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Commette stalking chi assilla la propria ex con il pretesto di vedere il figlio

Commette stalking chi assilla la propria ex con il pretesto di vedere il figlio
Si rende colpevole del reato di stalking chi assilla la propria ex utilizzando il pretesto di chiederle di vedere il figlio.
La Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 10904/2020, si è pronunciata in merito alla configurabilità del delitto di atti persecutori, cosiddetto stalking, di cui all’art. 612 bis del c.p., in capo a colui che perseguiti la propria ex ricorrendo alla scusa di voler esercitare il proprio ruolo di padre.

La questione giuridica nasceva dalla vicenda che vedeva come protagonista un uomo il quale, con il pretesto di voler vedere il figlio e fare il padre, aveva assillato la propria ex compagna, ponendo in essere vere e proprie incursioni nella sua abitazione, danneggiando la sua auto, chiamando ripetutamente, lei e i suoi genitori, a tutte le ore del giorno e della notte, nonché minacciandola di morte e ponendo in essere vari atti vandalici contro beni di sua proprietà.

In seguito a tali fatti, sia il Tribunale che la Corte d’Appello, condannavano l’uomo per il delitto di atti persecutori, punito dall’art. 612 bis c.p.

Di fronte alla condanna inflittagli, l’imputato decideva di ricorrere dinanzi alla Corte di Cassazione lamentando, essenzialmente, come la Corte d’Appello non avesse replicato alle censure da lui sollevate in relazione alla sussistenza del reato. In ragione di ciò riproponeva, di fatto, tutte le doglianze da lui sollevate nel corso del giudizio di merito, le quali, a suo avviso, erano state pretermesse, soffermandosi, in particolare, sull’impossibilità, a suo dire, di poter ritenere configurato il reato contestatogli, nonché sull’inattendibilità della persona offesa e di alcuni testimoni.
Il fondamento del ricorso era da rinvenire nel fatto che, secondo l’imputato, le sue condotte erano state finalizzate, esclusivamente, ad esercitare il proprio diritto di mantenere rapporti affettivi e di frequentazione con il proprio figlio minorenne, avuto dalla relazione intercorsa tra lui e la persona offesa. Alla luce di ciò, secondo il ricorrente, i giudici avrebbero dovuto riconoscere, nei suoi confronti, l’operatività della scriminante dell’aver agito nell’esercizio di un diritto ex art. 51 del c.p., oltre alle attenuanti comuni di cui ai numeri 1, 2 e 5 dell’art. 62 del c.p., e al vincolo di continuazione ex art. 81 del c.p..

La Suprema Corte ha, però, accolto il ricorso limitatamente al mancato riconoscimento del vincolo di continuazione, disponendo il rinvio per un nuovo esame sul punto.

Gli Ermellini hanno, innanzitutto, evidenziato come non rientri tra i loro poteri quello di eseguire una sostanziale rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione di merito, con la conseguenza che una richiesta formulata in tal senso è sempre da ritenere inammissibile (cfr. Cass. Pen., n. 15977/2015).

Quanto, poi, alle dichiarazioni rese dalla persona offesa, i giudici di legittimità hanno precisato che esse, anche in assenza di riscontri estrinseci, possono fondare, da sole, l’affermazione della sussistenza di una responsabilità penale in capo all’imputato, previa verifica, più penetrante e rigorosa rispetto a quella svolta nei confronti dei testimoni, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto. A tal fine, come più volte evidenziato dalla giurisprudenza della stessa Cassazione, il giudice deve indicare gli elementi processuali che siano risultati determinanti per la sua decisione, in modo tale da permettere di individuare l’iter logico-giuridico da lui seguito. Non rileva, invece, a tal fine, il silenzio del giudicante in merito ad una specifica deduzione prospettata dalla difesa, qualora la stessa sia, comunque, disattesa dalla motivazione della decisione considerata nel suo complesso, non essendo necessaria un’esplicita confutazione di ogni singola tesi difensiva (cfr. Cass. Pen., n. 1666/2014).

Sulla base di tali principi, posti in materia di formazione della decisione da parte del giudice, la Suprema Corte ha osservato come i giudici di merito non abbiano assolutamente errato nel ritenere che le condotte vessatorie contestate all’imputato, fossero state dirette esclusivamente contro la sua ex convivente e madre di suo figlio, escludendo, in particolare, che le chiamate, le minacce e i pedinamenti realizzati potessero ritenersi finalizzati ad incontrare o ad avere notizie del figlio, così da non potersi configurare la scriminante ex art 51 c.p.

Per quanto riguarda la lamentata mancata applicazione delle circostanze attenuanti comuni, secondo i giudici di legittimità, sulla base del tenore della sentenza d’appello e della ricostruzione dei fatti, il relativo motivo di ricorso è da considerare "eccentrico".

Meritevole di accoglimento è, invece, stata ritenuta la doglianza relativa al mancato riconoscimento della continuazione con altri fatti decisi con sentenza irrevocabile. La Corte d’Appello si è, infatti, limitata ad escludere il vincolo continuativo sostenendo, semplicemente, che la sola produzione della precedente sentenza, da parte dell’imputato, non fosse idonea a soddisfare l’onere di allegazione che incombe su chi voglia vedersi riconosciuta l’unicità del proprio disegno criminoso.

Al contrario, secondo gli Ermellini, la copia della sentenza prodotta dalla difesa, unitamente al certificato del casellario giudiziale, consentiva ai giudici di merito di verificare la sussistenza di un vincolo di continuazione tra i fatti oggetto di giudizio e quelli già decisi in modo irrevocabile.


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