La Corte di Cassazione penale, con la recente pronuncia n. 30279, è intervenuta su una vicenda che riguarda i diritti televisivi delle pay-tv e la trasmissione di programmi criptati all'interno di locali pubblici, ossia temi molto discussi e controversi in questi ultimi anni. Infatti, da un lato ci sono le emittenti, che rivendicano i costosi diritti d'autore per la trasmissione delle partite, mentre dall'altro troviamo i gestori di bar e pizzerie, che talvolta lamentano abbonamenti commerciali troppo onerosi rispetto a quelli domestici. Ne deriva un conflitto costante tra tutela dei diritti di natura economica delle televisioni e libertà di fruizione collettiva degli eventi sportivi, di cui è un esempio pratico un caso finito all'attenzione della magistratura, che offre l'occasione per fare il punto sugli obblighi dei titolari di esercizi commerciali e sul confine tra violazione del diritto d'autore e utilizzo ammesso degli abbonamenti domestici.
Il contesto normativo di riferimento ci ricorda che la materia è disciplinata dalla legge n. 633 del 22 aprile 1941, la storica Legge sulla protezione del diritto d'autore che protegge i diritti di sfruttamento delle opere dell'ingegno, comprese le trasmissioni televisive criptate. In virtù di queste norme, le emittenti a pagamento distinguono nettamente gli abbonamenti domestici, riservati all'uso privato e familiare, dagli abbonamenti commerciali - rivolti a bar, ristoranti e pizzerie - aventi un costo più alto perché destinati alla fruizione pubblica della clientela dell'attività commerciale.
Ebbene, per legge, l'uso di una smart card o di una tessera domestica in un locale pubblico è da ritenersi - in linea generale - vietato e, anzi, può integrare un'ipotesi di violazione dei diritti d'autore, con possibili risvolti di natura penale. La specifica vicenda pratica traeva origine dalla trasmissione del derby capitolino Lazio-Roma, in data 9 ottobre 2020, in una pizzeria di Reggio Calabria. Come acclarato nel corso della disputa giudiziaria, il titolare aveva inserito nel decoder del locale una tessera Mediaset Premium per uso domestico, diffondendo così la partita su tre televisori, visibili ai clienti presenti. Seguì la denuncia da parte dell'emittente televisiva e un percorso giudiziario che vide, in secondo grado, la condanna del titolare per violazione della legge sul diritto d'autore.
Secondo i giudici dell'appello, infatti, l'uso dell'abbonamento domestico in un locale pubblico costituiva di per sé reato punibile ai sensi del comma primo, lett. a), b) ed e) dell'art. 171 ter della legge d. autore. Il titolare non accettò però l'esito giudiziario e - con ricorso - si rivolse alla Suprema Corte. In particolare, l'uomo riteneva che la proiezione della partita non avesse avuto alcun fine di lucro, né essa era stata pubblicizzata per aumentare il numero dei clienti della pizzeria. I giudici di piazza Cavour sono giunti a una soluzione diversa da quella del precedente grado di giudizio. Infatti, la Cassazione - decidendo non in modo opposto alla tesi del Procuratore generale - non ha confermato la condanna, ma ha annullato con rinvio la sentenza d'appello, imponendo un nuovo esame della controversia.
Ciò perché, secondo i giudici di legittimità, non basta accertare che sia stata utilizzata una tessera domestica in luogo di un abbonamento per locali commerciali, al fine di condannare penalmente qualcuno, ma è necessario altresì verificare, di volta in volta, la sussistenza del fine di lucro, vale a dire la volontà di trarre un vantaggio economico dalla trasmissione della partita di calcio o di altro evento sportivo. Altrimenti il fatto non costituisce reato. E attenzione, perché la Corte di Cassazione ha spiegato altresì che il lucro non può essere in alcun modo presunto, ma deve essere evidenziato - con ragionamento logico-giuridico - da parte del giudice di merito, ad esempio chiarendo che la partita ha effettivamente attirato più clienti, o determinato una maggior incasso del locale di ristorazione.
Come si può leggere dal testo della citata sentenza n. 30279, la Corte d'Appello non aveva verificato se la trasmissione dell'incontro di calcio avesse di fatto incrementato i guadagni del titolare della pizzeria. E, come accennato sopra, lo stesso imputato aveva dichiarato che l'evento non era stato pubblicizzato e non aveva determinato un aumento di avventori.
La decisione della Cassazione ha una portata generale, perché fissa alcuni punti fermi. In particolare, mette in luce un aspetto chiave: contrariamente alla tesi dell'emittente televisiva, la differenza tra uso privato e comunicazione pubblica non basta, da sola, a configurare una responsabilità penale. Infatti, l'illecito penale insorge esclusivamente se l'utilizzo dell'abbonamento domestico è finalizzato a un guadagno, diretto o indiretto, da parte del titolare del locale. E questo va sempre dimostrato, perché altrimenti - in nessun caso pratico - è possibile parlare automaticamente di violazione punibile della legge sul diritto d'autore.
Questo è quanto sul fronte penale, ma ciò non toglie che - dal lato squisitamente civilistico - una pay-tv non possa chiedere, e ottenere, un risarcimento danni ai sensi dell'art. 2043 del c.c., per uso improprio del segnale. Concludendo, la sentenza della Cassazione penale n. 30279 costituisce certamente un significativo precedente in materia di uso dei canali televisivi a pagamento in modo conforme alla legge, da parte dei pubblici esercizi. In mancanza della prova del fine di lucro, la condanna penale va annullata e - nel caso concreto qui citato - sarà ora compito della Corte d'Appello, in differente composizione, verificare se la trasmissione della partita abbia davvero generato un incremento economico per il locale, non adeguatamente "controbilanciato" da un più oneroso abbonamento a norma e per locali pubblici. Solo in presenza di questa prova potrà dirsi integrato il reato di violazione del diritto d'autore, altrimenti il fatto non costituisce illecito penale e il titolare andrà assolto.
Il contesto normativo di riferimento ci ricorda che la materia è disciplinata dalla legge n. 633 del 22 aprile 1941, la storica Legge sulla protezione del diritto d'autore che protegge i diritti di sfruttamento delle opere dell'ingegno, comprese le trasmissioni televisive criptate. In virtù di queste norme, le emittenti a pagamento distinguono nettamente gli abbonamenti domestici, riservati all'uso privato e familiare, dagli abbonamenti commerciali - rivolti a bar, ristoranti e pizzerie - aventi un costo più alto perché destinati alla fruizione pubblica della clientela dell'attività commerciale.
Ebbene, per legge, l'uso di una smart card o di una tessera domestica in un locale pubblico è da ritenersi - in linea generale - vietato e, anzi, può integrare un'ipotesi di violazione dei diritti d'autore, con possibili risvolti di natura penale. La specifica vicenda pratica traeva origine dalla trasmissione del derby capitolino Lazio-Roma, in data 9 ottobre 2020, in una pizzeria di Reggio Calabria. Come acclarato nel corso della disputa giudiziaria, il titolare aveva inserito nel decoder del locale una tessera Mediaset Premium per uso domestico, diffondendo così la partita su tre televisori, visibili ai clienti presenti. Seguì la denuncia da parte dell'emittente televisiva e un percorso giudiziario che vide, in secondo grado, la condanna del titolare per violazione della legge sul diritto d'autore.
Secondo i giudici dell'appello, infatti, l'uso dell'abbonamento domestico in un locale pubblico costituiva di per sé reato punibile ai sensi del comma primo, lett. a), b) ed e) dell'art. 171 ter della legge d. autore. Il titolare non accettò però l'esito giudiziario e - con ricorso - si rivolse alla Suprema Corte. In particolare, l'uomo riteneva che la proiezione della partita non avesse avuto alcun fine di lucro, né essa era stata pubblicizzata per aumentare il numero dei clienti della pizzeria. I giudici di piazza Cavour sono giunti a una soluzione diversa da quella del precedente grado di giudizio. Infatti, la Cassazione - decidendo non in modo opposto alla tesi del Procuratore generale - non ha confermato la condanna, ma ha annullato con rinvio la sentenza d'appello, imponendo un nuovo esame della controversia.
Ciò perché, secondo i giudici di legittimità, non basta accertare che sia stata utilizzata una tessera domestica in luogo di un abbonamento per locali commerciali, al fine di condannare penalmente qualcuno, ma è necessario altresì verificare, di volta in volta, la sussistenza del fine di lucro, vale a dire la volontà di trarre un vantaggio economico dalla trasmissione della partita di calcio o di altro evento sportivo. Altrimenti il fatto non costituisce reato. E attenzione, perché la Corte di Cassazione ha spiegato altresì che il lucro non può essere in alcun modo presunto, ma deve essere evidenziato - con ragionamento logico-giuridico - da parte del giudice di merito, ad esempio chiarendo che la partita ha effettivamente attirato più clienti, o determinato una maggior incasso del locale di ristorazione.
Come si può leggere dal testo della citata sentenza n. 30279, la Corte d'Appello non aveva verificato se la trasmissione dell'incontro di calcio avesse di fatto incrementato i guadagni del titolare della pizzeria. E, come accennato sopra, lo stesso imputato aveva dichiarato che l'evento non era stato pubblicizzato e non aveva determinato un aumento di avventori.
La decisione della Cassazione ha una portata generale, perché fissa alcuni punti fermi. In particolare, mette in luce un aspetto chiave: contrariamente alla tesi dell'emittente televisiva, la differenza tra uso privato e comunicazione pubblica non basta, da sola, a configurare una responsabilità penale. Infatti, l'illecito penale insorge esclusivamente se l'utilizzo dell'abbonamento domestico è finalizzato a un guadagno, diretto o indiretto, da parte del titolare del locale. E questo va sempre dimostrato, perché altrimenti - in nessun caso pratico - è possibile parlare automaticamente di violazione punibile della legge sul diritto d'autore.
Questo è quanto sul fronte penale, ma ciò non toglie che - dal lato squisitamente civilistico - una pay-tv non possa chiedere, e ottenere, un risarcimento danni ai sensi dell'art. 2043 del c.c., per uso improprio del segnale. Concludendo, la sentenza della Cassazione penale n. 30279 costituisce certamente un significativo precedente in materia di uso dei canali televisivi a pagamento in modo conforme alla legge, da parte dei pubblici esercizi. In mancanza della prova del fine di lucro, la condanna penale va annullata e - nel caso concreto qui citato - sarà ora compito della Corte d'Appello, in differente composizione, verificare se la trasmissione della partita abbia davvero generato un incremento economico per il locale, non adeguatamente "controbilanciato" da un più oneroso abbonamento a norma e per locali pubblici. Solo in presenza di questa prova potrà dirsi integrato il reato di violazione del diritto d'autore, altrimenti il fatto non costituisce illecito penale e il titolare andrà assolto.