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Non vanno risarcite figlia ed ex moglie non citate nel manifesto funebre del de cuius

Non vanno risarcite figlia ed ex moglie non citate nel manifesto funebre del de cuius
Non provoca alcun danno risarcibile la mancata indicazione dei nomi di figlia ed ex moglie nel manifesto funebre del de cuius.
La Sesta Sezione Civile della Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 797/2020, si è interrogata in merito alla configurabilità di un danno risarcibile in capo all’ex moglie e alla figlia, i cui nominativi non siano stati indicati nel manifesto funebre del loro ex marito e padre, fatto redigere dalla sua nuova compagna.

La vicenda giudiziaria sottoposta all’esame dei giudici di legittimità vedeva come protagoniste due donne, madre e figlia, le quali erano venute a conoscenza della morte del loro, rispettivamente, ex marito e padre, soltanto attraverso l’affissione del suo manifesto funebre, nel quale, però, mancava l’indicazione dei loro nomi tra quelli dei parenti. In seguito all’accaduto, le due donne citavano in giudizio la nuova compagna del de cuius, la quale, peraltro, si era erroneamente identificata come moglie nel manifesto incriminato, chiedendone la condanna al risarcimento dei danni subiti, considerato anche che, essendo tra loro intervenuta soltanto la separazione legale, lo status di moglie del defunto andava attribuito ancora alla ricorrente.

Sia il Tribunale che la Corte d’Appello, tuttavia, rigettavano le istanze attoree, giudicandole infondate.

Rimasta soccombente ed essendo, nel frattempo, venuta a mancare anche la madre, la figlia decideva di ricorrere dinanzi alla Corte di Cassazione, sia in proprio che in qualità di erede della madre.
Con il proprio atto di ricorso la donna eccepiva, innanzitutto, la violazione e falsa applicazione degli articoli 2 e 22 Cost., degli articoli 6, 130 e 131 del Codice Civile, nonché dell’art. 132 c.p.c. La donna, infatti, dopo aver preliminarmente evidenziato come quello al nome sia un diritto tutelato a livello costituzionale come diritto fondamentale, ha eccepito il fatto che la sentenza impugnata difettasse di motivazione in ordine alla questione relativa al possesso di stato proprio e della defunta madre, rispettivamente figlia e moglie del de cuis, in quanto tra i due ex coniugi non era intervenuto il divorzio ma soltanto la separazione personale.

Parimenti si eccepiva la violazione e falsa applicazione degli articoli 130, 131, 1226 e 2043 del Codice Civile, in relazione al mancato riconoscimento del diritto al risarcimento del danno. La ricorrente, con tale motivo di ricorso, evidenziava come, al momento della morte del padre, la sua nuova compagna, contrariamente a quanto dalla stessa fatto scrivere nel manifesto funebre, non fosse sua moglie. L’unica a potersi fregiare di tale titolo in quel momento era, infatti, sua madre, la quale risultava essere soltanto legalmente separata dal de cuius, non essendo mai intervenuta una sentenza di divorzio. Alla luce di tali circostanze, dunque, secondo la donna, diversamente da quanto ritenuto dai giudici di merito, non poteva non considerarsi integrata una lesione risarcibile del diritto al nome proprio della vera moglie del defunto.

Si lamentava, infine, la violazione, unitamente all’art. 2043 c.c., anche degli articoli 132 e 184 c.p.c., derivante dal fatto che, secondo la ricorrente, la Corte d’Appello aveva erroneamente ritenuto quali rinunciate le sue richieste probatorie, perché non riproposte in sede di precisazione delle conclusioni nel giudizio di secondo grado.

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso.
Per quanto riguarda i primi due motivi, relativi all’asserita lesione del diritto al nome della ricorrente e della defunta madre, gli Ermellini hanno, preliminarmente, precisato che il manifesto funebre non può, di per sé solo, essere idoneo a cagionare una lesione dello status di moglie e figlia delle ricorrenti.
Anche alla luce di tale circostanza, i giudici di legittimità non hanno potuto che conformarsi alla decisione dei giudici di merito di non riconoscere alle ricorrenti il diritto ad essere risarcite, evidenziando come le stesse si sia siano limitate ad insistere nel lamentare una lesione del proprio diritto al nome, senza, però, provare in alcun modo il danno di cui chiedevano il risarcimento.

In merito, infine, all’asserita mancata ammissione di prove decisive da parte della Corte d’Appello, i giudici di Cassazione non hanno potuto far altro che ritenere inammissibile il relativo motivo di ricorso, considerato che la ricorrente non aveva dichiarato nulla in merito a tali mezzi di prova né alla loro decisività.


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