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L’estensione del concetto di mafia: dalle mafie storiche a quelle delocalizzate

L’estensione del concetto di mafia: dalle mafie storiche a quelle delocalizzate
La Corte di Cassazione estende la punibilità anche alle associazione di stampo mafioso delocalizzate, ossia non presenti nel territorio di origine.
La seconda sezione della Corte di Cassazione, con ordinanza n. 548 del 18 novembre 2022 (dep. 27 gennaio 2023), si è occupata del delitto di associazione di stampo mafioso (art. 416 bis del c.p.), estendendo la fattispecie di reato anche a quelle associazioni criminali che non presentano uno stretto collegamento con il territorio di origine, bensì appaiono delocalizzate, ovvero radicate in contesti territoriali diversi.

La pronuncia della Cassazione in esame richiama quanto già affermato dal Supremo Consesso a Sezioni Unite nella precedente sentenza del 16 marzo 2020 n. 10255, ove, a seguito di ordinanza di rimessione, si è statuita la necessità di estendere il delitto de quo anche alle mafie delocalizzate.
Al fine di comprendere la portata innovativa della pronunzia in esame (la quale ricalca il dictum decisorio del 2020), è necessario delineare i caratteri essenziali del delitto di associazione di stampo mafioso, coglierne la ratio, e soprattutto le motivazioni della estensione del suo ambito applicativo anche alle mafie non collegate al territorio di origine.

Il delitto di cui all’art. 416 bis c.p. nasce nel 1982, attraverso la legge n. 646 del 13 settembre, al fine di combattere i fenomeni associativi di stampo mafioso, ossia quelle associazioni criminali sui generis, attuate attraverso particolari riti di affiliazione degli associati. In particolare, la disposizione normativa mirava a combattere le c.d. “mafie storiche”, quali la mafia, la 'ndrangheta, la camorra, la "Sacra Corona Unita", et similia, caratterizzate da un forte collegamento con il territorio di origine, nonché dall’utilizzo del metodo mafioso per il perseguimento dei reati scopo (o detti anche “satellite”), di cui al comma 3 dell’art. 416 bis c.p.

Difatti, il discrimen tra il mero “reato di associazione per delinquere” (di cui 416cp) e quello di “associazione di stampo mafioso” (di cui all’articolo 416 bis c.p.) consta proprio nell’utilizzo del metodo mafioso, da intendersi quale modus agendi caratterizzato da un forte atteggiamento di sopraffazione, tale da porre in stato di soggezione la vittima del reato satellite. In particolare, l’utilizzo del metodo mafioso può rilevare anche come circostanza aggravante, qualora le fattispecie di reato siano realizzate da soggetti non appartenenti alla cosca criminale, ma indirettamente collegati ad essa (art. 416 bis 1 del c.p.). Si pensi, ad esempio, al delitto di estorsione attuato con metodo mafioso: a differenza dell’ordinario delitto di estorsione, art. 629 del c.p., caratterizzato ex se già dall’utilizzo della violenza o/o minaccia, quelle espletate con il c.d. “metodo mafioso” sono caratterizzate dall’utilizzo di una sopraffazione direttamente collegata all’associazione mafiosa, ossia attraverso il richiamo del delinquente all’associazione criminale di riferimento (“mi manda la mafia”), ovvero con minacce e/o violenze attuate con modalità similari all’associazione di riferimento.

In generale, le c.d. “mafie storiche”, previa realizzazione di un attento programma criminale, perseguono diversi e plurimi scopi attraverso i c.d. “reati satellite”: si pensi, ad esempio, alla gestione, diretta o indiretta, di attività economiche; ovvero, all’acquisizione illecita di appalti e servizi pubblici; ed ancora, alla realizzazione di profitti o vantaggi ingiusti. Ed ancora, la mano delle mafie storiche può arrivare sino al corretto esercizio del diritto di voto in materia elettorale: data la gravità del fenomeno illecito, il legislatore ha pensato di punire ex se il fatto illecito in esame, attraverso la fattispecie di reato di cui all’art. 416 ter del c.p. (rubricata “scambio elettorale politico mafioso”).

Premesso ciò, in giurisprudenza ci si era interrogati circa la possibilità di estendere le fattispecie criminali in esame anche a quelle associazioni che, sebbene delocalizzate, tuttavia attuavano gli scopi illeciti attraverso l’utilizzo del metodo mafioso, di cui all’art. 416 bis, comma 3, c.p.. Si trattava di una problematica di ampio respiro pratico, essendo che l’estensione della fattispecie di reato in esame anche alle c.d. mafie delocalizzate significava estendere l’area del penalmente rilevante.

Tuttavia, per finalità di carattere preventivo, più che repressivo, la giurisprudenza della Corte di Cassazione ha esteso la fattispecie di reato de quo anche alle c.d. “mafie delocalizzate”, combattendo i fenomeni illeciti di stampo mafioso anche qualora non direttamente presenti nel territorio di appartenenza (si pensi, ad esempio, alle cellule mafiose operanti nel territorio milanese). La giurisprudenza ha, difatti, osservato come il concetto di mafia è in continua evoluzione, e pertanto, anche a seguito dell’incremento delle attività economiche (ove le c.d. “mafie storiche” agiscono), non è possibile restringere la punibilità alle sole associazioni di stampo mafioso strettamente collegate al territorio di origine: pertanto, ogni cellula cancerosa mafiosa, pur se non radicata nel territorio di origine, è da punire quale associazione di stampo mafioso, ex art. 416 bis c.p.. Il legislatore già prevede la punibilità delle mere cellule criminali dipendenti dalla struttura madre, in particolare in materia di organizzazioni di stampo terroristico eversivo (art. 270 bis del c.p.), alle quali è estesa la fattispecie di reato in esame stante la loro natura strumentale rispetto alla realizzazione degli obiettivi criminali perseguiti dall’associazione madre.
La sentenza in esame sottolinea la necessità di un accertamento del giudice in concreto sull’operato delle c.d. “mafie delocalizzate”: in relazione al caso concreto, difatti, il giudice dovrà accertare la simmetria della mafia delocalizzata rispetto a quella storica, al fine di estendere la fattispecie penalmente rilevante di associazione di stampo mafioso.


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