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Diffamazione o diritto di critica? Le precisazioni della Corte di Cassazione

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Diffamazione o diritto di critica? Le precisazioni della Corte di Cassazione
La Cassazione ha accolto l'impugnazione di un licenziamento proposta da un lavoratore che era stato accusato di aver diffamato la società datrice di lavoro.
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 17735 del 18 luglio 2017, si è occupata di un interessante caso di impugnazione di un licenziamento disciplinare (art. 7, legge n. 300/1970).

Nel caso esaminato dalla Cassazione, un lavoratore aveva agito in giudizio nei confronti della società datrice di lavoro, affinchè questi dichiarasse l’illegittimità del licenziamento disciplinare che gli era stato intimato, con conseguente condanna della società a reintegrarlo nel posto di lavoro.

Osservava il ricorrente, in particolare, che il licenziamento era stato intimato a seguito di una lettera di contestazione, con la quale egli era stato accusato di aver tenuto un “comportamento diffamatorio” nei confronti della datrice di lavoro, avendo egli inviato alla Procura e al Ministero del Lavoro un esposto, con cui aveva criticato la società in quanto, nonostante la continua crescita economica, la stessa aveva fatto ricorso impropriamente a procedure di cassa integrazione e di mobilità, realizzando una “truffa a danno dello stato”.

Il Giudice di primo grado aveva dichiarato l’illegittimità del licenziamento, ordinando la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e condannando la società al risarcimento del danno.

L’illegittimità del licenziamento veniva confermata anche in secondo grado, con la conseguenza che la società datrice di lavoro decideva di rivolgersi alla Corte di Cassazione, nella speranza di ottenere l’annullamento della sentenza sfavorevole.

Secondo la ricorrente, in particolare, la condotta tenuta dal lavoratore non poteva considerarsi espressione del suo “diritto di critica”, in quanto il lavoratore aveva violato i “doveri fondamentali di diligenza e di fedeltà”, alla base del rapporto di lavoro.

Osservava la ricorrente, peraltro, che le affermazioni del lavoratore erano del tutto infondate e aveva “screditato l’immagine della società”, facendo irrimediabilmente venir meno il rapporto di fiducia che deve sussistere tra lavoratore e datore di lavoro.

La Corte di Cassazione, tuttavia, non riteneva di poter dar ragione alla società datrice di lavoro, rigettando il relativo ricorso, in quanto infondato.

Precisava la Cassazione, sul punto, che l’obbligo di fedeltà del lavoratore, la cui violazione può giustificare il licenziamento, “si sostanzia nell’obbligo di un leale comportamento del lavoratore nei confronti del datore di lavoro e va collegato con le regole di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 cod.civ”.

Il lavoratore, dunque, deve astenersi da ogni comportamento che, per la sua natura e per le sue conseguenze, appaia “in contrasto con i doveri connessi all’inserimento del lavoratore nella struttura e nell’organizzazione dell’impresa” o crei “situazioni di conflitto con le finalità e gli interessi dell’impresa stessa” o sia idoneo “a ledere irrimediabilmente il presupposto fiduciario del rapporto stesso”.


Evidenziava la Cassazione, inoltre, che il “diritto di critica” deve rispettare “il principio della continenza sostanziale (secondo cui i fatti narrati devono corrispondere a verità) e quello della continenza formale (secondo cui l’esposizione dei fatti deve avvenire misuratamente)”.

Ebbene, nel caso di specie, la Cassazione rilevava come la Corte d’appello avesse ricostruito puntualmente la condotta posta in essere dal lavoratore, precisando che i fatti segnalati alla autorità giudiziaria erano gli stessi che erano già stati divulgati dalla stampa.

Il lavoratore, dunque, secondo la Corte, era rimasto entro i limiti del proprio “diritto di critica”, in quanto l’esposto del lavoratore alla Procura era stato scritto “nel rispetto dei canoni di continenza formale”.

Ciò considerato, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso proposto dalla società datrice di lavoro, confermando integralmente la sentenza impugnata e condannando la ricorrente anche al pagamento delle spese processuali.


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