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L’aggravante del “metodo mafioso” si configura se emerge la carica intimidatoria dell’agente, a prescindere dalla prova dell’appartenenza all’associazione mafiosa

L’aggravante del “metodo mafioso” si configura se emerge la carica intimidatoria dell’agente, a prescindere dalla prova dell’appartenenza all’associazione mafiosa
Lo stato di soggezione nella vittima e il timore di gravi ritorsioni basta ad integrare l’aggravante del “metodo mafioso”, non assumendo valore gli ulteriori aspetti presi in considerazione dell’art. 416 bis c.p.
La Corte di Cassazione, con sentenza n. 36315 depositata in cancelleria il 21 agosto 2019, è tornata ad occuparsi dell’analisi dei requisiti necessari ai fini dell'applicabilità della circostanza aggravante del metodo mafioso, consistente nell’“aver agito avvalendosi delle condizioni previste dall'art. 416-bis c.p.”, già disciplinata dall'art. 7, d.l. n. 152/1991 e ora, dopo il d.lgs. n. 21/2018, dall'art. 416 bis 1 del c.p..
La vicenda è quella di alcuni soggetti i quali, attraverso minacce e intimidazioni, cercavano di indurre alcuni lavoratori occupati nella manutenzione di un impianto fotovoltaico, che doveva essere inizialmente svolta da una certa ditta, a non proseguire con i lavori in mancanza di una loro autorizzazione.
L'impresa, alla quale era stato richiesto mediante provocazioni ricattatorie il pagamento di una certa somma per continuare ad operare sul posto, aveva rinunciato alla prosecuzione dei lavori. Senza l’autorizzazione di tali soggetti, in altre parole, non sarebbe stato possibile per gli operai continuare in tranquillità l’esecuzione dell’attività.
Questi aneddoti hanno fatto emergere la carica intimidatoria derivante dal comportamento dagli imputati, e questo a prescindere dalla prova che gli agenti appartengano o meno all’associazione di cui all’art. 416 bis del c.p., essendo sufficiente, affermano i giudici, “l’avere ingenerato nella vittima la consapevolezza di appartenervi, di modo che i soggetti si comportino come mafiosi oppure ostentino in maniera provocatoria una condotta tale da incutere sui soggetti passivi la particolare coartazione e conseguente intimidazione che sono proprie delle organizzazioni delle specie considerate”.
L’aggravante del “metodo mafioso”, affermano ancora gli ermellini, si configura nel caso di “condotte che presentano un nesso eziologico immediato rispetto all’azione criminosa”, in questo caso una tentata estorsione, “in quanto logicamente funzionali alla più pronta e agevole perpetrazione del crimine”.
Tale circostanza aggravante, inoltre, riveste carattere oggettivo (ed è per questo estensibile ai soggetti che concorrono nel reato ex art. 110 del c.p.), in relazione all’utilizzo di modalità operative che rapportano il delitto a “forme socialmente tipiche”, quelle proprie dell’associazione di stampo mafioso, proprio a causa della “evocazione di una particolare forza intimidatoria”.
In particolare nei territori in cui la consorteria mafiosa è radicata da decenni, conclude infine la Cassazione, l’espressione del metodo mafioso può essere integrata anche da riferimenti allusivi e impliciti all’associazione, i quali producono come diretta conseguenza uno stato di omertà e soggezione nella vittima, costringendola a subire i ricatti dell'agente.


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