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L’avvocato risponde di autoriciclaggio se reinveste in un’attività economica il denaro “sporco”

L’avvocato risponde di autoriciclaggio se reinveste in un’attività economica il denaro “sporco”
L’investimento da parte del professionista del denaro proveniente da una truffa ai danni del cliente non costituisce “mera utilizzazione” o “godimento personale” idonei ad escludere il reato di autoriciclaggio.
La Corte di Cassazione, con sentenza n. 36522 del 16 luglio 2019, si è occupata del caso di un professionista, in particolare un avvocato, il quale aveva investito in un’attività di ristorazione il denaro proveniente da una truffa effettuata da lui stesso nei confronti di un proprio cliente.
La “mera utilizzazione o godimento personale” sono previsti dall'art. 648 ter 1 del c.p. come casi di esclusione della punibilità per il reato di autoriciclaggio. Tuttavia, nel caso di specie, non si può ritenere che la destinazione del denaro “sporco” in un’attività commerciale possa costituire un mero uso personale. Di conseguenza, l’avvocato sarebbe punibile a tutti gli effetti per il reato di autoriciclaggio.
Più in particolare, la difesa del professionista ha argomentato osservando come il denaro proveniente della truffa consumata in danno del cliente sia stata utilizzato per avviare un’attività di ristorazione attraverso l’effettuazione di bonifici avvenuta a breve distanza dall’incasso delle somme. Tale modalità di trasferimento del denaro era tracciabile e, per tale motivo, avrebbe manifestato l’assenza di una volontà di camuffare la provenienza illecita del denaro. Tale trasparenza nella gestione del denaro avrebbe viceversa manifestato l'intenzione dell'avvocato di destinare lo stesso al mero uso e godimento personale.
Tuttavia, si legge nella motivazione della sentenza, l’art. 648 ter 1 prevede al primo comma una serie di attività (attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative) tra le quali sicuramente va fatto rientrare l’investimento del denaro “sporco” in un’attività economica di interesse del professionista.
La disposizione in esame, infatti, prevede che commette il reato di autoriciclaggio “chiunque, avendo commesso o concorso a commettere un delitto non colposo, impiega, sostituisce, trasferisce, in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative, il denaro, i beni o le altre utilità provenienti dalla commissione di tale delitto, in modo da ostacolare concretamente l’identificazione della loro provenienza delittuosa”.
I giudici affermano come tali condotte siano notevolmente diverse rispetto all’impiego del denaro per mero uso personale, che integra la clausola di non punibilità prevista al quarto comma dell’art. 648 ter 1.
Nell’analizzare la ratio della clausola di non punibilità, gli ermellini affermano infatti che “la non punibilità trova una sua logica e coerente spiegazione nel divieto di ne bis in idem sostanziale (punizione di due volte per lo stesso fatto) ma solo e solamente a condizione che l’agente si limiti al mero utilizzo o godimento dei beni provento del delitto presupposto senza che ponga in essere alcuna attività decettiva al fine di ostacolarne l’identificazione quand’anche la suddetta condotta fosse finalizzata ad utilizzare o meglio godere dei suddetti beni”.

La non punibilità, in definitiva, va limitata “ai soli casi in cui i beni provento del delitto restino cristallizzati - attraverso la mera utilizzazione o il godimento personale - nella disponibilità dell’agente del reato presupposto, perché solo in tale modo si può realizzare quell’effetto di “sterilizzazione” che impedisce - pena la sanzione penale - la reimmissione nel legale circuito economico”.


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