A seguito di un incidente stradale, un uomo era stato ricoverato presso un ospedale di Roma in gravissime condizioni e lì era stato sottoposto ad un intervento chirurgico d’urgenza. Tuttavia, la vittima recava con sé una dichiarazione dalla quale emergeva la sua volontà di non essere sottoposta, per motivi religiosi, ad alcuna terapia emotrasfusionale e per questo motivo i medici si erano astenuti dal porla in essere.
	Dopo il decesso dell’uomo, i suoi familiari avevano citato in 
giudizio la compagnia assicuratrice del 
responsabile civile dell’incidente, al fine di ottenere il 
risarcimento dei danni.
 
	Il 
Tribunale aveva accolto la domanda, affermando che soltanto il conducente della vettura che aveva investito l’uomo era da considerarsi responsabile; pertanto aveva condannato l’assicurazione al risarcimento dei danni.
 
	Era stato così proposto 
appello da parte della compagnia assicurativa, la quale sosteneva che la morte fosse stata una conseguenza diretta e immediata del rifiuto della vittima di essere sottoposto a trasfusioni di sangue.
 
	La Corte d’appello di Roma aveva parzialmente accolto il ricorso: anche se la causa del 
sinistro era da attribuirsi esclusivamente al conducente sopravvissuto, le possibilità di sopravvivenza del paziente, se fosse stato sottoposto alla trasfusione, si sarebbero aggirate attorno al 50%, e oltre. Dunque, secondo i giudici, la morte dell’uomo era riconducibile in egual misura sia alla condotta del conducente, sia all’esposizione volontaria, da parte della vittima, ad un rischio. Per queste ragioni, tenendo conto dell’
apporto della vittima al verificarsi della propria morte, il 
risarcimento dovuto ai familiari veniva 
ridotto del 50%.
 
	Il caso è giunto fino in 
Corte di Cassazione, che si è pronunciata con la 
sentenza n. 515/2020. La Corte ha innanzitutto evidenziato che 
non vi è alcun obbligo da parte del paziente di sottoporsi ad una cura e non è possibile ricondurre tale rifiuto alla fattispecie di concorso colposo del 
creditore, prevista dall’articolo 
1227, comma 2 del codice civile.
 
	L’articolo 
1227 c.c., prevedendo la diminuzione del risarcimento solamente nel caso in cui anche la vittima abbia 
colpevolmente concorso a cagionare il 
danno, implicitamente 
esclude che lo stesso possa avvenire nel caso in cui a concorrere siano invece state 
cause naturali o condotte non colpevoli.
 
	Ai sensi di tale norma, la 
condotta non colposa è equiparata alla condotta naturale perché, come quest’ultima, non cagiona un danno (ascrivibile alla categoria dei fatti imputabili), ma mere conseguenze negative. Secondo la Corte, dare rilievo alla condotta umana non colpevole significherebbe limitare il risarcimento del danneggiato, gravandolo della quota imputabile all’esercizio del proprio 
diritto.
 
	Di conseguenza, si arrecherebbe, seppur indirettamente, un vulnus ad un diritto - quello di autodeterminazione in tema di rifiuto delle cure - che, invece, sta trovando sempre più spazio e riconoscimento nel nostro ordinamento.
	È, infatti, evidente che, stabilendo una riduzione delle conseguenze risarcitorie nel caso in cui tale diritto venisse esercitato, si finirebbe per intervenire indirettamente sulla sua rilevanza e sull’effettività del suo riconoscimento.