Ricevere una diagnosi di morbo di Alzheimer significa affrontare non solo il progressivo deterioramento cognitivo del proprio caro, ma anche un peso economico che può risultare schiacciante. Quando la situazione si fa insostenibile e il ricovero in una Residenza Sanitaria Assistenziale (RSA) diventa inevitabile, le famiglie si trovano di fronte a rette mensili che possono superare diverse migliaia di euro. Per decenni, il meccanismo è stato sempre lo stesso: le strutture e le Asl dividevano la retta in due parti distinte. Una quota, definita "sanitaria", veniva coperta dal Sistema Sanitario Nazionale. La parte restante, etichettata come "alberghiera" o "socio-assistenziale", finiva invece sulle spalle dei pazienti e dei loro familiari. Questo sistema ha prosciugato i risparmi di intere generazioni e costretto molti figli a contrarre debiti pur di garantire assistenza ai propri genitori. Ma questa prassi consolidata è stata ora messa in discussione da una pronuncia giudiziaria che potrebbe rappresentare una svolta per chi si trova ad affrontare questa drammatica situazione.
La sanità non si può spezzettare: l'intero ricovero è cura
Il punto centrale della sentenza n. 503 del 25 settembre 2025 del Tribunale di Pordenone riguarda la natura stessa delle prestazioni erogate ai malati di Alzheimer all'interno delle RSA. I giudici friulani, richiamando espressamente la Cassazione con la sentenza n. 34590 del 2023, hanno demolito la distinzione artificiosa tra quota sanitaria e quota alberghiera. Per i pazienti affetti da demenza grave, infatti, non esiste una netta separazione tra assistenza medica e attività quotidiane: ogni gesto, dalla somministrazione dei pasti all'igiene personale, dalla mobilizzazione al supporto nelle funzioni basilari, costituisce parte integrante del percorso terapeutico. Non si tratta di servizi paragonabili a quelli offerti da una struttura alberghiera a un ospite in salute, ma di prestazioni socio-sanitarie ad elevata integrazione sanitaria in cui l'aspetto medico è inscindibile e prevalente.
Aiutare un malato di Alzheimer a nutrirsi non è un servizio di ristorazione, è una necessità clinica. Assistere una persona che ha perso l'autonomia nelle funzioni essenziali non è ospitalità, è terapia. Il Tribunale ha quindi riconosciuto che in questi casi esiste una totale "inscindibilità" tra le diverse componenti dell'assistenza, rendendo impossibile e illegittima qualsiasi suddivisione economica della retta.
Il quadro normativo che protegge i diritti dei malati
La decisione del Tribunale di Pordenone rappresenta l'applicazione di un quadro normativo già esistente e vincolante. L'articolo 30 della legge n. 730 del 1983 stabilisce che quando l'attività sanitaria risulta connessa e prevalente, la competenza spetta interamente al Servizio Sanitario Nazionale. Questa impostazione è stata poi consolidata dalla giurisprudenza di legittimità: la Cassazione, con la sentenza n. 4558 del 2012, aveva già chiarito che per i malati gravi affetti da Alzheimer non è possibile operare una distinzione tra quote sanitarie e quote assistenziali, poiché l'intera prestazione è finalizzata alla tutela della salute. Le prestazioni in questione rientrano inoltre nei Livelli Essenziali di Assistenza (LEA), definiti inizialmente dal Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 2001 e aggiornati con il D.P.C.M. del 12 gennaio 2017.
I LEA rappresentano prestazioni e servizi che il Sistema Sanitario Nazionale è tenuto a garantire a tutti i cittadini, gratuitamente o dietro pagamento di un ticket. Come stabilito dall'art. 117 Cost. e ribadito dal Consiglio di Stato, questi diritti civili e sociali non possono essere negati o ridimensionati dalle Regioni o dai Comuni adducendo problemi di bilancio o carenza di risorse. Il diritto alla salute prevale sui vincoli economici degli enti locali.
Contratti annullati e fine delle richieste ai familiari
Le conseguenze pratiche di questa sentenza sono destinate a produrre effetti su tutto il territorio nazionale. Se la prestazione deve essere integralmente coperta dal Servizio Sanitario Nazionale, ogni contratto, convenzione o delibera che impone al paziente o ai suoi parenti il pagamento di una quota risulta nullo. È come se quei documenti firmati sotto pressione, spesso in momenti di estrema vulnerabilità emotiva, non fossero mai esistiti dal punto di vista giuridico.
Ma c'è di più: la sentenza blocca anche la cosiddetta "azione di rivalsa", una pratica particolarmente odiosa che colpisce molte famiglie. Accade infatti che il Comune intervenga inizialmente pagando la quota definita "sociale" della retta, per poi avviare procedure di recupero crediti nei confronti dei familiari del malato, anche a distanza di anni. La giurisprudenza citata dal Tribunale di Pordenone è cristallina su questo punto: tale recupero non ha alcuna legittimità. Se l'intera prestazione ha natura sanitaria, come stabilito per il caso della paziente esaminata dai giudici friulani, nessuna somma può essere pretesa dai parenti. L'onere economico rimane interamente a carico del Sistema Sanitario Nazionale, come previsto dalla legge n. 833 del 1978 che ha istituito il SSN e come tutelato dalle convenzioni internazionali, dalla Carta sociale europea alla Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità. Questa pronuncia apre la strada a possibili azioni di rimborso per chi ha già pagato in passato e rappresenta uno scudo per chi si trova oggi a fronteggiare richieste economiche che la legge definisce illegittime.