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Quand'è che può parlarsi di mobbing?

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Quand'è che può parlarsi di mobbing?
Il mobbing presuppone una serie di comportamenti di carattere persecutorio e vessatorio, posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi.
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 30606 del 20 dicembre 2017, ha avuto modo di fornire alcune interessanti precisazioni in tema di mobbing.

Il caso sottoposto all’esame della Cassazione ha visto come protagonista il dipendente di una società, che aveva agito in giudizio al fine di ottenere il risarcimento dei danni subiti a seguito della condotta di “mobbing” che la stessa avrebbe posto in essere nei suoi confronti.

La domanda era stata accolta sia in primo che in secondo grado, con la conseguenza che la società aveva deciso di rivolgersi alla Corte di Cassazione.

Nello specifico, il giudice di secondo grado aveva ritenuto dimostrato che il lavoratore in questione era stato spostato in un altro reparto dopo che questi si era rivolto ad un’organizzazione sindacale per la tutela dei propri interessi.

La Corte d’appello aveva, inoltre, ritenuto provato che il lavoratore era stato emarginato ed isolato nell’ambito del lavoro e che vi era stato “un abusivo esercizio del potere disciplinare da parte della società”.

Osservava il giudice, infine, come fosse stato accertato “l'intento persecutorio che avrebbe indotto il lavoratore a rassegnare le dimissioni”.

La Corte di Cassazione riteneva, in effetti, di dover aderire alle considerazioni svolte dal giudice di secondo grado, rigettando il ricorso proposto dalla datrice di lavoro, in quanto infondato.

Secondo la Cassazione, in particolare, la Corte d’appello aveva dato corretta applicazione agli artt. 2087 e 2697 c.c., “con riguardo alla qualificazione della condotta datoriale di mobbing e al riparto sull'onere della prova”.

Precisava la Corte, infatti, che il giudice d’appello aveva, del tutto correttamente, evidenziato gli elementi costitutivi del mobbing, che può ritenersi integrato quando sussiste:

- una serie di comportamenti di carattere persecutorio e vessatorio, posti in essere contro la vittima “in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi”;
- “l'evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente”;

- il nesso di causalità tra le suindicate condotte e il pregiudizio subito dalla vittima;

- “l'elemento soggettivo, cioè l'intento persecutorio”, che deve caratterizzare tutti i componenti lesivi.

Rilevava la Cassazione, inoltre, come la Corte d’appello avesse dato corretta applicazione ai principi dettati dal codice civile in tema di onere della prova, in base ai quali spetta al lavoratore l’onere di dimostrare il danno subito, “la nocività dell'ambiente di lavoro, nonchè il nesso tra l'uno e l'altro”.

Incombe, invece, sul datore di lavoro dimostraredi avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno e che la malattia del dipendente non sia ricollegabile alla inosservanza di tali obblighi”.

Ebbene, nel caso di specie, secondo la Cassazione, il giudice d’appello era giustamente giunto alla conclusione di dover condannare la datrice di lavoro, avendo individuato “il motivo che aveva causato la reazione di parte datoriale” e avendo “analizzato oggettivamente gli episodi con riguardo alla emarginazione del dipendente e all'abusivo esercizio del potere disciplinare”.

Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso proposto dalla società, confermando integralmente la sentenza impugnata.


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