In generale, le infiltrazioni in un sottostante locale commerciale indicano la presenza di acqua o umidità che penetra dall'alto (solitamente dal pavimento dell'immobile sovrastante, dal lastrico solare, dal terrazzo o da impianti difettosi) e si riversa nel locale situato al piano inferiore. In questi casi, si produce un danno da infiltrazioni che può avere varie cause come - ad esempio - difetti di impermeabilizzazione, rottura o perdita di tubazioni, umidità di risalita o problemi strutturali che favoriscono il passaggio dell'acqua.
Dalla giurisprudenza, recentemente, è giunto un interessante contributo che spiega quali sono i danni risarcibili. In particolare, la sentenza del Tribunale di Ragusa n. 1189 del 4 agosto scorso prende le mosse da una disputa giudiziaria iniziata dalla società conduttrice di un locale commerciale, che dichiarava di aver subìto infiltrazioni da una tubatura di scarico, al servizio esclusivo di alcuni appartamenti privati.
Conseguentemente, al fine di veder riconosciuto un ristoro economico per i pregiudizi patrimoniali, la parte attrice citava in giudizio i proprietari degli immobili, in quanto considerati responsabili dei danni prodotti al sottostante negozio e collegati:
Dalla giurisprudenza, recentemente, è giunto un interessante contributo che spiega quali sono i danni risarcibili. In particolare, la sentenza del Tribunale di Ragusa n. 1189 del 4 agosto scorso prende le mosse da una disputa giudiziaria iniziata dalla società conduttrice di un locale commerciale, che dichiarava di aver subìto infiltrazioni da una tubatura di scarico, al servizio esclusivo di alcuni appartamenti privati.
Conseguentemente, al fine di veder riconosciuto un ristoro economico per i pregiudizi patrimoniali, la parte attrice citava in giudizio i proprietari degli immobili, in quanto considerati responsabili dei danni prodotti al sottostante negozio e collegati:
- alle spese per la riparazione del negozio, pari ad alcune migliaia di euro (danno emergente);
- alla chiusura forzata dell'attività commerciale per un certo periodo al fine di effettuare le riparazioni forzate e pulire l'immobile (lucro cessante).
In particolare, nei confronti dei proprietari degli immobili in questione, la società conduttrice chiedeva l'accertamento della loro responsabilità in quanto custodi della diramazione, come indicato dall'art. 2051 del c.c. riguardante la responsabilità per danni cagionati da cosa in custodia. Ebbene, dal punto di vista tecnico-giuridico, a chi reclamava il risarcimento danni sarebbe stato sufficiente provare il rapporto di causalità tra infiltrazioni e bene custodito, senza dover al contempo provare un'eventuale negligenza dei convenuti nell'insorgenza del danno.
Come infatti indica la giurisprudenza della Cassazione (tra cui n. 2332/2018), l'art. 2051 c.c. prevede una forma di responsabilità oggettiva per i danni cagionati dalle cose in custodia: ciò significa che il custode risponde automaticamente del danno, senza che sia necessario provare una sua colpa o inerzia, a differenza di quanto accade, invece, nella responsabilità aquiliana di cui all'art. 2043 del c.c.. L'unico limite a tale responsabilità è rappresentato dal caso fortuito, cioè un evento imprevedibile e inevitabile, estraneo alla sfera di controllo del custode.
In breve, in casi come questo, non rileva l'ordinaria diligenza adottata dal custode: se la cosa ha causato un danno, egli è tenuto a risarcirlo, salvo dimostri che l'evento si sia verificato per una causa del tutto eccezionale e indipendente dalla sua custodia. Ecco perché, in applicazione dell'art. 2051 c.c., ai fini della prova del fatto illecito prodotto - e quindi del nesso causale - non era necessario dimostrare con precisione la fonte o causa delle infiltrazioni, ma bastava dimostrare che l'evento lesivo aveva avuto origine dagli appartamenti soprastanti dei convenuti (come indicato da Cass. n. 2332/2018).
Ebbene, la raccolta delle testimonianze in corso di causa ha permesso di accertare i fatti accaduti, determinando il giudice siciliano ad accogliere, almeno parzialmente, la proposta domanda risarcitoria. Non fu infatti riconosciuto il lucro cessante, pur con la presentazione in aula - al fine di dimostrare l'importo dei danni - del documento da cui emergevano gli incassi, per l'identico periodo, riferiti all'anteriore anno. Tale prova non bastò a veder riconosciuto integralmente il risarcimento danni. Come indicato nella sentenza n. 1189 del tribunale di Ragusa, infatti, parte attrice avrebbe dovuto anche provare gli utili abituali netti, soppesando costi e ricavi e spiegando - quindi - ciò che la parte attrice avrebbe, eventualmente, perso - o non ottenuto come incasso - nel periodo di chiusura forzata dell'attività commerciale.
Il giudice ha cioè osservato che, per ottenere questo tipo di risarcimento, non basta affermare che c'è stata la chiusura e che - quindi - si è perso del denaro: occorre dimostrare in maniera concreta e documentata gli utili abituali netti che la società avrebbe normalmente conseguito, e che non ha potuto realizzare. Per fare ciò, la società attrice avrebbe dovuto presentare bilanci, conti economici, prospetti di ricavi e costi o altri documenti contabili che mostrassero l'andamento economico dell'attività in un periodo più ampio, così da quantificare una media attendibile di guadagno. Ma, poiché la società non ha fornito tali prove, il tribunale ragusano ha concluso che non è stato dimostrato con certezza che vi fosse un utile perduto nel periodo compreso nel lasso di tempo indicato. Pertanto, il danno da mancato guadagno non è stato dimostrato e, pertanto, non può essere riconosciuto.
Come infatti indica la giurisprudenza della Cassazione (tra cui n. 2332/2018), l'art. 2051 c.c. prevede una forma di responsabilità oggettiva per i danni cagionati dalle cose in custodia: ciò significa che il custode risponde automaticamente del danno, senza che sia necessario provare una sua colpa o inerzia, a differenza di quanto accade, invece, nella responsabilità aquiliana di cui all'art. 2043 del c.c.. L'unico limite a tale responsabilità è rappresentato dal caso fortuito, cioè un evento imprevedibile e inevitabile, estraneo alla sfera di controllo del custode.
In breve, in casi come questo, non rileva l'ordinaria diligenza adottata dal custode: se la cosa ha causato un danno, egli è tenuto a risarcirlo, salvo dimostri che l'evento si sia verificato per una causa del tutto eccezionale e indipendente dalla sua custodia. Ecco perché, in applicazione dell'art. 2051 c.c., ai fini della prova del fatto illecito prodotto - e quindi del nesso causale - non era necessario dimostrare con precisione la fonte o causa delle infiltrazioni, ma bastava dimostrare che l'evento lesivo aveva avuto origine dagli appartamenti soprastanti dei convenuti (come indicato da Cass. n. 2332/2018).
Ebbene, la raccolta delle testimonianze in corso di causa ha permesso di accertare i fatti accaduti, determinando il giudice siciliano ad accogliere, almeno parzialmente, la proposta domanda risarcitoria. Non fu infatti riconosciuto il lucro cessante, pur con la presentazione in aula - al fine di dimostrare l'importo dei danni - del documento da cui emergevano gli incassi, per l'identico periodo, riferiti all'anteriore anno. Tale prova non bastò a veder riconosciuto integralmente il risarcimento danni. Come indicato nella sentenza n. 1189 del tribunale di Ragusa, infatti, parte attrice avrebbe dovuto anche provare gli utili abituali netti, soppesando costi e ricavi e spiegando - quindi - ciò che la parte attrice avrebbe, eventualmente, perso - o non ottenuto come incasso - nel periodo di chiusura forzata dell'attività commerciale.
Il giudice ha cioè osservato che, per ottenere questo tipo di risarcimento, non basta affermare che c'è stata la chiusura e che - quindi - si è perso del denaro: occorre dimostrare in maniera concreta e documentata gli utili abituali netti che la società avrebbe normalmente conseguito, e che non ha potuto realizzare. Per fare ciò, la società attrice avrebbe dovuto presentare bilanci, conti economici, prospetti di ricavi e costi o altri documenti contabili che mostrassero l'andamento economico dell'attività in un periodo più ampio, così da quantificare una media attendibile di guadagno. Ma, poiché la società non ha fornito tali prove, il tribunale ragusano ha concluso che non è stato dimostrato con certezza che vi fosse un utile perduto nel periodo compreso nel lasso di tempo indicato. Pertanto, il danno da mancato guadagno non è stato dimostrato e, pertanto, non può essere riconosciuto.