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Lavoratore, postare sui social in malattia può costarti il posto di lavoro, ecco cosa devi evitare: nuova sentenza

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Lavoratore, postare sui social in malattia può costarti il posto di lavoro, ecco cosa devi evitare: nuova sentenza
Postare sui social mentre si è in malattia può costare caro. Lo ha confermato una nuova sentenza che accende i riflettori su un tema sempre più scottante: i social fuori orario non sempre sono "fuori problema"
La Corte d’Appello di Roma, con la sentenza n. 4047/2025, ha messo un punto fermo su un tema molto dibattuto: è legittimo licenziare un dipendente che, mentre è in malattia, usa i social in modo incompatibile con le sue condizioni di salute. Il caso riguardava un lavoratore che, sebbene in malattia, pubblicava con regolarità foto e video che lo ritraevano in palestra, intento ad allenarsi. Le sue attività erano in evidente contrasto con le prescrizioni mediche e con il tipo di infortunio dichiarato, e ciò ha determinato una lesione del rapporto fiduciario tra dipendente e datore di lavoro.
Non si tratta di un episodio isolato. La giurisprudenza, da anni, riconosce che l’obbligo di correttezza e buona fede (previsto dall’art. 1175 del c.c. e dall’art. 1375 del c.c.) vale anche durante l’assenza per malattia. Il lavoratore non deve soltanto restare a casa durante le fasce di reperibilità, ma deve anche evitare comportamenti che possano pregiudicare o ritardare la guarigione. Se poi questi comportamenti vengono pubblicamente esibiti sui social, il danno diventa doppio: sanitario e d'immagine per l’azienda.
Non solo malattia: anche le bugie sui permessi possono finire male
Il principio sancito dalla sentenza romana si applica anche ad altri tipi di assenza dal lavoro. Il Tribunale di Napoli, con la sentenza n. 658/2025, ha dato ragione a un’azienda che aveva licenziato un dipendente dopo che questi aveva chiesto un permesso studio e, poi, era stato beccato a pubblicare foto da una località di vacanza. Il dipendente aveva mentito, ma a incastrarlo non è stato un controllo investigativo bensì la sua stessa attività sui social network.
Stesso copione a Benevento, dove un altro lavoratore in malattia è stato licenziato dopo aver pubblicato un video mentre suonava con la sua band dal vivo. La sentenza n. 1053/2024 del Tribunale di Benevento ha confermato il licenziamento per giusta causa, rilevando un’incompatibilità evidente tra le attività svolte e lo stato di salute dichiarato.
In tutti questi casi, i giudici hanno ribadito un concetto chiave: la fiducia è il perno del rapporto di lavoro. Quando questa fiducia viene minata, specialmente con comportamenti pubblicamente documentati e incompatibili con le motivazioni dell’assenza, il licenziamento è legittimo secondo quanto previsto dall’art. 2119 del c.c., che regola la cessazione del rapporto per giusta causa.
Occhio anche al tempo libero: i social non sono mai completamente “privati”
Anche fuori dall’orario di lavoro, l’uso dei social media può trasformarsi in un boomerang. Alcuni lavoratori pensano di essere al sicuro una volta usciti dall’ufficio, ma la giurisprudenza italiana dimostra che certi comportamenti online, anche nel tempo libero, possono compromettere il rapporto di lavoro. Un esempio lampante è fornito dalla sentenza n. 6854/2023 del Tribunale di Roma, che ha confermato il licenziamento di una commessa che aveva pubblicato un video ironico su TikTok in cui si lamentava del proprio lavoro. Il tono era scherzoso, ma il giudice ha rilevato che l'immagine aziendale era stata danneggiata, e questo è bastato per ritenere valido il licenziamento.
Insulti, critiche ingiustificate, contenuti razzisti o discriminatori pubblicati anche da casa possono avere ripercussioni molto serie sul piano lavorativo, specie se l’azienda viene citata o riconosciuta. La chiave di lettura, ancora una volta, è il vincolo di lealtà e correttezza, che non si spegne quando timbri il cartellino. I social, anche se teoricamente “personali”, sono spazi pubblici: tutto ciò che si pubblica può diventare prova in sede giudiziaria, specie se lesivo della dignità o dell’immagine del datore di lavoro.
Quando postare non è un problema: il caso dell’influencer spagnola
Non sempre, però, l’attività sui social porta al licenziamento. In alcuni casi, i giudici si sono espressi in senso opposto, difendendo i lavoratori. Un esempio arriva dalla Spagna, dove il Tribunal Superior de Justicia de Castilla y León (sentenza n. 260/2025) ha ritenuto illegittimo il licenziamento di una influencer che, pur essendo in malattia per un disturbo d’ansia, continuava a pubblicare contenuti sponsorizzando cosmetici. Secondo il tribunale spagnolo, l’attività social non comprometteva né la salute della lavoratrice, né il rapporto fiduciario con l’azienda.
Questa decisione sottolinea l’importanza del contesto e della natura dei contenuti pubblicati. Se l’attività social è compatibile con le proprie condizioni psicofisiche, e non arreca danno all’azienda, non può costituire di per sé un motivo valido di licenziamento. Il principio della proporzionalità tra condotta e sanzione rimane, infatti, centrale in ogni giudizio.


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