La controversia trae origine dal rapporto di lavoro tra una dipendente e la società Total E. E P. Italia S.p.A. Con provvedimento del febbraio 2020, l’azienda disponeva il trasferimento della lavoratrice dalla sede di Roma a quella di Corleto Perticara (Potenza). L’interessata, madre di due figli di due e tre anni, non si presentava nella nuova sede, comunicando l’impossibilità di spostarsi per ragioni familiari e chiedendo di restare operativa nella capitale.
L’azienda, constatata l’assenza dal servizio dall’11 al 15 maggio 2020, le contestava l’assenza ingiustificata e, in data 9 giugno 2020, procedeva al licenziamento disciplinare.
La lavoratrice impugnava il provvedimento davanti al Tribunale di Roma, sostenendo che il trasferimento fosse illegittimo e che il suo rifiuto fosse giustificato da gravi ragioni familiari. Il Tribunale respingeva il ricorso e la decisione veniva confermata dalla Corte d’Appello di Roma con sentenza n. 221/2024.
In particolare, i giudici di secondo grado osservavano che, alla data del trasferimento, la società non disponeva più di alcuna sede nella città di Roma, circostanza che escludeva la possibilità di mantenere la lavoratrice in quella sede. Inoltre, le giustificazioni addotte dall’interessata erano ritenute generiche, non essendo state allegate prove concrete delle “oggettive difficoltà familiari” lamentate.
La lavoratrice avanzava ricorso per Cassazione, ma gli Ermellini hanno dichiarato il ricorso infondato, confermando integralmente la decisione d’appello.
I giudici di legittimità hanno ribadito il principio consolidato secondo cui il lavoratore può rifiutare la prestazione solo se tale rifiuto non contrasti con i principi di buona fede (art. 1460, co. 2, c.c.), valutando caso per caso l’entità dell’inadempimento del datore di lavoro e i suoi effetti in negativo sulle esigenze di vita del lavoratore.
Nel caso concreto, la Corte territoriale aveva correttamente accertato che:
- la società non disponeva più di alcuna sede a Roma, dunque il trasferimento era giustificato da esigenze organizzative;
- la lavoratrice non aveva fornito elementi concreti per dimostrare l’impossibilità di trasferirsi;
- anche ipotizzando un vizio nel trasferimento, il suo rifiuto di prendere servizio non era sorretto da buona fede, rendendo legittimo il licenziamento per assenza ingiustificata.
Richiamando alcuni precedenti conformi (Cass. 11408/2018; 14138/2018; 21391/2019; 4404/2022; 30080/2024), la Cassazione ha precisato che la valutazione delle circostanze spetta esclusivamente al giudice del merito e non può essere rivista in sede di legittimità salvo manifesta illogicità. Motivo per cui, la Corte ha rigettato il ricorso.
In definitiva, è chiaro che, se l’azienda chiude la sede originaria e propone un trasferimento, il lavoratore non può rifiutare sulla base di motivazioni generiche o non sorrette da idonea documentazione. Affermare semplicemente di avere “problemi familiari” non è sufficiente. In assenza di prove concrete e dettagliate che dimostrino l’impossibilità reale di spostarsi, il rischio concreto è un licenziamento per assenza ingiustificata, senza possibilità di reintegro.