbolici e non consoni al decoro della professione”.
Infine, la sentenza che stiamo esaminando provvede a sgombrare il campo da eventuali obiezioni, riguardanti la compatibilità della inderogabilità dei minimi tariffari con la legislazione europea.
A tal fine la Corte cita espressamente una serie di pronunce della Corte di Giustizia UE che esplicitamente hanno escluso la paventata incompatibilità.
Più precisamente, la non contrarietà ai principi comunitari deriva da diversi ordini di motivi:
- le tariffe, sebbene predisposte dal CNF, sono poi “sottoposte al vaglio ed al controllo dell'autorità statale, essendo la loro approvazione oggetto di una trasposizione in decreti ministeriali, e con la formulazione di un preventivo parere da parte del Consiglio di Stato”;
- resta impregiudicata la possibilità, per le parti, di concludere accordi anche in deroga alle previsioni tariffarie, essendo l'inderogabilità dettata per il caso di assenza di pattuizioni ovvero di liquidazione giudiziale in danno della parte soccombente;
- la predetta inderogabilità “trascende il mero interesse privato della categoria professionale” per assolvere alla tutela di interesse di carattere pubblico. È in gioco, infatti, non una semplice questione di ordine economico, bensì la “tutela dell'indipendenza e dell'autonomia del professionista”, che investe non solo l’esigenza di assicurare la qualità e il livello della prestazione offerta, ma altresì la stessa “adeguata assicurazione del diritto di difesa, impedendo che possano essere superati gli standard minimi di diligenza e cura degli interessi del cliente, che viceversa tariffe eccessivamente mortificanti potrebbero compromettere”.
Da tutto ciò consegue - conclude la Suprema Corte - l’accoglimento del ricorso, accompagnato dall’enunciazione del principio di diritto sopra riportato, il quale si colloca nel solco di numerose precedenti decisioni della Cassazione (tra le tante, 24993/2023, 10438/2023, 9815/2023, 30154/2024).