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Rito abbreviato e integrazione probatoria in appello: quali limiti?

Rito abbreviato e integrazione probatoria in appello: quali limiti?
Nel giudizio di appello all’esito di rito abbreviato il giudice può esercitare il potere di integrazione probatoria con gli stessi limiti del primo grado.
La Corte di Cassazione, con sentenza n. 40550 del 3 novembre 2021, ha affrontato la questione dei limiti dei poteri di integrazione probatoria del giudice d’appello nel giudizio di impugnazione di una sentenza emessa a seguito di rito abbreviato. Sul punto, nello specifico, la Corte ha affermato che trova applicazione anche in secondo grado l’art. 441 co. 5 c.p.p., secondo cui quando il giudice ritiene di non poter decidere allo stato degli atti assume, anche d'ufficio, gli elementi necessari ai fini della decisione.

Sulla questione erano sorti dubbi in quanto il giudizio d’appello ha carattere prettamente “cartolare”, dovendosi esso svolgere prevalentemente sulla base degli atti che sono già stati acquisiti al fascicolo del dibattimento di primo grado. Il secondo grado di giudizio, infatti, poggia su una sorta di presunzione di completezza dell’istruttoria svolta nel grado precedente, sicchè l’assunzione di nuove prove in appello, come regolata dall’art. 603 c.p.p., è evenienza del tutto eccezionale.

Deve tuttavia segnalarsi che per il caso del giudizio abbreviato esiste una specifica norma, cioè l’art. 441 c.p.p., la quale al comma quinto contempla un particolare potere istruttorio che consente al giudice di assumere d’ufficio gli elementi necessari ai fini della decisione.
Tale potere di integrazione probatoria – ricorda la Suprema Corte, richiamando altresì un precedente della Sesta Sezione del 13 aprile 2021 – trova come unico limite il divieto di acquisire elementi totalmente estranei alle indagini svolte, ancorchè in modo incompleto.
Il processo penale, infatti, deve restare un processo a struttura accusatoria sicchè il ricorso ai poteri di cui all’art. 441 co. 5 c.p.p. presuppone l’esistenza di una lacuna investigativa c.d. strutturale. Il potere officioso del giudice, pertanto, richiede “non la totale assenza di informazione probatoria, al cui cospetto alcuna integrazione sarebbe ammissibile, ma esclusivamente l’incompletezza di essa, incompletezza che potrà essere colmata non con l’acquisizione di un qualsiasi elemento ma solo di quelli necessari a decidere”.
La scelta unilaterale del rito abbreviato da parte dell’imputato, quindi, non comporta il diritto assoluto per quest’ultimo ad essere giudicato sulla base dei soli atti disponibili in quel momento, potendo poi il giudice rilevare successivamente l’eventuale incompletezza delle indagini e disporre perciò l’integrazione dell’istruttoria.

Tanto chiarito con riferimento al primo grado, la Suprema Corte con la recente pronuncia si spinge a precisare che il citato principio vale anche per il grado d’appello, essendo l’art. 441 c.p.p. del tutto estensibile anche al giudizio impugnatorio, con i medesimi limiti.

Il caso di specie, in particolare, è giunto all’attenzione della Suprema Corte a seguito della decisione della Corte d’appello di Trieste di acquisire in appello dei documenti sanitari relativi all’imputato (non già esistenti all’epoca dei fatti ma formati al momento della richiesta della Corte distrettuale), documenti che non erano presenti nel fascicolo del PM acquisito dal Tribunale per lo svolgimento del rito abbreviato.
Avverso la pronuncia di seconde cure, infatti, l’imputato aveva proposto ricorso in Cassazione, sostenendo la violazione o falsa applicazione dell’art. 603 c.p.p. atteso che i poteri officiosi di integrazione probatoria possono essere azionati solo in bonam partem, essendo diversamente esclusi dalla richiesta di giudizio abbreviato avanzata dall’imputato.
Nel pronunciare su tale ricorso, quindi, la Suprema Corte ha operato le importanti precisazioni di cui si è dato conto.


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