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Il marito che minaccia la moglie durante una conversazione telefonica con la suocera commette reato?

Il marito che minaccia la moglie durante una conversazione telefonica con la suocera commette reato?
La Cassazione si è interrogata in merito alla corretta qualificazione della condotta di colui che minaccia la moglie parlando al telefono con la suocera: si tratta di stalking?
La Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 15136/2020, ha avuto modo di pronunciarsi in merito alla configurabilità del delitto di atti persecutori, cosiddetto stalking, in capo al marito che abbia rivolto delle minacce alla moglie parlando al telefono con la suocera.

La questione sottoposta al vaglio degli Ermellini era nata in seguito alla condanna di un uomo per aver commesso il reato di atti persecutori, ex art. 612 bis del c.p., nei confronti della moglie.

Avverso tale pronuncia, emessa dal giudice per le indagini preliminari, ex art. 444 del c.p.p., l’uomo ricorreva in Cassazione, lamentando una violazione di legge in relazione alla qualificazione giuridica del fatto. Secondo il ricorrente, infatti, considerato che la propria condotta illecita si era consumata mediante una sola conversazione telefonica intercorsa non con la moglie, bensì con la suocera, la stessa avrebbe, piuttosto, dovuto essere qualificata come molestia, ai sensi dell’art. 660 del c.p. Applicando tale ultima norma, peraltro, trattandosi di un reato procedibile a querela di parte, la quale, però, non era stata presentata dalla persona offesa, il giudice procedente avrebbe dovuto pronunciare una sentenza di proscioglimento per difetto di procedibilità dell’azione penale.

La Suprema Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile, giudicandolo basato su motivi manifestamente infondati.

I Giudici di legittimità hanno, preliminarmente, evidenziato come, nel procedimento di applicazione della pena su richiesta delle parti, ex art. 444 del c.p.p., queste ultime non possano prospettare, con il ricorso per Cassazione, questioni incompatibili con la richiesta di patteggiamento formulata per il fatto contestato e con la relativa qualificazione giuridica risultante dalla contestazione, in quanto l’accusa, come giuridicamente qualificata, non può essere rimessa in discussione.
La stessa Cassazione ha, difatti, già più volte affermato che l’applicazione concordata della pena presuppone la rinuncia a far valere qualunque eccezione di nullità, anche assoluta, diversa da quelle attinenti alla richiesta di patteggiamento e al consenso ad essa prestato (cfr. ex multis Cass. Pen., n. 5240/2009).

L’orientamento dominante della Suprema Corte ha, poi, peraltro, affermato che, in tema di patteggiamento, la possibilità di ricorrere in sede di legittimità deducendo l’erronea qualificazione giuridica del fatto contenuta in sentenza, deve essere limitata ai casi di errore manifesto, mentre va esclusa in tutti i casi in cui, come in quello de quo, la diversa qualificazione presenti margini di opinabilità (cfr. ex multis Cass. Pen., n. 6523/2011).

Quanto alla fattispecie contestata al ricorrente, gli Ermellini hanno ribadito come il loro orientamento prevalente ritenga che “per integrare una minaccia penalmente rilevante, elemento costitutivo del delitto di cui all'art. 612 bis del c.p., non occorre che le espressioni intimidatorie siano pronunciate in presenza della persona offesa potendo quest'ultima venirne a conoscenza anche attraverso altre persone, purché ciò si verifichi in un contesto dal quale possa desumersi che il soggetto attivo abbia avuto la volontà di produrre l'effetto intimidatorio, come nel caso in cui la minaccia sia stata indirizzata a una persona legata al soggetto passivo da una relazione di strettissima parentela (cfr. ex multis Cass. Pen., n. 8898/2010).

Orbene, la Cassazione ha evidenziato come il caso di specie integri proprio tale ultima circostanza, considerato che il ricorrente ha pronunciato, in modo reiterato, delle minacce indirizzate moglie, nel corso di conversazioni telefoniche intercorse con la madre di quest’ultima.


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