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Consulente di parte che nella propria relazione denigra il CTU è diffamazione

Consulente di parte che nella propria relazione denigra il CTU è diffamazione
Il diritto di critica incontra il suo limite nel concetto di continenza, che viene superato in caso di utilizzo di espressioni sarcastiche, infamanti e gratuitamente offensive.
Il caso aveva preso avvio dalla condanna di un consulente tecnico di parte per diffamazione aggravata ai sensi dell’art. 595 comma 3 c.p., per avere questi, nelle proprie osservazioni alla perizia del CTU, offeso la reputazione del collega.
La Corte d’appello aveva confermato la sentenza di primo grado e l’imputato aveva perciò proposto ricorso in Cassazione, sostenendo di aver agito al solo scopo di sottolineare l’erroneità delle conclusioni a cui era giunto il consulente tecnico d’ufficio e di essersi limitato a criticare il suo operato, non certo la sua persona.
La Corte di Cassazione si è espressa con la sentenza n. 12490/2020, rigettando il ricorso. La Suprema Corte ha innanzitutto ribadito la definizione accolta in giurisprudenza del concetto di continenza: si tratta di un requisito necessario per il legittimo esercizio del diritto di critica, nella valutazione del quale “si deve tenere conto del complessivo contesto dialettico in cui si realizza la condotta, allo scopo di verificare se i toni utilizzati dall’agente siano “pertinenti al tema in discussione e proporzionati al fatto narrato e al concetto da esprimere”.
Già in passato la giurisprudenza aveva precisato che il requisito della continenza postula una forma espositiva strettamente funzionale alla finalità di disapprovazione, che non deve sfociare nella gratuita ed immotivata aggressione della reputazione altrui; il contesto in cui la critica viene mossa “non può in alcun modo scriminare l’uso di espressioni che si risolvano nella denigrazione della persona di quest’ultimo in quanto tale”.
Nel caso in esame, secondo la Cassazione, il superamento del limite della continenza era stato correttamente individuato dai giudici di merito, avendo questi evidenziato l’utilizzo da parte dell’imputato di “espressioni gratuitamente denigratorie, sovrabbondanti e sproporzionate rispetto alla finalità di critica tecnico-scientifica cui esse erano destinate nell’ambito della causa civile” (ad esempio, prospettando la sua “incompetenza” o la sua “precaria conoscenza della medicina legale”, etc.).
La Suprema Corte ha inoltre ritenuto infondate le censure relative all'elemento soggettivo: per la configurazione del reato di diffamazione è infatti sufficiente il dolo generico, il quale, comunque, implica l’utilizzo consapevole da parte dell’agente di espressioni comunemente interpretabili come offensive.
Infondato è stato ritenuto pure il secondo motivo di ricorso, con cui l’imputato aveva denunciato il denegato giudizio di prevalenza delle circostanze attenuanti generiche, che erano state concesse. La Cassazione ha ritenuto corretta la scelta della Corte d’appello di operare un giudizio di equivalenza di circostanze eterogenee, in virtù della valorizzazione di molteplici elementi, tra cui la realizzazione del fatto diffamatorio attraverso “l’espletamento di un incarico in ambito giudiziario, la cui delicatezza e rilevanza dovrebbe imporre al consulente di esercitare la propria funzione con particolare scrupolo ed attenzione, anche nella misura delle parole”.


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