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Staccare ripetutamente la corrente ai vicini è reato

Staccare ripetutamente la corrente ai vicini è reato

Condannato per stalking l'uomo che si divertiva a molestare e a disturbare due vicini di casa.
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 43083 del 12 ottobre 2016, si è occupata di un interessante caso in materia di rapporti di vicinato e, nello specifico, dei reati di atti persecutori (art. 612 bis del c.p.) e calunnia (art. 368 del c.p.).

Nel caso esaminato dalla Cassazione, la Corte d’appello, confermando la sentenza di primo grado, aveva condannato l'imputato per tali reati, poichè aveva ripetutamente staccato la corrente elettrica al vicino di casa, arrivando anche ad investirlo con l’auto.

Il condannato, ritenendo la sentenza ingiusta, proponeva ricorso in Cassazione, evidenziando come i comportamenti contestati non avessero rilevanza penale, potendo i medesimi sfociare unicamente in una controversia di natura civilistica avente ad oggetto il diritto di proprietà in contestazione (in particolare, le parti divergevano circa la sussistenza di un diritto di servitù di passaggio).

Inoltre, il ricorrente sosteneva di essere stato “calunniato”: non corrispondeva alla realtà dei fatti la circostanza di aver investito il vicino con la propria auto. Anzi, la persona offesa, secondo l'imputato, si era “appositamente gettato a terra sostenendo di essere stato deliberatamente colpito dallo specchietto retrovisore della vettura”.

La Corte di Cassazione, tuttavia, non riteneva di dover aderire alle argomentazioni svolte dal ricorrente, rigettando il relativo ricorso, in quanto infondato.

Secondo la Cassazione, in particolare, le condotte contestate al ricorrente ben potevano rientrare nella previsione normativa di cui all’art. 612 bis del c.p., il quale richiede che il soggetto in questione ponga in essere una serie di condotte reiterate, tali da cagionare nella vittima un “perdurante stato d’ansia o di paura”.

Precisava la Corte come le singole condotte, in sé considerate, possono essere anche prive di rilevanza penale, essendo sufficiente che sussista un nesso di causalità tra le medesime e lo “stato d’ansia o di paura” patito dall’interessato.

Evidenziava la Corte, infatti, come “eventuali scopi ulteriori perseguiti dall’autore (nella specie e secondo il ricorrente, l’affermazione di un preteso diritto riguardante una servitù di passaggio) riguardano il movente della condotta ma non il dolo generico del reato di cui all’art. 612 bis del c.p.”, da individuarsi nella consapevolezza e volontà dell’agente di alterare l’equilibrio psichico della vittima.

Quanto all’asserita “calunnia” subita dal ricorrente, inoltre, la Cassazione riteneva che come motivo di ricorso non fosse ammissibile, dal momento che il ricorrente lamentava l’erroneità della ricostruzione dei fatti operata dal giudice del precedente grado di giudizio, che non può essere contestata in sede di giudizio di Cassazione (si ricorda, in proposito, che, ai sensi dell’art. 360 del c.p.c., in sede di ricorso per Cassazione è possibile lamentare solamente un errore “di diritto”, consistito nell’erronea applicazione di una norma di legge; la Corte di Cassazione, infatti, non può procedere ad un riesame del merito della controversia).

Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso proposto dal ricorrente, condannando il medesimo al pagamento delle spese processuali.


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