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Licenziamento per malattia e nocività ambiente di lavoro

Lavoro - -
Licenziamento per malattia e nocività ambiente di lavoro
Illegittimo il licenziamento per malattia del lavoratore anche dopo il superamento del comporto se la patologia dipende dalla nocività dell'ambiente di lavoro.
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 13535 del 1 luglio 2016, si è pronunciata sull’argomento relativo alla legittimità del licenziamento per malattia del lavoratore, con riferimento all’art. 2087 codice civile, fornendo alcune interessanti precisazioni sul punto.

Nel caso esaminato dalla Corte, un insegnante aveva agito in giudizio chiedendo che fosse accertata l’illegittimità della risoluzione del proprio rapporto di lavoro, nonché chiedendo il risarcimento del danno subito per violazione della privacy e per mobbing.

Le domande dell’insegnante venivano, tuttavia, rigettate, sia in primo che in secondo grado, con la conseguenza che lo stesso riteneva opportuno proporre ricorso in Cassazione al fine di veder tutelate le proprie ragioni.

La Corte d’Appello aveva ricostruito le circostanze di fatto; per la Corte, risultava che il ricorrente fosse stato dichiarato “invalido per causa di servizio” ma come, ciò nonostante, avesse continuato a lavorare per un ulteriore periodo di tempo, fino alla richiesta di un congedo straordinario.

Il Preside dell'Istituto scolastico nel quale l’uomo era in servizio, vista la documentazione medica prodotta ed alcuni rilievi effettuati in merito alla salubrità dell'ambiente di lavoro, aveva disposto una visita medica collegiale per verificare le condizioni dell’insegnante e l'ASL aveva ritenuto il medesimo “permanentemente inidoneo alle mansioni di insegnante tecnico- pratico, ma idoneo a compiti amministrativi”.

Il Provveditore, dunque, stabiliva che l’uomo dovesse essere considerato assente per malattia “sino alla data del decreto di dispensa o di utilizzazione in altri compiti”.

L'insegnante, inoltre, per ben due volte rifiutava “di essere adibito ad altre mansioni” e, pertanto, rimaneva assente. Successivamente, “veniva disposta la risoluzione del rapporto per superamento del periodo di comporto”.

La Corte di Cassazione, nell’esaminare la fondatezza del ricorso, osservava come la Corte d’Appello avesse ritenuto “superfluo esaminare le cause della sofferta malattia in quanto il termine di comporto per la malattia in generale e per la malattia dipendente da causa di servizio (rispettivamente artt. 23 e 26 del CCNL) erano identici e quindi apparivano irrilevanti le cause delle assenze”.

Sotto questo profilo, dunque, il ricorso doveva ritenersi fondato, dal momento che “le essenze dei lavoratore per malattia non giustificano il recesso del datore di lavoro ove l'infermità dipenda dalla nocività delle mansioni o dell'ambiente di lavoro che lo stesso datore di lavoro abbia omesso di prevenire o eliminare in violazione dell'obbligo di sicurezza ( art. 2087 c.c.) o di specifiche norme”.

Infatti, osservava la Cassazione, “una cosa è una generica attribuzione a causa di servizio di una malattia, un'altra è l'aggravamento della stessa malattia per omissione di cautele doverose da parte del datore di lavoro che abbia determinato un aggravamento della detta malattia, che necessariamente (per il già ricordato orientamento giurisprudenziale) porta all'esclusione delle assenze (che si accerti siano state determinate dall'omissione dei doveri di protezione del dipendente) dal computo del periodo di comporto”.

Pertanto, secondo la Cassazione, il giudice di secondo grado avrebbe dovuto “esaminare la documentazione medica prodotta ed anche la consulenza tecnica in quanto la questione appariva rilevante ai fini del decidere”.

Non potevano essere accolte, invece, secondo la Corte, le doglianze relative alla violazione della privacy, “non essendo stato dimostrato che il provvedimento in parola sia stato conosciuto dalla comunità scolastica” e che sia stata lesa la sfera giuridica dell’insegnante, causandogli un danno ingiusto.

Allo stesso modo, non era stato dimostrato che vi fosse stata una “colpa da parte dell'Amministrazione ed infine un nesso di causalità tra l'emanazione del provvedimento di assegnazione della cattedra e un indimostrato ed inesistente danno asseritamente subito” dall’insegnante stesso.

Infondato, inoltre, secondo la Cassazione, era il motivo di ricorso relativo al cosiddetto mobbing (che consiste in sistematici comportamenti persecutori posti in essere dal datore di lavoro a carico del dipendente). La Corte d’Appello, infatti, ne aveva accertato l’inesistenza, non essendo stati dimostrati “episodi tali da dimostrare una situazione che possa configurare un mobbing (anche sotto il profilo della sistematicità, della gravità, e della persecutorietà dei comportamenti posti in essere a carico del dipendente), se non la prospettazione all'insegnante oggi ricorrente da parte dell'Amministrazione dell'adibizione a compiti amministrativi, adibizione anch'essa legittima in sé, se non doverosa, dopo l'accertamento della sua inidoneità svolgere le mansioni di appartenenza”.


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