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Diffamazione a mezzo stampa: la pubblicazione di una notizia imprecisa non esclude la scriminante dell’esercizio del diritto di cronaca

Diffamazione a mezzo stampa: la pubblicazione di una notizia imprecisa non esclude la scriminante dell’esercizio del diritto di cronaca
In tema di diffamazione a mezzo stampa, sussiste la scriminante del diritto di cronaca allorquando, nel riportare un evento storicamente vero, siano rappresentate modeste e marginali inesattezze che riguardino semplici modalità del fatto, senza modificarne la struttura essenziale.
La Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 15093/2020, ha avuto modo di pronunciarsi in materia di diffamazione a mezzo stampa, chiedendosi, in particolare, se tale fattispecie delittuosa possa essere integrata anche dalla pubblicazione di una notizia che, pur essendo vera, presenti delle imprecisioni.

La questione sottoposta al vaglio degli Ermellini era nata dalla vicenda che aveva visto come protagonista un giornalista, il quale, all’esito del giudizio di primo grado, si era visto condannare per il reato di diffamazione aggravata, ai sensi dei commi 2, 3 e 4 dell’art. 595 del c.p., per aver divulgato una notizia in cui riferiva che a due soggetti era stata notificata una richiesta di rinvio a giudizio quando, in realtà, era stato inviato loro solamente l’avviso di conclusione delle indagini preliminari.
In seguito alla pronuncia d’appello che riformava quella di primo di primo grado dichiarando di non doversi procedere per intervenuta prescrizione, il giornalista ricorreva dinanzi alla Corte di Cassazione, lamentando, principalmente, una violazione e falsa applicazione degli articoli 51 e 595 del c.p. Secondo il ricorrente, infatti, la decisione dei giudici di merito risultava essere in contrasto con la costante giurisprudenza di legittimità in materia di diritto di cronaca. A tal proposito l’uomo ricordava come una sentenza del 2010 avesse dichiarato che la discrasia tra la notizia diffusa e lo stato del procedimento giudiziario a cui la stessa faceva riferimento costituisse una mera circostanza inesatta, ossia una difformità trascurabile, idonea a far ritenere il reato scriminato dal legittimo esercizio del diritto di cronaca.

La Suprema Corte ha accolto il ricorso, giudicando fondati i motivi di doglianza proposti.

Gli Ermellini hanno, innanzitutto, richiamato alcuni loro precedenti in forza dei quali si può ritenere integrata la scriminante del diritto di cronaca “qualora, nel riportare un evento storicamente vero, siano rappresentate modeste e marginali inesattezze che riguardino semplici modalità del fatto, senza modificarne la struttura essenziale” (Cass. Pen., n. 41099/2016; Cass. Pen., n. 7024/2010).

Come ribadito dai giudici di legittimità, la ratio di tale orientamento è quella di configurare una soglia di tolleranza, capace di sottrarre all’area della rilevanza penale quelle discrasie tra la realtà oggettiva e i fatti così come filtrati ed esposti nell’articolo, che, anche alla luce del contesto in cui si inseriscono, siano definibili come marginali o secondarie, individuando di volta in volta il discrimine nell’effettiva capacità offensiva del bene giuridico tutelato dalla fattispecie incriminatrice.

È sempre in ossequio a tale principio di diritto che la stessa Cassazione ha, infatti, affermato, ad esempio, che, in tema di diffamazione a mezzo stampa, ricorre la scriminante del diritto di cronaca qualora eventi storicamente veri siano stati rappresentati in forma giuridicamente non corretta (Cass. Pen., n. 6410/2010).

Alla luce di tali precisazioni la Cassazione, in relazione al caso di specie, ha ritenuto che la divergenza registrata tra la notizia diffusa con il comunicato oggetto di contestazione e lo stato del procedimento costituisca una mera circostanza inesatta, ossia una difformità secondaria e trascurabile, rispetto alla notizia principale, la quale rimane integra nella sua verità storica.

Gli stessi Ermellini hanno, infatti, evidenziato come, sebbene l’avviso di conclusione delle indagini preliminari e la richiesta di rinvio a giudizio costituiscano sicuramente atti processuali con funzioni autonome e conseguenze distinte, essi siano, al contempo, atti definibili come processualmente attigui, costituendo il primo presupposto della seconda e facendo ad esso tendenzialmente seguito la richiesta di rinvio a giudizio.

Un’ipotesi come quella verificatasi nel caso de quo, dunque, secondo la Cassazione, non può essere ritenuta fuorviante per il lettore, non essendo stata intaccata la verità della notizia principale né la sostanza di ciò che era accaduto processualmente.


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