La Legge 104 rappresenta uno degli strumenti fondamentali a tutela dei lavoratori che prestano assistenza a familiari con disabilità in condizione di gravità, riconosciuta ai sensi dell’art. 3, comma 3, della legge stessa. Tra le varie agevolazioni previste, l’art. 33, comma 3, stabilisce il diritto a tre giorni di permesso retribuito al mese, frazionabili anche in ore, finalizzati esclusivamente all’assistenza del familiare con disabilità.
Notoriamente, l’utilizzo improprio di tali permessi può dare luogo a gravi conseguenze disciplinari, finanche al licenziamento per giusta causa.
Recentemente, la giurisprudenza ha chiarito che non ogni attività svolta durante il permesso deve necessariamente richiedere la presenza fisica continuativa del caregiver, purché sussista un nesso funzionale tra le attività da questi svolte e le esigenze della persona assistita.
Tale chiarimento è avvenuto con due diversi provvedimenti, da cui si desume il principio di proporzionalità, di cui si dirà più avanti.
- Con l’ordinanza n. 15029 del 4 giugno 2025, la Corte di Cassazione ha confermato la legittimità del licenziamento per giusta causa quando il permesso previsto dalla Legge 104 viene utilizzato per scopi ricreativi, del tutto estranei alla funzione assistenziale. La Suprema Corte ha chiarito che il permesso è strettamente finalizzato alla cura del disabile e non può diventare strumento compensativo o di riposo gratuito. In tale contesto, l’abuso viola i principi di correttezza e buona fede e integra un'indebita appropriazione dell’indennità retribuita.
- L’ordinanza n. 14763 del 1° giugno 2025 ha stabilito che un breve lasso di tempo impiegato in attività personali, come una camminata a scopo terapeutico, non comporta un utilizzo improprio dei permessi.
Ciò in quanto è necessario che il caregiver verta in condizioni di benessere psicofisico, per assicurare al familiare assistito un’adeguata cura e attenzione.
Inoltre, nel caso di specie, la lavoratrice illegittimamente licenziata ha dimostrato che:
Inoltre, nel caso di specie, la lavoratrice illegittimamente licenziata ha dimostrato che:
- la camminata veloce aveva scopi terapeutici perché prescritta da un medico;
- tale attività non si è protratta per più di un’ora;
- durante la sua assenza dal domicilio del familiare con disabilità, la caregiver era in contatto con una collaboratrice domestica che prestava assistenza in sua vece.
Ciò ha dimostrato che la sua attività di assistenza era comunque correttamente espletata, nonostante l’assenza fisica dal domicilio del parente assistito.
In altre parole, una “pausa” dall’assistenza diretta non configura di per sé un abuso, a condizione che sia strettamente collegata alle necessità della persona con disabilità o di benessere del caregiver e che non si trasformi in un momento di svago o in attività del tutto estranee alla funzione del permesso.
Dalla lettura coordinata delle citate pronunce si ricavano alcune indicazioni operative, utili per evitare contestazioni:
- Finalità assistenziale. Il tempo deve essere impiegato per attività che abbiano un nesso concreto con la cura o il sostegno del familiare disabile, anche se non comportano presenza fisica continuativa;
- Proporzionalità. Eventuali momenti di allontanamento dall’assistito devono essere limitati e giustificati dalla necessità di svolgere compiti collegati all’assistenza o necessari per la salute e il benessere del caregiver.
L’interpretazione della Corte di Cassazione consente di affermare che l’utilizzo dei permessi ex art. 33, comma 3, L. 104/1992 non richiede un’assistenza ininterrotta e “fisica” per l’intera giornata, ma è essenziale che ogni attività svolta durante il permesso sia riconducibile, in modo diretto o indiretto, al soddisfacimento dei bisogni della persona disabile.
Inoltre, la Corte sottolinea che anche un allontanamento momentaneo dovuto ai bisogni fisici del caregiver costituisce un atto legittimo, posto che questi non potrà prestare un’adeguata assistenza se verte in condizioni psicofisiche inadeguate.
Inoltre, la Corte sottolinea che anche un allontanamento momentaneo dovuto ai bisogni fisici del caregiver costituisce un atto legittimo, posto che questi non potrà prestare un’adeguata assistenza se verte in condizioni psicofisiche inadeguate.
Il confine, dunque, non è temporale ma funzionale: ciò che conta è che vi sia un nesso causale tra l’attività svolta e l’assistenza dovuta.
Tale nesso non viene interrotto quando il caregiver usa una piccola parte del suo permesso per soddisfare le proprie esigenze di salute fisica e mentale, da cui dipende la qualità dell’assistenza fornita.
Ciò che conta, infatti, è che durante la giornata di permesso l’attività di cura e assistenza sia prevalente su tutte le altre svolte.