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A quale trattamento retributivo va incontro il dipendente che passi da una amministrazione all’altra?

Lavoro - -
A quale trattamento retributivo va incontro il dipendente che passi da una amministrazione all’altra?
Qualora il lavoratore passi ad altra amministrazione, non può essergli negata la continuità giuridica del rapporto di lavoro, né, tantomeno, il mantenimento del trattamento economico.

La Suprema Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 20218/2020, ha voluto rispolverare alcuni importanti principi di diritto relativi al passaggio del pubblico dipendente da una amministrazione all’altra. Può infatti accadere che un lavoratore faccia questo tipo di scelta per motivi familiari, di avanzamento di carriera, o altro ancora.

La quaestio nasce dal ricorso azionato da alcuni lavoratori ed accolto parzialmente dalla Corte d’Appello di Roma, che, seppur da un lato riconosceva il diritto dei ricorrenti a conservare il trattamento giuridico ed economico in godimento al momento del passaggio ad altra amministrazione, che andava garantito attraverso l'attribuzione di un assegno ad personam pari all'ammontare dell'indennità di specificità organizzativa, da corrispondere a far data dal 30 aprile 2008 fino al riassorbimento nei miglioramenti contrattuali successivi, dall’altro escludeva che gli stessi potessero pretendere la conservazione della polizza sanitaria integrativa e l'attivazione delle procedure di riqualificazione.

La vicenda approdava così in Cassazione, che, ribadendo un consolidato orientamento di legittimità, sottolineava che, quando si verifica il passaggio di un dipendente ad altra amministrazione, “sono garantiti la continuità giuridica del rapporto di lavoro e il mantenimento del trattamento economico per il quale, ove risulti superiore a quello spettante presso l'ente di destinazione, opera la regola del riassorbimento in occasione dei miglioramenti di inquadramento e di trattamento economico riconosciuti per effetto del trasferimento, secondo il principio generale di cui all'art. 31 del d.lgs. n. 165 del 2001, dovendosi contemperare, in assenza di una specifica previsione normativa, il principio di irriducibilità della retribuzione, con quello di parità di trattamento dei dipendenti pubblici stabilito dall'art. 45 del medesimo D.Lgs..

Il disposto dell'art. 31 del T.U.P.I. insegna infatti che il fatto di passare ad altra amministrazione comporta l’inserimento del lavoratore all’interno di una differente realtà organizzativa, nonché di un diverso contesto di regole normative e retributive, da subito applicabili al rapporto di lavoro.

I principi finora esposti coincidono perfettamente con quelli fissati dalla Corte di Giustizia che, nell'interpretare la direttiva 2001/23, la quale si applica anche agli enti pubblici, ha sottolineato che la stessa, in caso di trasferimento d'impresa, è volta a garantire il giusto equilibrio fra gli interessi dei dipendenti e quelli del cessionario. In particolare, quest’ultimo non può incontrare vincoli in “una clausola di rinvio dinamico ai contratti collettivi negoziati e stipulati dopo la data del trasferimento” nel caso in cui non “abbia la possibilità di partecipare al processo di negoziazione di siffatti contratti”.

Nel caso in esame, la domanda dei ricorrenti contrasta con detti principi, i quali non vengono meno in virtù della previsione della conservazione dello “stato giuridico ed economico in godimento”. Con questa locuzione, infatti, il legislatore ha voluto soltanto “ribadire la continuità dei rapporti, che comporta il mantenimento del livello retributivo raggiunto e dello "status", ossia dell'anzianità e della qualifica, al fine di salvaguardare la posizione già acquisita e di scongiurare mutamenti in peius del trattamento economico e della professionalità”.

Infine, secondo gli Ermellini, “il dipendente che transiti, come nella fattispecie, da un ente pubblico allo Stato o viceversa non ha diritto a percepire l'assegno ad personam previsto dall'art. 202 del d.P.R. n. 3 del 1957, innovato dall'art. 3, comma 57, della legge n. 537 del 1993 atteso che detta norma non esprime un principio di carattere generale e si riferisce esclusivamente ai casi di passaggio di carriera da parte dei dipendenti statali” (vedasi anche Cass. n. 17645/2009 e Cass. n. 19437/2018).

È in virtù di detti principi di diritto che la Suprema Corte rigettava il ricorso.



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