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Stalking occupazionale: quando ricorre?

Stalking occupazionale: quando ricorre?
È persecutoria la condotta del datore di lavoro che compia, con dolo generico, atti di minaccia o molestia nei confronti del dipendente volti a mortificarlo ed isolarlo.
È noto che il reato di atti persecutori (c.d. stalking) è previsto dall’art. 612 bis c.p., che punisce con la reclusione chiunque, con condotte reiterate, minacci o molesti taluno in modo da realizzare alternativamente uno dei seguenti eventi:
  • cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura;
  • ingenerare un fondato timore per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva;
  • costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita.
Tanto premesso, ci si chiede se tale reato possa essere integrato anche dalla condotta persecutoria del datore di lavoro nei confronti del dipendente. La risposta a tale quesito è senz’altro positiva e a tal riguardo si parla appunto del c.d. stalking occupazionale. Circa i contorni di tale fattispecie criminosa è di recente intervenuta, ancora una volta, la Corte di Cassazione, ribadendo un orientamento già affermato.

Il Collegio, con sentenza n. 12827 del 5 aprile 2022, ha invero ricordato come la giurisprudenza abbia già ampiamente chiarito che il delitto di stalking può essere integrato anche dalla “condotta di mobbing del datore di lavoro che ponga in essere una mirata reiterazione di plurimi atteggiamenti convergenti nell’esprimere ostilità verso il dipendente e preordinati alla sua mortificazione ed isolamento nell’ambiente di lavoro – che ben possono essere rappresentati dall’abuso del potere disciplinare culminante in licenziamenti ritorsivi – tali da determinare un vulnus alla libera autodeterminazione della vittima, così realizzando uno degli eventi alternativi previsti dall’art. 612 bis c.p.”.

La Suprema Corte, inoltre, ha chiarito che anche nel caso dello stalking occupazionale l’elemento soggettivo richiesto è il dolo generico: è richiesta, infatti, la semplice volontà di attuare reiterate condotte di minaccia e molestia nella consapevolezza della loro idoneità a produrre uno degli eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice.

La vicenda sottoposta all’attenzione della Corte, in particolare, riguardava un soggetto condannato in primo e secondo grado per il reato di atti persecutori aggravati per avere ingenerato, mediante reiterate minacce anche di licenziamento e ripetute contestazioni disciplinari, in alcuni suoi dipendenti iscritti ad una associazione sindacale, un duraturo stato d’ansia e paura e per averli costretti ad alterare le loro abitudini di vita.
Avverso la sentenza d’appello l’imputato aveva dunque proposto ricorso, sostenendo – con esclusivo riferimento a quanto qui di interesse – che il mobbing sia un concetto non del tutto sovrapponibile al delitto di atti persecutori. Ritenendo, per le ragioni esaminate, tale censura infondata, la Cassazione ha dunque confermato la sentenza di seconde cure.


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