La prescrizione dei debiti fiscali è uno degli strumenti più delicati di tutela del contribuente. I termini variano a seconda della natura del tributo:
- 10 anni per le imposte statali come IRPEF, IVA, IRES, imposta di bollo e di registro;
- 5 anni per tributi locali, sanzioni amministrative e contributi previdenziali INPS e INAIL;
- 3 anni per il bollo auto.
Superati questi termini, il credito si estingue, ma non automaticamente, in quanto serve un atto concreto di opposizione. Proprio su questo punto è intervenuta la Cassazione, chiarendo che il silenzio del contribuente di fronte a un’intimazione di pagamento equivale a un’accettazione tacita del debito, con la conseguente “cristallizzazione” dell’obbligazione tributaria.
Il caso oggetto della pronuncia nasce da un preavviso di fermo amministrativo notificato a una contribuente nel 2017, per un debito complessivo di oltre 266mila euro relativo a imposte e contributi. In primo grado, la Commissione Tributaria Provinciale aveva parzialmente accolto il ricorso, annullando tre cartelle e confermandone due, per un importo residuo di circa 85mila euro. La contribuente impugnava la decisione dinanzi alla C.T.R. Sicilia, sostenendo che una delle cartelle fosse nulla o prescritta, poiché tra la notifica (2001) e l’intimazione (2012) erano trascorsi più di dieci anni.
La C.T.R. le dava ragione, ma l’Agenzia delle Entrate Riscossione ricorreva per Cassazione, lamentando la violazione degli artt. 19 e 21 del D.Lgs. 546/1992. Secondo l’Ente la prescrizione andava eccepita mediante impugnazione dell’intimazione di pagamento entro 60 giorni, non con il successivo ricorso contro il preavviso di fermo.
La Quinta Sezione Civile della Cassazione ha accolto il ricorso dell’Agenzia, ribaltando la sentenza d’appello e rigettando nel merito la domanda della contribuente.
La motivazione si fonda su un principio di diritto consolidato, secondo cui l’intimazione di pagamento prevista dall’art. 50 delle disp. risc. imp. redditi, co. 2, è un atto autonomamente impugnabile, perfettamente equiparabile all’avviso di mora di cui all’art. 46 delle disp. risc. imp. redditi.
Poiché quest’ultimo è espressamente menzionato dall’art. 19, co. 1, lett. e), del D.Lgs. 546/1992 tra gli atti impugnabili, anche l’intimazione rientra a pieno titolo in tale categoria.
Ciò significa che il contribuente ha l’onere di proporre ricorso contro l’intimazione entro 60 giorni dalla notifica, se intende far valere la prescrizione o qualsiasi altro vizio del credito.
Non è sufficiente attendere un successivo atto, come un pignoramento o un fermo amministrativo, in quanto quel silenzio comporta la cristallizzazione definitiva del debito.
La Corte richiama un orientamento già consolidato, citando in particolare Cass. n. 6436/2025, Cass. n. 20476/2025 e le Sezioni Unite n. 8279/2008 e n. 26817/2024. Secondo tale orientamento, l’intimazione di pagamento non è un semplice sollecito, ma rappresenta il momento conclusivo e vincolante in cui il contribuente può far valere eventuali vizi della cartella originaria, anche nel caso in cui la stessa sia stata notificata irregolarmente o mai ricevuta. Pertanto, ignorare l’intimazione significa lasciare che la pretesa fiscale si consolidi e diventi inoppugnabile, impedendo qualsiasi futura eccezione.