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Pistola giocattolo: quando la rapina è aggravata?

Pistola giocattolo: quando la rapina è aggravata?
Per la Cassazione l’aggravante si applica nel caso in cui non si capisca che l’arma è finta.
L’aggravante dell’uso dell’arma è prevista per il delitto in esame dall’art. 628 co. 3 n. 1) c.p., che dispone la pena della reclusione da sei a venti anni e della multa da 2.000 a 4000 euro se la rapina è commessa con armi.
Nella prassi criminale, tuttavia, è frequente che l’agente utilizzi un’arma finta, spesso una pistola giocattolo, al fine di minacciare efficacemente il rapinato e impossessarsi agevolmente dei beni senza dover entrare in possesso di un'arma vera e propria né correre il rischio di ferirlo. Con riferimento a tali evenienze, si è posto quindi il problema di capire se la menzionata aggravante trovi applicazione oppure se si debba condannare il rapinatore per il reato ex art. 628 c.p. nella sua forma semplice.

Sulla questione è intervenuta di recente, in via chiarificatrice, la Corte di Cassazione con sentenza n. 39253 del 2 novembre 2021. Per la Suprema Corte, in caso di utilizzo di un’arma giocattolo, è possibile che si configuri il delitto di rapina aggravata, ma solo a condizione che l’arma non sia immediatamente riconoscibile come finta. Nel caso in cui il mezzo di offesa utilizzato abbia, prima facie, le sembianze di una vera e propria arma, pertanto, l’aggravante può trovare applicazione.
Se, invece, sull’oggetto sono oggettivamente apposti degli specifici segni di riconoscimento, come ad esempio il classico tappo di colore rosso, e tali segni sono visibili e riconoscibili dal soggetto rapinato, secondo i giudici di legittimità il reato dovrà ritenersi integrato nella sua forma base.
Riassuntivamente può dunque affermarsi che, alla luce dei recenti chiarimenti giurisprudenziali, ai fini dell’applicazione dell’aggravante al reato di rapina occorre alternativamente che:
1. lo strumento utilizzato sia oggettivamente una vera arma;
2. lo strumento utilizzato, pur essendo in sostanza un’arma giocattolo, sia soggettivamente percepito dalla vittima come vera arma.
Nella motivazione del citato provvedimento giurisdizionale, infatti, si afferma espressamente proprio che “la sussistenza dell’aggravante dipende non solo dalla oggettiva assenza sull’oggetto dei segni dell’arma da gioco (tappo rosso e similari), ma anche dal fatto che tali segni non sono visibili e riconoscibili dalla vittima”. Riguardo a tale ultima considerazione, la Corte precisa poi che l’accertamento della riconoscibilità dell’arma come oggetto da gioco deve essere effettuato valutando non solo le circostanze ambientali oggettive che incidono sulla visibilità dei segni, ma anche la percezione soggettiva che la vittima di quei segni ha avuto.

Nel caso giunto al vaglio degli Ermellini, in particolare, un soggetto era stato condannato in primo grado per i reati di tentativo di danneggiamento rapina aggravata, commessa, nello specifico, con una pistola giocattolo, che però, in condizioni di buio, era apparsa alla vittima come vera arma da fuoco.
La Corte d’appello, poi, aveva confermato la condanna, considerando non meritevoli di pregio le censure dell’imputato avverso la sentenza di prime cure, secondo le quali la rapina non poteva considerarsi aggravata dal momento che doveva valorizzarsi solo il dato oggettivo (e dunque il non utilizzo di una vera arma) e non anche quello soggettivo della percezione della vittima.
Avverso tale sentenza era quindi stato proposto ricorso e la Cassazione, rigettandolo, ha operato le importanti precisazioni di cui si è dato conto.


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