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La maestra che schiaffeggia e minaccia gli alunni più vivaci risponde di abuso dei mezzi di correzione

La maestra che schiaffeggia e minaccia gli alunni più vivaci risponde di abuso dei mezzi di correzione
In ambito scolastico, il potere educativo o disciplinare deve sempre essere esercitato con mezzi consentiti e proporzionati alla gravità del comportamento deviante, non potendo mai consistere in trattamenti afflittivi dell'altrui personalità.

La Sesta Sezione Penale della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 7969/2020, si è pronunciata in merito alla possibilità di ritenere configurato il reato di abuso dei mezzi di correzione di fronte ad ogni tipo di violenza, sia fisica che morale, posta in essere da un’insegnante.

La vicenda giudiziaria di cui si è occupata la Suprema Corte vedeva come protagonista un maestra che, in più occasioni, aveva perso la pazienza, umiliando verbalmente i bambini più lenti e introversi, e arrivando, persino, a schiaffeggiare due bambini, nonché a minacciare gli alunni più vivaci di chiuderli in un armadietto. Tali condotte avevano provocato problemi psicologici agli alunni della donna, i quali avevano sviluppato comportamenti anomali e regressivi rispetto al processo di crescita, oltre ad uno stato di ansia e paura, unito a disturbi del sonno e alimentari, incontinenza e disagio psicologico.

Alla luce di tali circostanze, il giudice di primo grado, nonostante il perito avesse considerato inattendibili i racconti degli alunni a causa del tempo trascorso dai fatti e dei condizionamenti esterni subiti, nel frattempo, dagli stessi, condannava la maestra per il reato di abuso dei mezzi di correzione ex art. 571 del c.p..

Tale condanna veniva confermata dalla Corte d’Appello, secondo la quale, sebbene i racconti dei bambini fossero stati ritenuti inattendibili dal perito, gli stessi erano, comunque, stati avvalorati dai racconti della dirigente scolastica e della maestra che, in classe, aiutava l’imputata.

Di fronte a tale pronuncia, l’imputata ricorreva, pertanto, in Cassazione, lamentando, innanzitutto, come il giudice di secondo grado non avesse tenuto conto del giudizio di inattendibilità espresso dal perito in ordine alle dichiarazioni rese dai bambini. La ricorrente eccepiva, inoltre, la sussistenza di un vizio di motivazione della sentenza impugnata, in ordine, sia all’utilizzo delle dichiarazioni rese dai genitori dei bambini, sia all’esistenza dei presupposti normativi per la configurabilità del reato di cui all’art. 571 c.p. Si lamentava, infine, come la Corte territoriale avesse errato nell’attribuire rilievo ad un presunto rischio di insorgenza di una malattia nel corpo e nella mente dei bambini, nonostante non fosse stata fornita alcuna prova al riguardo.

La Suprema Corte ha, però, giudicato inammissibile il ricorso proposto, stante l’infondatezza e la genericità dei motivi proposti che, secondo gli Ermellini, sarebbero stati tutti finalizzati a chiedere un nuovo esame dei fatti, attraverso la riproposizione di argomentazioni già vagliate e disattese dai giudici di merito.

Secondo gli Ermellini, contrariamente a quanto sostenuto dalla ricorrente, i giudici di merito hanno fornito una corretta ricostruzione dei fatti, basandosi sul quadro probatorio a loro disposizione. Ferma, dunque, la correttezza di quanto deciso dalla Corte d’Appello, i giudici di legittimità si sono, sostanzialmente, uniformati al principio di diritto per cui “in ambito scolastico, il potere educativo o disciplinare, quale che sia l'intenzione del soggetto attivo, deve sempre essere esercitato con mezzi consentiti e proporzionati alla gravità del comportamento deviante del minore, senza superare i limiti previsti dall'ordinamento o consistere in trattamenti afflittivi dell'altrui personalità, sicché integra il reato di abuso dei mezzi di correzione o di disciplina il comportamento dell'insegnante che faccia ricorso a qualunque forma di violenza, fisica o morale, ancorché minima ed orientata a scopi educativi” (Cass. Pen., n. 9954/2016; Cass. Pen., n. 47543/2015).

Come giustamente osservato da entrambi giudici di merito, dunque, l’utilizzo di metodi educativi rigidi ed autoritari, basati sul ricorso a comportamenti violenti e costrittivi, come quelli usati dall'imputata, non può che rivelarsi pericoloso e dannoso per la salute psichica degli alunni.

Tale assunto è, peraltro, in linea con quanto costantemente affermato dalla stessa Corte di Cassazione, la quale ha più volte precisato che “in tema di abuso dei mezzi di correzione o di disciplina, la nozione di malattia è più ampia di quelle concernenti l'imputabilità o i fatti di lesione personale, estendendosi fino a comprendere ogni conseguenza rilevante sulla salute psichica del soggetto passivo, dallo stato d'ansia all'insonnia, dalla depressione ai disturbi del carattere e del comportamento” (Cass. Pen., n. 19850/2016; Cass. Pen., n. 49433/2009).


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