Per queste parole, pronunciate a scuola, la Corte di Appello, Sezione minorenni, di Milano confermava la sentenza di condanna emessa a carico dell'imputato in relazione al reato di resistenza a pubblico ufficiale, di cui all’art. 337 del c.p..
In particolare, il ragazzo avrebbe rivolto le espressioni minacciose, sopra riportate, nei confronti del professore di educazione fisica durante una lezione.
La difesa del giovane proponeva ricorso per Cassazione, articolandolo sulla base di due motivi.
Con il primo motivo, l’imputato lamentava violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla stessa configurabilità del reato di cui all'art. 337 c.p.
Secondo la tesi difensiva, la frase - rivolta dall'alunno al proprio insegnante - non sarebbe stata in alcun modo diretta ad ostacolare un atto d'ufficio.
Ad avviso dei legali del ragazzo, infatti, la Corte di Appello avrebbe “indebitamente valorizzato” il collegamento tra la frase minacciosa e la precedente sottoposizione del minore alla sanzione disciplinare della sospensione per 25 giorni dalla frequenza delle lezioni.
In realtà, però, al momento della condotta - contestata ai sensi dell’art. 337 c.p. - la sospensione era stata già irrogata, sicché non poteva sussistere alcun nesso tra la minaccia e l'esercizio della pubblica funzione.
Con il secondo motivo, veniva dedotto il vizio di motivazione in ordine al mancato riconoscimento della particolare tenuità del fatto.
Gli Ermellini hanno ritenuto fondato il ricorso. Esaminiamo brevemente le ragioni della decisione dei giudici di legittimità.
Secondo la S.C., il primo motivo di ricorso pone la questione della corretta qualificazione giuridica della condotta che, in punto di fatto, è stata compiutamente accertata.
In base alle risultanze istruttorie l'imputato, durante lo svolgimento di una lezione di educazione fisica, avrebbe proferito, all’indirizzo del proprio insegnante, la frase che abbiamo trascritto in apertura del presente articolo.
Ora, secondo la Cassazione, “il senso della frase può essere compiutamente colto solo premettendo che l'imputato era stato sottoposto alla sanzione disciplinare della sospensione e, quindi, la frase si poneva chiaramente quale una forma di indebita rimostranza avverso un provvedimento già in precedenza adottato”.
Proprio in virtù di ciò, il Supremo Collegio ha ritenuto fondata la tesi difensiva, volta a negare la configurabilità del delitto di resistenza a pubblico ufficiale, in quanto la condotta minatoria non sarebbe stata posta in essere "per opporsi" al compimento di un atto da parte del pubblico ufficiale; piuttosto, si sarebbe trattato della “manifestazione di una personale avversione indotta da fatti precedenti”.
La Corte procede poi ad illustrare meglio il proprio convincimento, ricordando come il reato di resistenza a pubblico ufficiale presupponga espressamente che la condotta illecita sia finalisticamente diretta ad impedire il compimento di un atto d'ufficio: pertanto, per la sua sussistenza, è richiesto il dolo specifico.
Richiamando la propria consolidata giurisprudenza, la S.C. ribadisce, infatti, che - nel delitto di resistenza a pubblico ufficiale - il dolo specifico “si concreta nel fine di ostacolare l'attività pertinente al pubblico ufficio o servizio in atto, cosicché il comportamento che non risulti tenuto a tale scopo, per quanto eventualmente illecito ad altro titolo, non integra il delitto in questione. (Sez. 6, n. 36367 del 6/6/2013, Lorusso, Rv. 257100)”.
Logico corollario di quanto sopra è che non integrano il delitto di resistenza a pubblico ufficiale le espressioni di minaccia rivolte a quest'ultimo, quando non rivelino alcuna volontà di opporsi allo svolgimento dell'atto d'ufficio, ma rappresentino piuttosto una forma di contestazione della pregressa attività svolta dal pubblico ufficiale (Sez.6, n. 31544 del 18/6/2009, Graceffo, Rv. 244695).
Pertanto - afferma la Corte di legittimità - il reato di cui all'art. 337 c.p. non può ritenersi consumato se non in presenza di uno stretto collegamento causale, sorretto dal dolo specifico, tra la violenza e le minacce e il compimento di un atto d'ufficio.
Viceversa, non è sufficiente il mero fatto che le minacce siano rivolte ad un pubblico ufficiale in occasione del compimento di un'attività inerente alla sua funzione, in mancanza della volontà e idoneità della condotta ad impedire il regolare svolgimento di un atto d'ufficio.
Facendo applicazione di tali principi alla fattispecie concreta, la Corte osserva come la condotta realizzata dall'imputato sia consistita nel pronunciare una frase minacciosa e lesiva dell'onore del pubblico ufficiale, mentre questi era intento allo svolgimento della propria funzione (tale dovendosi qualificare l'attività di insegnamento).
Tuttavia, secondo la sentenza in esame, “difetta la finalità della minaccia a impedire il compimento dell'atto d'ufficio, posto che i giudici di merito non hanno in alcun modo accertato che la minaccia era diretta ad impedire la prosecuzione della lezione, piuttosto che all'assunzione di ulteriori provvedimenti disciplinari nei confronti dell'alunno”.
Anzi, risulta pacificamente accertato che la minaccia era direttamente collegata ad un atto d'ufficio già integralmente esauritosi, individuabile nella pregressa adozione di un provvedimento di sospensione dalla frequenza delle lezioni.
Concludendo, ad avviso del Collegio, il ricorrente, pronunciando la frase “incriminata”, non aveva inteso impedire il compimento di un atto d'ufficio, bensì aveva assunto una condotta minatoria riferita ad un atto pregresso, già compiutamente posto in essere.
Tuttavia, nell’accogliere il motivo di ricorso relativamente alla erronea configurazione della condotta in termini di resistenza a pubblico ufficiale, la Corte ha precisato la necessità di esaminare la possibilità di sussumere detta condotta nell’alveo di distinte ipotesi di reato.
In astratto, infatti, la frase rivolta all'insegnante ben potrebbe essere ricondotta al reato di minaccia, ex art. 612 del c.p., aggravato ai sensi dell'art. 61, n. 10) c.p., ovvero nella diversa ipotesi di oltraggio a pubblico ufficiale (art. 341 bis del c.p..
Proprio perché l’eventuale diversa qualificazione della condotta richiede una rivalutazione nel merito dei fatti, la Cassazione, nell’annullare la sentenza dei giudici di appello, ha disposto il rinvio ad altra Sezione della medesima Corte di Appello, Sezione minorenni.