La pronuncia, che trae origine da un procedimento cautelare avviato dal Tribunale di Rovigo, affronta due questioni di rilievo. La prima attiene alla possibilità, per l’indagato, di impugnare il sequestro di beni non formalmente di sua proprietà. La seconda, invece, riguarda la tutela della c.d. “prima casa” rispetto alle misure cautelari patrimoniali disposte in sede penale.
La controversia nasce nell’ambito di un’indagine per violazioni fiscali ai sensi dell’art. 2 della legge reati tributari, riguardanti dichiarazioni fraudolente mediante uso di fatture per operazioni inesistenti.
L’indagato aveva impugnato il decreto di sequestro preventivo disposto nei suoi confronti, che riguardava un’autovettura intestata alla moglie e un conto corrente riconducibile a una società terza, oltre a un immobile cointestato con il coniuge, adibito a residenza familiare.
Il Tribunale di Rovigo aveva, tuttavia, dichiarato inammissibile l’istanza di riesame per la parte relativa ai beni intestati a terzi e l’aveva rigettata per il resto, ritenendo legittimo il vincolo cautelare anche sull’immobile di residenza.
Contro tale decisione il difensore dell’indagato proponeva ricorso in Cassazione, fondato su due motivi, ovvero:
- la violazione dell’art. 324 del c.p.p., in quanto l’indagato, sebbene non fosse proprietario dei beni, avrebbe avuto comunque un interesse a contestare la misura, trattandosi di beni sottratti al nucleo familiare;
- la violazione dell’art. 76 delle disp. risc. imp. redditi, comma 1, lett. a), che vieta l’espropriazione dell’unico immobile di proprietà del debitore, sostenendo che tale principio dovesse valere anche nel procedimento penale, a tutela della c.d. “prima casa”.
La Suprema Corte ha rigettato integralmente il ricorso, confermando la decisione del Tribunale e fornendo chiarimenti su due questioni centrali.
Con riferimento al primo motivo, la Cassazione ha ricordato che, di recente, le Sezioni Unite della Corte si sono pronunciate circa la legittimazione dell’indagato a impugnare il sequestro di beni non propri (cfr. informazione provvisoria n. 15/2025). Secondo tale orientamento, “la persona sottoposta ad indagini può proporre richiesta di riesame ove alleghi un interesse concreto ed attuale correlato agli effetti della rimozione del sequestro sulla sua posizione”.
Ebbene, nel caso di specie, l’interesse (ossia la semplice restituzione di beni appartenenti a soggetti terzi o al coniuge) è stato giudicato insufficiente, poiché volto soltanto al ripristino del patrimonio familiare e non incidente in modo diretto sulla posizione giuridica dell’indagato.
Quanto al secondo motivo, relativo al vincolo sull’immobile adibito ad abitazione principale, la Corte ha dichiarato che, secondo l’orientamento maggioritario della stessa giurisprudenza di legittimità, il limite all’espropriazione immobiliare previsto dall’art. 76, comma 1, lett. a), del D.P.R. n. 602/1973 vale solo nei confronti dell’Erario e unicamente per debiti tributari, non anche nei confronti dello Stato quando questo agisce per confiscare il profitto di un reato. Inoltre, la norma non tutela genericamente la “prima casa”, bensì l’unico immobile di proprietà del debitore, che è un concetto diverso e più restrittivo.
Un’ulteriore differenza attiene alla finalità della misura. Nel procedimento tributario si agisce per riscuotere un credito, mentre in ambito penale l’obiettivo è colpire il vantaggio economico derivante dal reato. Quando il profitto illecito non è più disponibile, il giudice può disporre la confisca per equivalente, cioè aggredire altri beni di valore corrispondente appartenenti all’imputato, inclusa l’abitazione. La Cassazione ha quindi ribadito che la casa, pur se lecitamente acquistata, può essere sequestrata se il suo valore corrisponde al guadagno ottenuto con l’evasione fiscale.
A supporto della decisione, la Suprema Corte richiama anche l’art. 2740 del c.c., per cui il debitore risponde delle proprie obbligazioni con tutti i beni presenti e futuri, salvo i casi specificamente previsti dalla legge.