La proposta avanzata da
Fratelli d'Italia si ispira a un'esperienza già avviata in Trentino Alto Adige, dove le istituzioni locali hanno introdotto un incentivo economico per l'apertura di fondi
pensione dedicati ai minori. L'obiettivo dichiarato è duplice: da un lato
sostenere la natalità attraverso uno strumento di lungo periodo, dall'altro
educare le famiglie all'importanza del risparmio previdenziale fin dai primi anni di vita dei figli.
In un Paese dove il tasso di natalità continua a calare e il sistema pensionistico pubblico mostra evidenti criticità, l'idea di costruire sin dalla nascita una forma di previdenza complementare appare, almeno sulla carta, lungimirante. Tuttavia, la misura solleva interrogativi sulla sua reale accessibilità: il modello trentino, infatti, prevede che le famiglie versino annualmente una quota minima per poter beneficiare del contributo pubblico, un requisito che potrebbe escludere proprio chi avrebbe più bisogno di sostegno economico. Se la proposta nazionale dovesse mantenere questa impostazione, rischierebbe di trasformarsi in un'opportunità riservata a nuclei familiari con maggiore disponibilità economica, perdendo di fatto la sua valenza redistributiva.
Come funziona il meccanismo: contributi pubblici a rate e vincoli per le famiglie
Il funzionamento previsto è articolato su
cinque anni. Alla
nascita,
adozione o affidamento del minore, lo Stato o la Regione verserebbero un
contributo iniziale di 300 euro sul fondo pensione intestato al bambino. Successivamente,
per quattro anni consecutivi, verrebbero erogati altri 200 euro annui, ma solo a condizione che la famiglia versi almeno 100 euro all'anno. Al termine del quinquennio, il totale del contributo pubblico raggiungerebbe
1.100 euro, a cui si aggiungerebbero i
400 euro versati dai genitori, per un montante complessivo di
1.500 euro.
Le proiezioni finanziarie suggeriscono che questa somma,
investita in un comparto a rendimento medio del 5% annuo e lasciata maturare fino ai sessantacinque anni del beneficiario, potrebbe crescere
fino a raggiungere circa 20mila o 25mila euro. Una cifra che, nella migliore delle ipotesi, potrebbe rappresentare un'
integrazione utile alla pensione pubblica. Tuttavia, si tratta di un orizzonte temporale estremamente lontano, che non offre alcun beneficio immediato né nell'infanzia né nell'adolescenza. Per molte famiglie con redditi bassi o in condizioni di precarietà, v
ersare 100 euro all'anno può risultare difficile o impossibile, soprattutto considerando le spese correnti legate alla gestione di un
neonato: pannolini, alimentazione, spese sanitarie, abbigliamento e trasporti assorbono rapidamente il bilancio familiare, s
enza contare i costi elevati degli asili nido che gravano in particolare sulle regioni del Centro-Sud.
L'interesse delle Regioni: dal Trentino al Piemonte, verso un modello alternativo ai bonus una tantum
Il modello trentino ha suscitato interesse anche in altre realtà territoriali. La Provincia autonoma di Trento ha esteso l'applicazione della misura ai bambini già nati, fino ai cinque anni di età, concependola come una "dote previdenziale" che accompagni la crescita del minore. Anche il Piemonte sta valutando l'introduzione di un meccanismo simile, nella speranza di superare le criticità emerse con misure come il controverso bonus Vesta, che aveva generato forti polemiche per la modalità di erogazione a click-day e per l'esclusione di numerose famiglie.
L'approccio basato sui fondi pensione rappresenta, almeno nelle intenzioni, un cambio di paradigma: non più sussidi temporanei o incentivi al consumo immediato, ma uno strumento strutturale pensato per costruire nel tempo una tutela economica. Dal punto di vista simbolico, la misura trasmette l'idea che le istituzioni si prendano cura del futuro dei cittadini fin dalla nascita. Dal punto di vista pratico, però, resta da verificare se questa proposta riuscirà davvero a intercettare i bisogni delle famiglie più fragili o se finirà per avvantaggiare prevalentemente chi ha già margini di risparmio.
La contraddizione del presente: nidi che mancano mentre si pensa alla pensione del 2090
Mentre si discute di previdenza complementare per i neonati, la realtà quotidiana di molte famiglie italiane è segnata dalla carenza di servizi essenziali per l'infanzia. I fondi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) destinati agli asili nido ne sono un esempio emblematico: la misura avrebbe dovuto creare circa 264 mila nuovi posti, ma è stata successivamente ridimensionata a 154 mila posti, con scadenza prorogata a giugno 2026.
Dei fondi inizialmente stanziati, superiori ai quattro miliardi e seicento milioni di euro, ne sono rimasti disponibili circa tre miliardi e duecento milioni dopo le revisioni di bilancio. Tuttavia, il problema non è solo nelle cifre assegnate, ma nei tempi di realizzazione: a fine 2024 i fondi effettivamente spesi risultavano ancora largamente inferiori alle previsioni, con cantieri in ritardo e strutture non ancora operative.
Secondo le stime più recenti, oltre 17 mila posti negli asili nido sono a rischio, soprattutto nelle regioni del Mezzogiorno dove la copertura del servizio resta drammaticamente inferiore rispetto al Nord. In questo contesto, per molte famiglie la priorità non è avviare un fondo pensione per i figli, ma trovare un posto al nido nel presente, per permettere soprattutto alle madri di rientrare al lavoro. La mancanza di servizi per l'infanzia rappresenta infatti un ostacolo diretto alla partecipazione femminile al mercato del lavoro, in particolare nel Mezzogiorno dove i tassi di occupazione delle donne restano tra i più bassi d'Europa. Anche chi, in linea teorica, potrebbe essere interessato all'iniziativa previdenziale, rischia di dovervi rinunciare per motivi di budget o per l'impossibilità di gestire quotidianamente la cura dei figli in assenza di strutture adeguate.