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Quand'è configurabile il reato di minaccia?

Quand'è configurabile il reato di minaccia?
Ai fini della configurabilità del reato di minaccia, non è necessario che il soggetto passivo si sia sentito effettivamente intimidito, essendo sufficiente che la condotta posta in essere sia potenzialmente idonea ad incidere sulla libertà morale della vittima.
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 5454 del 6 febbraio 2018, ha avuto modo di fornire alcune interessanti precisazioni in ordine alla configurabilità del reato di “minaccia” (art. 612 c.p.).

Nel caso esaminato dalla Cassazione, il Giudice di pace di Eboli aveva assolto due imputati dal reato di minacce, di cui all’art. 612 c.p., e il Procuratore Generale presso la Corte d’appello di Salerno aveva deciso di impugnare la decisione, ritenendola ingiusta.

Osservava il Procuratore, in particolare, che ai fini della configurabilità del reato di minaccia, è sufficiente che “il male prospettato possa incutere timore nel destinatario, secondo un criterio di medianità riecheggiante le reazioni della donna e dell'uomo comune e la lesione della sfera di libertà morale”, non essendo necessario che il destinatario della minaccia risulti effettivamente intimorito.

Di conseguenza, secondo il Procuratore, la sentenza di assoluzione impugnata appariva errata, dal momento che il giudice aveva assolto gli imputati “per il solo fatto che la persona offesa aveva dichiarato che la minaccia proferita non la aveva intimorita”.

La Corte di Cassazione riteneva, in effetti, di dover aderire alle considerazioni svolte dal Procuratore, accogliendo il relativo ricorso, in quanto fondato.

Evidenziava la Cassazione, infatti, che “nel reato di minaccia elemento essenziale è la limitazione della libertà psichica mediante la prospettazione del pericolo che un male ingiusto possa essere cagionato dall'autore alla vittima, senza che sia necessario che uno stato di intimidazione si verifichi concretamente in quest'ultima”.

Anche secondo la Corte, dunque, ai fini della configurabilità del reato di minaccia, “non è necessario che il soggetto passivo si sia sentito effettivamente intimidito, essendo richiesto che la condotta posta in essere dall'agente sia potenzialmente idonea ad incidere sulla libertà morale del soggetto passivo”.

Ebbene, nel caso di specie, la Corte rilevava come il giudice del precedente grado di giudizio non avesse dato corretta applicazione ai suindicati principi, in quanto la sentenza di assoluzione si era fondata solo sul fatto che, in corso di causa, la persona offesa aveva esplicitamente ammesso di non essere stata intimorita dalla minaccia ricevuta, avendo la detta detto agli imputati “non mi fate paura”.

Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione accoglieva il ricorso proposto dal Procuratore Generale, annullando la sentenza impugnata e rinviando la causa al Giudice di pace di Eboli, affinchè il medesimo procedesse ad un nuovo esame della questione.


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