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Commette diffamazione il consulente di parte che critichi con toni sarcastici le conclusioni e la figura del Ctu

Commette diffamazione il consulente di parte che critichi con toni sarcastici le conclusioni e la figura del Ctu
Il consulente di parte che utilizza espressioni gratuitamente denigratorie verso il Ctu commette diffamazione e deve risarcire il danno per aver superato il limite della "continenza", la quale postula una forma espressiva corretta anche per la critica.
La Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 12490/2020, si è pronunciata in ordine alla configurabilità del reato di diffamazione, in capo al consulente di parte che abbia offeso la reputazione del consulente tecnico d’ufficio nell’ambito di una causa civile, chiedendosi, al contempo, se una tale condotta potesse integrare la scriminante dell’esercizio di un diritto, ex art. 51 c.p., con specifico riferimento al diritto di critica.

Gli Ermellini si sono, infatti, trovati di fronte a tale quesito dopo che, per l’aver posto in essere una tale condotta, un consulente tecnico di parte si era visto condannare, in entrambi i gradi del giudizio di merito, per il reato di diffamazione aggravata, con conseguente condanna al risarcimento del danno.

L’imputato, di fronte a tale decisione, proponeva ricorso in Cassazione.

Secondo l’uomo, infatti, la sua condanna non era derivata dalla falsità delle sue conclusioni, bensì dalla sola eccessiva severità, ritenuta denigratoria, del linguaggio da lui utilizzato. Esso, infatti, contrariamente a quanto ritenuto dai giudici di merito, si sarebbe mosso, a suo avviso, entro il perimetro segnato dalla consulenza tecnica d’ufficio, limitandosi a criticarne il contenuto e, quindi, l’autore, senza, però, degenerare in una gratuita ed immotivata invettiva legata alla persona, trattandosi di una critica dettata sempre e soltanto dal radicale dissenso rispetto al modus procedendi e alle conclusioni del perito.

In merito, poi, al dolo, l’imputato evidenziava come il suo obiettivo non fosse quello di denigrare il consulente tecnico d’ufficio, bensì quello di esporre nel modo più convincente possibile le proprie ragioni, il che era, peraltro, stato confermato dalla conclamata assenza di un pregresso rapporto di conoscenza tra i due, che potesse accreditare il sospetto di motivi di inimicizia.

Il ricorrente eccepiva, altresì, un’inosservanza della legge penale ed un vizio di motivazione in ordine al denegato giudizio di prevalenza delle circostanze attenuanti generiche.

La Cassazione ha, tuttavia, rigettato il ricorso, non ritenendolo fondato.

Gli Ermellini hanno, difatti, evidenziato, in primo luogo, come, ai fini dell’integrazione del reato di diffamazione, ex art. 595 del c.p., rilevino anche i toni usati da una persona per esprimersi.
Secondo il loro stesso consolidato orientamento “in tema di diffamazione, nella valutazione del requisito della continenza, necessario ai fini del legittimo esercizio del diritto di critica, si deve tenere conto del complessivo contesto dialettico in cui si realizza la condotta e verificare se i toni utilizzati dall'agente, pur se aspri, forti e sferzanti, non siano meramente gratuiti, ma siano, invece, pertinenti al tema in discussione e proporzionati al fatto narrato e al concetto da esprimere; in tema di diffamazione, dunque, il requisito della continenza postula una forma espressiva corretta alla critica rivolta, ossia strettamente funzionale alla finalità della disapprovazione e che non trasmodi nella gratuita e immotivata aggressione all'altrui reputazione, sicché il contesto nel quale la condotta si colloca può essere valutato ai limitati fini del giudizio di stretta riferibilità delle espressioni potenzialmente diffamatorie al comportamento del soggetto passivo oggetto di critica, ma non può in alcun modo scriminare l’uso di espressioni che si risolvano nella denigrazione della persona di quest’ultimo in quanto tale” (Cass. Pen., n. 15060/2011).

Tali principi, secondo il parere della Cassazione, sono stati correttamente applicati dai giudici di merito, i quali, nella sentenza impugnata, hanno sottolineato il tenore delle espressioni e dei toni usati dall’imputato, i quali sono stati indicati come esagerati, sarcastici, gratuitamente offensivi, sbeffeggianti ed infamanti.

Le doglianze del ricorrente non sono, pertanto, parse idonee a minare la tenuta logico-argomentativa della motivazione della sentenza impugnata, in quanto non hanno inficiato il nucleo essenziale della sua ratio decidendi, costituita, secondo gli Ermellini, dal rilievo del superamento del limite della continenza determinato dall’utilizzo di espressioni gratuitamente denigratorie, sovrabbondanti e sproporzionate rispetto alla finalità di critica tecnico-scientifica cui esse erano destinate nell’ambito della causa civile”; superamento che i giudici di merito, con motivazione in alcun modo viziata, hanno individuato negli insistenti riferimenti denigratori alla persona del consulente.

Parimenti infondata, secondo la Cassazione, è la doglianza relativa all’elemento soggettivo del reato, poiché, per giurisprudenza costante, ai fini della sussistenza della diffamazione è sufficiente il dolo generico che, comunque, implica l’uso consapevole, da parte dell’agente, di parole ed espressioni socialmente interpretabili come offensive, ossia utilizzate in base al significato che esse vengono oggettivamente ad assumere (cfr. Cass. Pen., n. 8419/2013).

I giudici di legittimità hanno, infine, confermato anche il giudizio di equivalenza tra circostanze attenuanti ed aggravanti disposto dalla Corte d’Appello, la quale, a tal fine, ha correttamente valorizzato una pluralità di elementi, tra cui il fatto che la condotta diffamatoria fosse stata realizzata attraverso “l’espletamento di un incarico in ambito giudiziario, la cui delicatezza e rilevanza dovrebbe imporre al consulente di esercitare la propria funzione con particolare scrupolo ed attenzione, anche nella misura delle parole”.


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