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Articolo 1118 Codice Civile

(R.D. 16 marzo 1942, n. 262)

[Aggiornato al 07/03/2024]

Diritti dei partecipanti sulle cose comuni

Dispositivo dell'art. 1118 Codice Civile

(1)Il diritto di ciascun condomino sulle parti comuni, salvo che il titolo non disponga altrimenti, è proporzionale al valore dell'unità immobiliare che gli appartiene.

Il condomino non può rinunziare al suo diritto sulle parti comuni(2).

Il condomino non può sottrarsi all'obbligo di contribuire alle spese per la conservazione delle parti comuni, neanche modificando la destinazione d'uso della propria unità immobiliare, salvo quanto disposto da leggi speciali.

Il condomino può rinunciare all'utilizzo dell'impianto centralizzato di riscaldamento o di condizionamento, se dal suo distacco non derivano notevoli squilibri di funzionamento o aggravi di spesa per gli altri condomini. In tal caso il rinunziante resta tenuto a concorrere al pagamento delle sole spese per la manutenzione straordinaria dell'impianto e per la sua conservazione e messa a norma.

Note

(1) Articolo così modificato con legge dell'11 dicembre 2012, n. 220.
L’art. 1118 ha subito alcune integrazioni, tra cui:
- il divieto di rinunciare al diritto sulle cose comuni è divenuto assoluto ed inderogabile, anche grazie al richiamo contenuto nell’art. 1138 del c.c.;
- si è chiarito che il condomino non può sottrarsi all’obbligo di pagare le spese, neppure modificando la destinazione d’uso dell’unità immobiliare.
- è stata recepita la giurisprudenza sul distacco dall’impianto di riscaldamento o di condizionamento: esso è consentito se non ne derivano notevoli squilibri di funzionamento o aggravi di spesa per gli altri condomini, ma resta fermo l’obbligo di concorrere nelle spese per la manutenzione straordinaria e per la conservazione e messa a norma dell’impianto.
(2) Sul condomino pesa un'obbligazione propter rem; ad essa il condomino può sottrarsi esclusivamente cedendo il piano o la porzione di piano di cui ha la titolarità esclusiva.

Ratio Legis

La disposizione richiama la natura strumentale del condominio sulle parti comuni dell'immobile rispetto agli appartamenti, ovviamente di proprietà esclusiva dei singoli condomini.

Spiegazione dell'art. 1118 Codice Civile

Proporzionalità del diritto di ciascun condomino sulle parti comuni al valore del piano che gli appartiene. Determinazione del valore. Irrinunciabilità al diritto suite parti comuni

La maggiore o minore estensione del diritto dei partecipanti alle cose comuni è determinata anzitutto dal titolo di ciascuno di essi, risolvendosi ordinarie i casi di conflitto grazie alle regole.

Nel caso in cui il titolo non disponga nulla, il diritto di ciascun condomino è proporzionato al valore del piano o porzione di piano che gli appartiene. Ma da quali elementi deve trarsi il valore del piano? Per l'identica disposizione del Progetto della Commissione reale (art. 342) si legge nella relativa Relazione che si è voluto " evitare il dubbio che il diritto possa essere proporzionale all'ampiezza del piano stesso o a frazione di esso, potendo avvenire che alla minore ampiezza di un appartamento corrisponda, in rapporto agli altri, un maggior valore, per ragione di ubicazione, di disposizione, ecc.": e quanto ora affermato è esatto, pur dovendosi rilevare che l'ampiezza maggiore o minore resta pur sempre uno degli elementi di determinazione del valore.

Piuttosto, per la diversa formulazione dell'articolo rispetto ai corrispondenti art. 3, primo capov., e 5 capov. del R.D.L. del 15 gennaio 1934, sembrerebbe che gli elementi da prendere in considerazione siano stati ristretti a quelli oggettivi, relativi al piano o porzione di piano come tale, indipendentemente dalla diversa destinazione, anche naturale, o dall'uso contingente o temporaneo. Ma se è da escludere la rilevanza di un maggior valore derivante da una maggiore o minore utilizzazione soggettiva o da una diversa forma soggettiva di utilizzazione, la formula dell'art. 1118, che si riferisce genericamente al valore del piano, non esclude che nella determinazione del valore si debba tenere conto della destinazione oggettiva naturale, cui il piano risponde. Si pensi, per es., alle botteghe di pianterreno in confronto agli appartamenti per abitazione.

Inoltre, nell’articolo in esame, considerata la particolare natura o destinazione delle cose oggetto di comunione, non è ammessa la rinuncia al diritto sulle cose comuni, in deroga alla disposizione generale in tema di comunione (art. 1104 del c.c.). Ed invero, per alcune cose (per es. le fondazioni, i muri maestri, i tetti) il rinunciante continuerebbe a trarre vantaggio da esse, nonostante la rinuncia, mentre per altre (p. es., locali di portineria, ascensori ed altri impianti) il maggior aggravio da parte dei proprietari degli altri piani o porzioni di piano non viene controbilanciato da un corrispondente maggior vantaggio degli stessi.

Relazione al Codice Civile

(Relazione del Ministro Guardasigilli Dino Grandi al Codice Civile del 4 aprile 1942)

526 Le cose che, se il contrario non risulta dal titolo, formano oggetto di proprietà comune sono indicate — ma l'elenco non ha carattere tassativo — nell'art. 1117 del c.c.: esse sono dichiarate indivisibili, a meno che la divisione possa farsi senza rendere a ciascun condomino più incomodo l'uso della cosa (art. 1119 del c.c.). Il diritto di ciascun condomino sulle cose comuni, sempre che il titolo non disponga altrimenti, è proporzionato al valore del piano o porzione di piano che gli appartiene (art. 1118 del c.c., primo comma). Si determina in tal modo un criterio unico per tutte le cose comuni, innovando al R. decreto-legge 15 gennaio 1934, n. 56, convertito nella legge 10 gennaio 1935, n. 8, sulla disciplina, dei rapporti di condominio delle case, il quale (art. 5), relativamente al suolo, ai locali della portineria, ai cortili, alle terrazze, ai giardini e ad altre cose comuni, disponeva che si tenesse pure conto della natura e della destinazione della cosa e, sussidiariamente, perfino dell'uso: la semplificazione della disciplina offre anche il vantaggio di renderne più agevole l'applicazione. E' precluso al condomino di sottrarsi al contributo per la conservazione delle cose che sono oggetto di proprietà comune mediante rinuncia al suo diritto sulle cose stesse (art. 1118, secondo comma), salvo, naturalmente, che la rinuncia sia consentita dagli altri partecipanti.

Massime relative all'art. 1118 Codice Civile

Cass. civ. n. 1896/2023

In tema di revisione e modificazione delle tabelle millesimali, qualora i condomini, nell'esercizio della loro autonomia, abbiano espressamente dichiarato di accettare che le loro quote nel condominio vengano determinate in modo difforme da quanto previsto negli artt. 1118 c.c. e 68 disp. att. c.c., dando vita alla "diversa convenzione" di cui all'art. 1123, primo comma, ultima parte, c.c., la dichiarazione di accettazione ha valore negoziale e, risolvendosi in un impegno irrevocabile di determinare le quote in un certo modo, impedisce di ottenerne la revisione ai sensi dell'art. 69 disp. att. c.c., che attribuisce rilievo esclusivamente alla obiettiva divergenza tra il valore effettivo delle singole unità immobiliari dell'edificio ed il valore proporzionale ad esse attribuito nelle tabelle. Ove, invece, tramite l'approvazione della tabella, anche in forma contrattuale (mediante la sua predisposizione da parte dell'unico originario proprietario e l'accettazione degli iniziali acquirenti delle singole unità immobiliari, ovvero mediante l'accordo unanime di tutti i condomini), i condomini stessi intendano non già modificare la portata dei loro rispettivi diritti ed obblighi di partecipazione alla vita del condominio, bensì determinare quantitativamente siffatta portata (addivenendo, così, alla approvazione delle operazioni di calcolo documentate dalla tabella medesima), la semplice dichiarazione di approvazione non riveste natura negoziale, con la conseguenza che l'errore il quale, in forza dell'art. 69 disp. att. c.c., giustifica la revisione delle tabelle millesimali, non coincide con l'errore che è vizio del consenso, di cui agli artt. 1428 e ss. c.c., ma consiste, per l'appunto, nella obiettiva divergenza tra il valore effettivo delle singole unità immobiliari ed il valore proporzionale ad esse attribuito.

Cass. civ. n. 10371/2021

In tema di spese per la conservazione delle parti comuni, l'obbligo del singolo partecipante di sostenere le spese condominiali, da un lato, e le vicende debitorie del condominio verso i suoi appaltatori o fornitori, dall'altro, restano del tutto indipendenti, il primo fondando sulle norme che regolano il regime di contribuzione alle spese per le cose comuni (artt. 1118 e 1123 ss. c.c.), le seconde trovando causa nel rapporto contrattuale col terzo, approvato dall'assemblea e concluso dall'amministratore in rappresentanza dei partecipanti al condominio; ne consegue che il pagamento diretto eseguito dal singolo partecipante a mani del creditore del condominio non è idoneo ad estinguere il debito "pro quota" dello stesso relativo ai contributi ex art. 1123 c.c.

Cass. civ. n. 1610/2021

La cessione delle singole unità immobiliari separatamente dal diritto sulle cose comuni, vietata ai sensi dell'art. 1118 c.c., è esclusa soltanto quanto le cose comuni e i piani o le porzioni di piano di proprietà esclusiva siano, per effetto di incorporazione fisica, indissolubilmente legate le une alle altre (cd. condominialità "necessaria" o "strutturale") oppure nel caso in cui, pur essendo suscettibili di separazione senza pregiudizio reciproco, esista tra di essi un vincolo di destinazione che sia caratterizzato da indivisibilità per essere i beni condominiali essenziali per l'esistenza delle proprietà esclusive, laddove, qualora i primi siano semplicemente funzionali all'uso e al godimento delle singole unità (cd. condominialità "funzionale), queste ultime possono essere cedute anche separatamente dal diritto di condominio sui beni comuni. (Cassa con rinvio, CORTE D'APPELLO TRIESTE, 25/09/2015).

Cass. civ. n. 27634/2018

In tema di consorzio di urbanizzazione, atteso il nesso funzionale tra i beni di proprietà comune e quelli di proprietà esclusiva, il recesso del consorziato diretto alla liberazione dall'obbligo contributivo, in assenza di specifica previsione statutaria, non è disciplinato dall'art. 1104 c.c., che consente l'"abbandono liberatorio" nella comunione, bensì dall'art. 1118 c.c., che lo vieta nel condominio.

Cass. civ. n. 22285/2016

L'art. 1118 c.c., come modificato dalla l. n. 220 del 2012, consente al condomino di distaccarsi dall'impianto centralizzato - di riscaldamento o di raffreddamento - condominiale ove una siffatta condotta non determini notevoli squilibri di funzionamento dell'impianto stesso o aggravi di spesa per gli altri condomini, e dell'insussistenza di tali pregiudizi quel condomino deve fornire la prova, mediante preventiva informazione corredata da documentazione tecnica, salvo che l'assemblea condominiale abbia autorizzato il distacco sulla base di una propria, autonoma valutazione del loro non verificarsi.

Cass. civ. n. 20989/2014

In tema di consorzio di urbanizzazione, atteso il nesso funzionale tra i beni di proprietà comune e i beni di proprietà esclusiva, il recesso del consorziato diretto alla liberazione dall'obbligo contributivo, in assenza di specifica previsione statutaria, non è disciplinato dall'art. 1104 cod. civ., che consente l'"abbandono liberatorio" nella comunione, bensì dall'art. 1118 cod. civ., che lo vieta nel condominio.

Cass. civ. n. 286/2005

Il consorzio costituito tra proprietari di immobili per la manutenzione di strade ed opere comuni realizzate a seguito dell'attuazione di un piano di lottizzazione costituisce una figura atipica e, quindi, il rapporto consortile è disciplinato anzitutto dalle pattuizioni contenute nell'atto costitutivo e nello statuto del consorzio; soltanto qualora in tali atti manchi una disciplina specifica sono applicabili le disposizioni più confacenti alla regolamentazione degli interessi coinvolti dalla controversia che, nel caso in cui il consorzio abbia ad oggetto la gestione dei beni e dei servizi comuni di una zona residenziale, devono individuarsi nelle norme concernenti il condominio, con la conseguenza che, ai sensi dell'art. 1118, secondo comma, c.c., il consorziato non può, rinunziando al diritto sui beni in comune, sottrarsi al contributo alle spese per la loro conservazione.

Cass. civ. n. 12128/2004

In tema di rinuncia di un condomino al diritto sulle cose comuni, vietata dall'art. 1118 c.c., la cessione della proprietà esclusiva non può essere separata dal diritto sui beni comuni soltanto quando le cose comuni e i piani o le porzioni di piano di proprietà esclusiva siano — per effetto di incorporazione fisica — indissolubilmente legate le une alle altre oppure nel caso in cui, pur essendo suscettibili di separazione senza pregiudizio reciproco, esista tra di essi un vincolo di destinazione che sia caratterizzato da indivisibilità per essere i beni condominiali essenziali per l'esistenza ed il godimento delle proprietà esclusive; qualora, invece, i primi siano semplicemente funzionali all'uso e al godimento delle singole unità, queste ultime possono essere cedute separatamente dal diritto di condominio sui beni comuni, con la conseguenza che in tal caso la presunzione di cui all'art. 1117 c.c. risulta superata dal titolo. (Nella specie la Corte ha confermato la impugnata sentenza la quale aveva ritenuto valida la clausola contrattuale con cui, nell'atto di vendita di due locali siti a piano terra e con ingresso diretto dalla via pubblica, era stato imposto all'acquirente il divieto di utilizzare la porta di ingresso, l'androne e il vano scala dell'edificio condominiale sul rilievo che l'uso dei beni condominiali in oggetto non era essenziale per l'utilizzazione dei locali di proprietà esclusiva).

Cass. civ. n. 3294/1996

Il condomino che — essendo titolare del diritto di uso esclusivo del lastrico solare — vi rinunzi, è esonerato dalla contribuzione nelle spese di riparazione e ricostruzione del lastrico secondo il criterio dell'art. 1126 c.c. e deve parteciparvi in base alla quota millesimale di proprietà, non potendo estendersi analogicamente alla rinunzia ad un particolare diritto di uso della cosa comune la norma dell'art. 1118, secondo comma, c.c., in base alla quale la rinunzia al diritto di proprietà sulle cose comuni non esonera il rinunziante dalle spese per la loro conservazione, dal momento che tale norma, oltre a costituire deroga all'opposto principio generale stabilito dal primo comma dell'art. 1104 c.c., trova la sua ratio nell'inscindibile collegamento tra la fruizione della proprietà comune e la fruizione di quella individuale e nella conseguente esigenza di non consentire al condomino di sottrarsi alla contribuzione nelle spese per la conservazione di beni dei quali egli continuerebbe necessariamente a godere pur dopo avervi rinunziato, che non sussiste invece nel caso di un bene il cui godimento, puramente eventuale, è rimesso alla libera determinazione del suo titolare e con la rinunzia di questi si trasferisce alla collettività dei condomini.

Cass. civ. n. 7546/1995

L'unità sistematica tra la disposizione dell'art. 1118 primo comma c.c., a norma del quale il diritto di ciascun condomino sulle parti comuni dell'edificio è proporzionato al valore del piano o porzione di piano che appartiene, e la disposizione del primo comma dell'art. 1123 c.c., per il quale le spese necessarie per la conservazione ed il godimento delle parti comuni dell'edificio, per la prestazione dei servizi nell'interesse comune e per le innovazioni deliberate dalla maggioranza sono sostenute dai condomini in misura proporzionale al valore della proprietà di ciascuno, non impedisce, trattandosi di norme derogabili, che siano convenzionalmente previste discipline diverse e differenziate tra loro dei diritti di ciascun condomino sulle parti comuni (che possono essere attribuiti in proporzione diversa — maggiore o minore — rispetto a quella della sua quota individuale di piano o porzione di piano) e degli oneri di gestione del condominio, che possono farsi gravare sui singoli condomini indipendentemente dalla rispettiva quota di proprietà delle cose comuni o dall'uso — (nella specie è stata riconosciuta la validità dell'accordo che attribuiva ai condomini, proprietari di unità abitative di diverso valore, un uguale diritto dominicale sulle parti comuni prevedendo la formazione di tabelle millesimali solo ai fini della ripartizione delle spese di manutenzione e pulizia delle stesse).

Cass. civ. n. 6036/1995

Il secondo comma dell'art. 1118 c.c., a norma del quale il condominio non può, rinunciando al diritto sulle parti comuni, sottrarsi al contributo sulle spese per la loro conservazione, non si limita a regolare la partecipazione dei condomini alle spese delle parti comuni nonostante la rinuncia del relativo diritto da parte del singolo condomino ma, indirettamente, esclude la validità della predetta rinuncia dato che le parti comuni necessarie per l'esistenza e l'uso dei piani o delle porzioni di piano ovvero destinate al loro uso o servizio continuerebbero a servire il condomino anche dopo, e nonostante, la rinuncia. E pertanto nulla la clausola contenuta nel contratto di compravendita di un appartamento sorto in un edificio in condominio con cui viene esclusa dal trasferimento la proprietà di alcune parti dell'edificio comuni per legge o per volontà delle parti avendo una siffatta clausola il contenuto e gli effetti di una rinuncia del condomino (acquirente) alla predette parti (nella specie, si trattava di un'area comune destinata, per convenzione, al parcheggio delle macchine dei condomini).

Cass. civ. n. 4652/1991

In tema di condomino degli edifici, il principio stabilito dall'art. 1118 c.c., secondo cui il condomino non può, rinunciando al suo diritto sulle cose comuni, sottrarsi all'obbligo di concorrere nelle spese necessarie per la loro conservazione, con aggravio a carico degli altri condomini, non trova applicazione con riguardo a quegli impianti condominiali da considerarsi superflui in relazione alle condizioni obiettive ed alle esigenze delle moderne concezioni di vita, ovvero illegali, perché vietati da norme imperative. Ricorrendo tali condizioni deve riconoscersi al condomino la facoltà di rinunciare alla cosa comune, senza essere tenuto a sostenere le spese necessarie per la sua conservazione, quando gli altri condomini intendano persistere nella conservazione degli impianti preesistenti, pur in presenza di nuove tecniche o servizi predisposti dalla P.A., poiché in tali casi l'esistenza degli impianti trova ragione esclusivamente nella determinazione dei condomini che intendono conservarli. (Nella specie un condomino, adducendo l'esistenza di impianti pubblici idrici e fognari perfettamente efficienti, aveva dichiarato di rinunciare al suo diritto sull'impianto condominiale di autoclave perché ritenuto superfluo, e sul pozzo nero perché in contrasto con le prescrizioni di legge).

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Consulenze legali
relative all'articolo 1118 Codice Civile

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M. N. chiede
sabato 06/01/2024
“Nel mio condominio abbiamo la caldaia centralizzata per il riscaldamento. Qualche anno fa ad ogni termosifone degli appartamenti hanno installato le valvole termostatiche per il consumo. In questa occasione alcuni condòmini decisero di distaccarsi dal sistema centralizzato installando il riscaldamento autonomo. Attualmente si è verificato un guasto alla presa d'aria del sistema centralizzato. Alcuni condomini vorrebbero proporre l'installazione del riscaldamento autonomo per tutti. A riguardo si chiede:
1) quale maggioranza è necessaria per approvare tale proposta in assemblea condominiale;
2) chi deve votare: tutti i condomini (compresi chi già ha il riscaldamento autonomo) oppure soltanto chi dovrebbe fare il cambio (da centralizzato ad autonomo)?
In attesa di vostra risposta si inviano distinti saluti”
Consulenza legale i 09/01/2024
Le maggioranze necessarie per addivenire a ciò che ci si prefigge variano in base a come verrà congeniata e predisposta la delibera assembleare: proviamo ad argomentare.

Il co. 4° dell’art.1118 del c.c. prevede il diritto soggettivo del singolo condomino di distaccarsi dall’impianto centralizzato di riscaldamento (o di condizionamento) comune, a condizione che ciò non determini un aggravio di spesa per gli altri condomini o squilibri nel funzionamento dell’impianto. Il diritto a distaccarsi, il quale non può essere in alcun modo condizionato o limitato da una delibera assembleare adottata a colpi di maggioranza, costituisce tuttavia una rinuncia ad utilizzare l’ impianto di riscaldamento comune, ma non certo una rinuncia alla proprietà del medesimo: prova di ciò ne sia il fatto che la stessa norma che introduce la possibilità di distaccarsi, precisa come il distaccante rimanga comunque obbligato a corrispondere gli oneri condominiali relativi alla manutenzione straordinaria, alla sicurezza e messa norma dell’ impianto comune.

Applicando questa norma al caso specifico, se l’assemblea si limitasse ad adottare una delibera che disponga la semplice rinuncia all’utilizzo dell’impianto di riscaldamento comune da parte di quei proprietari che ancora lo utilizzano, essa dovrebbe essere adottata con il voto unanime di tutti quei condomini che hanno le loro unità abitative ancora allacciate all’impianto condominiale. L’ unanimità dei consensi, seppur limitata a quel gruppo di condomini che ancora utilizza l’ impianto di riscaldamento centralizzato, è resa necessaria dal fatto che l’assemblea non può imporre a colpi di maggioranza anche solo ad un singolo proprietario di distaccarsi da un impianto comune condominiale di cui egli intende ancora fare utilizzo: una delibera di questo tipo, sarebbe gravemente nulla in quanto lesiva dei diritti che la legge attribuisce ai condomini sulle parti comuni dell’edificio: in questo, senso è molto chiara Cass.Civ.,Sez.II, n.4219 del 23.02.2007. Parimenti, oltre al raggiungimento di un tale alto consenso, si dovrà valutare con un termotecnico se un distacco di tutti i condomini ancora rimasti sia tecnicamente fattibile e non danneggi l’impianto esistente.

Ovviamente, sempre in forza di quanto disposto dal 4° co. dell’art. 1118 del c.c., anche se si addivenisse in forza di una delibera di tale tenore al distacco di tutti i condomini dall’ impianto condominiale, ciò non potrebbe comunque costituire una rinuncia alla comproprietà del medesimo: quindi, tutti i condomini, sia quelli che hanno esercitato il distacco in un primo momento sia i successivi, sarebbero comunque tenuti a sopportare in proporzione ai rispettivi millesimi le spese di manutenzione straordinaria, di conservazione e messa a norma dell’impianto anche se di fatto dismesso.

Il discorso fatto finora muterebbe però radicalmente nel caso in cui l’assemblea di condominio non si limitasse ad adottare una delibera meramente abdicativa all’ utilizzo dell’impianto centralizzato comune già esistente, ma deliberasse invece la sua sostituzione con un nuovo impianto di riscaldamento che permetta, oltre ad un risparmio energetico, anche la coesistenza per ciascuna unità immobiliare del palazzo di tanti impianti unifamiliari di riscaldamento autonomi l’uno con l’altro.

In forza di quanto disposto dagli artt. 1120 2° co. e 1136 2° co. del c.c., una delibera di questo tenore, può essere adottata con la maggioranza degli intervenuti alla riunione condominiale, opportunamente convocata secondo le norme di legge, che rappresentino almeno la metà del valore dell’edificio, ovvero 500 millesimi. Si presti tuttavia attenzione, in quanto il quorum deliberativo indicato non potrà essere calcolato solo sulla base di quel gruppo di condomini che ancora utilizza l’impianto centralizzato esistente ma si dovrà tenere conto anche di quei proprietari che già sono da esso distaccati: come già detto infatti, anche tali condomini rimangono pieni comproprietari dell’ impianto e quindi mantengono fermi i loro diritti assembleari nel caso in cui si decidesse la sostituzione dell’ impianto o un intervento straordinario sullo stesso. È anche vero però che rimarrà parimenti fermo in capo a tale secondo gruppo di condomini - unitamente a tutti gli altri proprietari - l’obbligo di corrispondere in proporzione ai millesimi, gli oneri condominiali che deriveranno dai lavori di sostituzione dell’impianto.

Le argomentazioni che si sono finora sviluppate trovano conforto e sostegno in una interessante pronuncia della II° sezione civile della Corte di Cassazione n. 24976 del 19.08.22 secondo la quale: "la delibera che dispone l’eliminazione dell’impianto di riscaldamento centralizzato per creare singoli impianti autonomi in tanto può essere adottata a maggioranza, e quindi in deroga agli artt. 1120 e 1136 c.c., in quanto sia previsto che avvenga nel rispetto delle previsioni legislative di cui alla L. n. 10 del 1991, ossia
  • a garanzia sull'an e sul quomodo della riduzione del consumo specifico di energia,
  • del miglioramento dell'efficienza energetica,
  • dell'utilizzo di fonti di energia rinnovabili".
Si segnala che tale pronuncia parrebbe ammettere che qualora la sostituzione dell’ impianto comune con più impianti individuali comporti un contenimento dei consumi, accertato per mezzo di un attestato di prestazione energetica eseguito da un tecnico abilitato, la delibera di approvazione dei lavori possa essere adottata ai sensi del co. 2° dell’art. 26 della L. n.10 del 09.01.1991 nel testo oggi vigente con un numero di voti che rappresentino solo un terzo del valore dell’edificio, (333 millesimi): quindi addirittura con un quorum più basso di quello in precedenza indicato. Tuttavia per ragioni prudenziali si ritiene che nel caso indicato il quorum corretto da applicare sia quello indicato dagli art. 1120 2° co. e 1136 2°co. del c.c., anche perché l’applicabilità di tale normativa è sicuramente più agevole, poiché non condizionata all’ ottenimento di un qualsivoglia attestato energetico, come invece previsto dall’art. 26 della L. n.10/91.
Quindi, concludendo e riassumendo, in relazione al caso prospettato i quorum deliberativi e i soggetti che avranno diritto di voto varieranno in base al tipo di delibera che l’assemblea sarà chiamata ad approvare. Se ci si limiterà a votare la semplice rinuncia all’ utilizzo dell’impianto di riscaldamento centralizzato esistente, tale tipo di delibera sarà validamente adottata con l’unanimità dei consensi di coloro che ancora utilizzano l’impianto centralizzato. Se invece, si adotterà una delibera precettiva in cui non ci si limiterà a disporre il distacco da un impianto comune esistente, ma si delibererà la sua sostituzione indicando nel contempo quale tipologia di impianto andrà a sostituire il precedente, tale tipo di delibera si potrà adottare a maggioranza, utilizzando i quorum deliberativi già indicati nel parere, calcolati però sulla totalità dei componenti il condominio, indipendentemente dal fatto che essi abbiano o meno già esercitato il diritto al distacco previsto dal 4° co. dell’art. 1118 del c.c.


Anonimo chiede
domenica 19/11/2023
“In un edificio di 10 (dieci) unità abitative, dotato di ascensore idropneumatico, utilizzato solo dai condomini di 7 (sette) unità perché 3 (tre) unità sono posizionate al piano terra e non hanno motivo di accedere ai piani superiori (la decima unità ha l'uso esclusivo dell'ultimo piano, incluso terrazza e lastrico solare).
Essendosi dovuto affrontare di recente una notevole spesa per una manutenzione straordinaria dell'impianto ascensore, alcuni condomini intenderebbero rinunciare all'utilizzo dello stesso impianto.
Si chiede quali normative applicare in questo caso, quale documentazione devono presentare i condomini che intendono rinunciare, come procedere in sede di assemblea condominiale, se sono tenuti a rinunciare anche i condomini del piano terra, ecc.
Si chiede inoltre quali diritti mantengono i predetti condomini rinunciatari e da quali obblighi sono esonerati.
Inoltre ancora: quali obblighi mantengono gli stessi condomini rinunciatari nei confronti del condominio, riguardo alle future spese di manutenzione (sia periodica che straordinaria) dell'impianto ascensore.
L'eventuale possibilità di recedere in futuro e le relative condizioni (utilizzo e spese).
Se possibile, qualche sentenza in ordine alla questione e qualche Vs consiglio sugli accorgimenti da adottare in tale cambiamento di gestione delle spese relative all'ascensore.
Grazie”
Consulenza legale i 21/11/2023
Ciò che vorrebbero fare il gruppo dei condomini al piano terra è vietato dalla legge.
Il 2° e 3° co. dell’art.1118 del c.c. ci dice chiaramente come il singolo proprietario non possa in alcun modo rinunciare al suo diritto sulle parti comuni e neppure sottrarsi al pagamento degli oneri condominiali che derivano da tale diritto.
Quanto detto è un principio cardine della disciplina del condominio espressamente definito inderogabile dal’ ultimo comma dell’ art. 1138 del c.c. 
Il pagamento degli oneri condominiali derivanti dall’utilizzo dell’impianto ascensore anche da parte dei condomini al piano terra è piuttosto sentito nella vita di tutti i giorni, tuttavia la più recenti e migliori pronunce della Corte di Cassazione hanno precisato come tali oneri, anche derivanti da manutenzioni straordinarie dell’ impianto, debbano essere corrisposti anche dai condomini al piano terra o anche da eventuali negozi fronte strada (per esempio, Cass.Civ.,Sez.II, n.23222 del 27.09.2018) in quanto l’ascensore è un impianto comunque necessario per raggiungere anche le estremità superiori dello stabile.

A tale affermazione i condomini del piano terra non possono opporre la circostanza di un loro non utilizzo del bene in quanto secondo la giurisprudenza sussiste una presunzione di condominialità del bene che si estende anche ai condomini dei piani terra (Trib. Salerno del 03.11.2009).
L’unico modo per i proprietari del piano terra di sottrarsi dal pagamento degli oneri straordinari riconducibili alla manutenzione dell’ascensore sarebbe quello di raggiungere un accordo con tutti gli altri proprietari che li esentasse dal pagamento: questa purtroppo anche se possibile è una ipotesi che si verifica molto di rado nella quotidianità.
  


M. M. chiede
mercoledì 08/11/2023
“Gentili Avvocati,

Ahimè devo riallacciarmi al tema principale della consulenza da voi già chiarito (Q202231764) per aggiornarvi sugli sviluppi e per chiedere ulteriore consiglio.

All'ultima assemblea condominiale, proprio ieri, i condomini "distaccati" (con riscaldamento autonomo), alleati in modo compatto, sono tornati alla carica per veder ridotta la famosa quota consumi involontari (fino a ieri al 30%), stavolta con tema all'ordine del giorno. Il mio parere è stato il solito di sempre , ossia non si cambia nulla senza l'unanimità.
A questo punto , al momento di discutere gli orari dell'imminente accensione caldaia, è iniziato un grottesco teatrino, probabilmente studiato a tavolino, in cui taluno proponeva "un' ora dal 1° gennaio", l'altro "facciamo due ore" e cosi' via..
Insomma, se le quote involontarie non fossero state ridotte, loro avrebbero deliberato a maggioranza l' accensione per sole due ore giornaliere. Bella roba eh?
Preciso che in casa mia c'è anche mia madre anziana e che l'appartamento è afflitto da numerose problematiche termiche, insomma non puo' non essere riscaldato in inverno!
Ma io semplicemente mi chiedo e vi chiedo: è legale tutto questo? Possono i 5/6 di un condominio decidere di non accendere il riscaldamento condominiale poichè usano sistemi alternativi?
Ho dovuto forzatamente addivenire ad un accordo (bieco) della durata di 1 anno in cui accetto di ridurre all' 1 % la quota consumi involontari perchè non voglio far stare al freddo mia madre, ma la questione merita approfondimento!! Per i contenuti e per i modi.
Fatemi prego sapere come saldare l'ulteriore consulto, ma davvero necessito del vostro aiuto per ripristinare la giustizia in questa ignobile vicenda. Grazie”
Consulenza legale i 13/11/2023
Così come nel precedente quesito anche in questo caso ciò che è stato deliberato dai condomini distaccanti è totalmente privo di valore giuridico e a parere dello scrivente se l’amministratore eseguisse tale decisione commetterebbe un grave negligenza professionale passibile di revoca ai sensi dei co.11° e 12° dell’art. 1129 del c.c.
Già in precedenza si è detto che il co. 4° dell’art.1118 del c.c. prevede il diritto soggettivo del singolo condomino di distaccarsi dall’impianto centralizzato di riscaldamento (o di condizionamento) comune, a condizione che ciò non determini un aggravio di spesa per gli altri condomini o squilibri nel funzionamento dell’impianto.

Più volte tra le pagine di questo sito si è detto come il distacco dall’impianto centralizzato di riscaldamento non può costituire una rinuncia del condomino distaccante al diritto di comproprietà sul medesimo, e proprio per questo la norma in commento precisa come permangano in capo a tale proprietario l’obbligo di contribuire alle spese relative alla sua manutenzione straordinaria, conservazione e messa a norma: in tali categorie di spesa, come vedremo meglio tra un attimo, la giurisprudenza in maniera assolutamente costante fa rientrare anche l’obbligo di contribuire al pagamento della quota di consumo involontario della forza calore. Il distacco dall’impianto centralizzato di riscaldamento costituisce quindi una semplice rinuncia da parte del distaccante all’utilizzo del bene comune e non alla sua comproprietà: tale affermazione trova sostegno prima di tutto nella semplice lettura dell’incipit del co 4° dell’art. 1118 del c.c., il quale recita: "Il condomino può rinunciare all'utilizzo dell'impianto centralizzato di riscaldamento o di condizionamento…"

La rinuncia all’utilizzo ovviamente si riverbera anche sui poteri assembleari che possono essere esercitati dal condomino distaccante in relazione all’impianto di riscaldamento: se è vero, come è vero, che colui che si è distaccato ha rinunciato ad utilizzare tale bene comune, è altrettanto vero che egli non ha certamente diritto di voto in assemblea nel momento in cui il consesso dei proprietari è chiamato a decidere sulle modalità del suo utilizzo, viceversa permane il diritto di voto nel caso in cui l’assemblea dovrà decidere una manutenzione straordinaria sul bene o effettuare un intervento per la sua messa a norma.
In altri termini, in uno stabile in cui vi è la presenza di un impianto centralizzato comune di riscaldamento e in cui una parte dei condomini ha correttamente esercitato il diritto al distacco di cui al co 4° dell’art.1118 del c.c. e ha quindi rinunciato ad utilizzarlo, solo quei condomini che ancora hanno le proprie unità immobiliari direttamente allacciate ad esso possono decidere le modalità di utilizzo del medesimo e quindi i periodi in cui metterlo in funzione durante l’anno! A ciò non si può certamente obbiettare il fatto che colui che si è distaccato continua comunque a corrispondere la quota di consumo involontario di forza calore, in quanto l’obbligo di tale pagamento certo non deriva dalla possibilità di usare tale bene comune.

Come infatti è stato chiarito dalla giurisprudenza (si vedano, ad esempio, le recenti pronunce di merito reperite: Tribunale di Savona sentenza n.115 del 10.02.22; Tribunale Venezia sentenza n. 1506 del 26.07.21), l’obbligo di corrispondere la quota di consumo involontario per coloro che si distaccano non trova la sua giustificazione nel diritto di proprietà sull’impianto comune, ma sul presupposto che la rinuncia ad utilizzare tale bene è valida e giuridicamente giustificata a condizione però che il non utilizzo di un gruppo di proprietari non comporti squilibri di funzionamento e aggravi di spesa per quegli altri proprietari che altrettanto legittimamente decidono di servirsi ancora dell’impianto condominiale. Il pagamento dei consumi involontari viene quindi giustificato da queste pronunce dal fatto di non rendere più oneroso l’utilizzo dell’impianto a quel gruppo di proprietari che ancora si servono del riscaldamento comune del palazzo.

Per tale motivo nel caso specifico solo il gruppo di condomini che è ancora allacciato all’impianto di riscaldamento comune è legittimato a decidere in assoluta autonomia le modalità di funzionamento del medesimo: l’amministratore, quindi, è tenuto a dare esecuzione solo a quella decisione adottata con l’esclusivo di quel gruppo di proprietari, nulla centrando i condomini che si sono distaccati.
Per questo motivo, a parere di chi sta scrivendo, come già accennato sopra, sarebbe altamente illegittimo e gravemente inadempiente il comportamento dell’amministratore che si rifiutasse di accendere il riscaldamento centralizzato del palazzo nascondendosi dietro la volontà dei condomini non utilizzatori dell’impianto, condotta che potrebbe giustificare anche una revoca giudiziaria del professionista secondo le modalità previste dall’art. 1129 del c.c..


M. P. chiede
martedì 20/06/2023
“Salve, avrei un quesito riguardo la gestione delle spese condominiali per quanto riguarda il riscaldamento e in particolare la dispersione energetica.

Sono appena diventato proprietario di un appartamento sito a Conegliano (TV) facente parte di un complesso condominiale composto da due torri e una sezione di giunzione centrale anch'essa abitata. Il piano terra invece è interamente composto da negozi.

La ripartizione delle spese condominiali è in parte condivisa tra tutte le strutture, mentre dove possibile è separata tra le varie locazioni così denominate:

Civico 2: La prima torre (dove io risiedo)

Civico 4: parte centrale, due sole unità abitative

Civico 6: parte centrale, due sole unità abitative

Civico 6C: la seconda torre

Negozi: fa riferimento ai negozi disposti al piano terra

Nel condominio hanno commissionato e concluso 7 anni fa dei lavori di efficientamento energetico per un totale di 500.000 €. I lavori fatti sono la sostituzione della caldaia, rifacimento dell'impianto, l'aggiunta di termovalvole e il posizionamento in ogni singola unità di termosifoni ad alto rendimento con termosensori contacalorie integrati.

Questi termosensori hanno permesso di suddividere le spese condominiali in base ai consumi in modo che ogni unità pagasse in base a quanto attiva il riscaldamento.

Ovviamente con il riscaldamento centralizzato vanno conteggiati i costi di dispersione energetica, che di solito consistono (per quello che ho potuto vedere) in un'incidenza dal 20% al 30% dei consumi.

Come è possibile constatare nell'allegato invece la dispersione sulla spesa totale per l'acqua calda è ben il 36,05% e sul metano adibito al riscaldamento il 44,73%

Quesito:
Sopra di me ho solo un altro appartamento con il riscaldamento centralizzato condominiale.
Se entrambi decidessimo di staccarci dalla rete di riscaldamento condominiale potremmo non pagare la dispersione energetica?

Aggiungo inoltre che gli attici delle rispettive due torri sono completamente autonomi nel riscaldamento insieme a un altro appartamento posto però ai piani più bassi.

Mentre il condomino al piano più basso paga la dispersione come da legge gli attici invece no.

La legge mi pare preveda che vadano pagati i costi di dispersione solo se da questo distacco ne derivino addebiti o cali di prestazioni dell'impianto ai danni degli altri condomini.

La narrativa probabilmente è stata che essendo all'ultimo piano non arrecava costi aggiuntivi e quindi di comune accordo non gli vengono addebitati i costi di dispersione.

L'alternativa è che siano stati autonomi sin dalla costruzionee che quindi fin dal principio vigesse l'accordo di non partecipazione alle spese del riscaldamento condominiale.

Può essere usato come punto a favore per non pagare la dispersione nel caso io e il condomino sopra di me volessimo procedere a rendere autonomi gli appartamenti?”
Consulenza legale i 25/06/2023
Il co. 4 dell’art 1118 del c.c. ha stabilito il diritto di ogni condomino a distaccarsi dall’impianto condominiale comune di riscaldamento a condizione, però, che detto distacco
  • non comporti notevoli squilibri di funzionamento (il c.d. squilibrio termico)
  • oppure aggravi di spesa per gli altri condomini.

    La possibilità di distaccarsi dall’ impianto comune sancita dal co 4° dell’art. 1118 del c.c. è un diritto soggettivo direttamente attribuito al proprietario dalla legge non derogabile da alcun regolamento condominiale né condizionabile da una qualsivoglia autorizzazione assembleare. L’unica condizione che la legge pone per l’esercizio del distacco è che essa non crei nell’ impianto uno squilibrio termico, che diviene quindi un presupposto necessario per esercitare tale diritto ma che nulla centra col pagamento dei consumi involontari.

Una volta distaccato infatti, il condomino, sempre secondo l’art.1118 del c.c., rimane obbligato comunque a corrispondere le spese per la manutenzione straordinaria dell’impianto o per la sua conservazione e messa a norma. In altri termini una volta distaccato il condomino è tenuto a concorrere insieme agli altri proprietari ed in proporzione ai rispettivi millesimi, solo per quelle spese necessarie al corretto funzionamento e alla manutenzione dell’impianto.
Purtroppo la giurisprudenza finora pare costante nel far rientrare nella contribuzione per la conservazione dell’impianto i consumi involontari derivanti dalla dispersione di calore. In questo senso ad esempio si veda la decisione della Sez. V del Tribunale di Roma n.8386 del 10.06.2020, la quale ha posto il pagamento dei consumi involontari anche in capo al condomino distaccante: secondo i giudici romani, infatti l’unità immobiliare distaccata usufruisce comunque della dispersione di calore prodotta dall’impianto e questo perché: "la dispersione si verifica in ragione del fatto che l’impianto è strutturato per servire tutti gli appartamenti, a prescindere dal fatto che il condomino sia o meno allacciato alla rete di distribuzione."

Si deve tenere conto anche della normativa nel frattempo intervenuta ed in particolare dell’art. 9 del D.lgs. n.102/2014 come modificato dal recente art. 9 del D.Lgs n.73/20.
Tale articolo introduce un nuovo criterio di riparto degli oneri condominiali riferibili alle spese relative al consumo di forza calore che si affianca a quelli indicati dagli artt. 1123 e ss. del c.c., il quale deve essere applicato dall’amministratore allo stesso modo degli altri criteri di riparto previsti dalle norme del codice civile.
In particolare l’art. 9 D.lgs. n.102/2014 dispone che negli edifici serviti da sistemi di riscaldamento centralizzato in cui sono stati installati in ciascuna unità immobiliare apparecchi per la contabilizzazione individuale del consumo (come nel caso specifico), una quota di almeno il 50% della spesa complessiva sia attribuita ai prelievi volontari di energia, e quindi accollata alla singola unità immobiliare in base ai mc dalla stessa effettivamente consumati. L’ altra quota della spesa derivante dalla forza calore invece, riferibile ai consumi involontari, prosegue la norma, potrà essere ripartita: "a titolo esemplificativo e non esaustivo, secondo i millesimi, i metri quadri o i metri cubi utili, oppure secondo le potenze installate".

Come si può facilmente notare la norma lascia un ampio margine di discrezionalità sia in merito alla quota da attribuire ai consumi volontari o involontari sia per quanto riguarda i criteri da utilizzare per ripartire tra i proprietari la quota di consumo involontario. Ovviamente però l’amministratore nel ripartire le spese non potrà applicare tale norma a sentimento: egli dovrà necessariamente fare riferimento alle indicazioni che gli verranno forniti dagli stessi condomini in una apposita delibera adottata dalla assemblea di condominio. Quest’ ultima a sua volta dovrà deliberare avendo come riferimento le indicazioni che gli verranno date da un termotecnico in una apposita perizia nella quale il professionista incaricato dovrà indicare, sulla base delle caratteristiche del singolo edificio e dell’impianto presente nello stabile, quale sia la quota più opportuna da attribuire ai consumi volontari e i criteri più idonei per ripartire quelli involontari.
Ovviamente nel caso di distacco dall’ impianto centralizzato effettuato ai sensi del 4° co. dell’art.1118 del c.c. il condomino che si è distaccato, come, ad esempio, l’autore del quesito,
dovrà corrispondere solo la quota di consumi involontari.

Stante il quadro normativo è giurisprudenziale che si è tentato di tratteggiare finora, il fatto che nel complesso edile descritto nel quesito vi siano alcune unità immobiliari che seppur distaccate non corrispondano la loro quota di consumi involontari appare come una forzatura contraria alla legge, a meno che questo non trovi una giustificazione tecnica che risiede nelle caratteristiche dell’impianto condominiale: ovviamente questo è un dubbio che solo un termotecnico può sciogliere.


Linda Q. chiede
martedì 02/08/2022 - Lazio
“Salve, tempo fa ho richiesto una Vs consulenza (Il codice di riferimento della consulenza è Q202025690) in cui mi veniva chiarito che il giardino circostante un fabbricato in cui si trova il mio appartamento è di mia proprietà esclusiva. Esiste su questo una servitù di passaggio di 20 mq che permette agli altri condomini l'ingresso all'androne delle scale e quindi ai loro appartamenti. Nella restante porzione di giardino, non gravata da servitù, vi è un pozzo artesiano che serve l'intero stabile per usi domestici non essendo comunque il condominio allacciato alla rete idrica locale né tantomeno ha autorizzazione allo scarico nella fognatura (e mai sono stati fatti rilevamenti circa la potabilità dell'acqua). Mi sono accorta che il pozzo non è denunciato, non esistono documenti riguardo la realizzazione, non vi sono norme condominiali che ne regolarizzano l'uso. All'ultima riunione condominiale ho proposto la chiusura del pozzo e l'allaccio alla rete idrica locale ma tutti i condomini si sono opposti. L'amministratore ha comunque detto che il pozzo va denunciato (il fornitore locale mette di prassi un contatore al pozzo e stima così i consumi, poi richiede il pagamento della fognatura per i precedenti 5 anni + una multa e una seconda multa riguarda il comune per la mancata autorizzazione alla realizzazione del pozzo). Vorrei sapere se posso richiedere il distacco dei condomini dal pozzo o se possono aver maturato diritti su questo. Come posso tutelarmi dal pagamento delle multe e delle spese? Non vorrei che i condomini facessero ricadere i costi unicamente su di me. Inoltre vorrei recintare il giardino (non gravato da servitù), a tutt'oggi gli altri condomini vi passano senza chiedere il permesso e vi lasciano anche cicli e motocicli.
Cordiali saluti”
Consulenza legale i 22/08/2022
In realtà proprio la presenza del pozzo artesiano dimostra come sulla restante porzione di giardino insista una servitù, con ogni probabilità di acquedotto o presa d’acqua, che grava sul giardino (fondo servente) a favore delle altre unità immobiliari (fondi dominanti) le quali usufruiscono della utilità apportata dall’attingere l’acqua dal pozzo per gli usi domestici. Con ogni probabilità in epoca remota l’intero complesso aveva un unico proprietario e la servitù ha avuto origine per destinazione del padre di famiglia ai sensi dell’art. 1062 del c.c.

La natura condominiale della servitù fa sì che il pozzo debba considerarsi bene comune a tutti i condomini e non possa considerarsi di sola proprietà dell’autrice del quesito: non è quindi possibile pretendere che gli altri appartamenti si distacchino da esso, poichè ogni condomino ex art. 1118 del c.c. è comproprietario unitamente agli altri partecipanti al condominio dei beni comuni e ha quindi il diritto di utilizzarli. Tuttalpiù, il distacco dal pozzo può derivare da una libera scelta del singolo condomino o da una decisione unanime dei proprietari adottata in seno alla assemblea, ma esso non potrà essere imposto in alcun modo.

Vi è da dire però, che la natura condominiale del pozzo artesiano fa sì che eventuali sanzioni derivanti dalla sua irregolarità da un punto di vista amministrativo dovranno essere sopportate dalla collettività condominiale e la spesa conseguente dovrà essere ripartita tra i singoli proprietari ex art. 1123 del c.c. utilizzando la tabella dei millesimi generali.
Seppur gravato da diverse servitù, il giardino rimane di proprietà esclusiva del singolo condomino e quindi egli ex art. 841 del c.c. può procedere alla sua recinzione: ovviamente dovrà essere sempre garantito il corretto esercizio delle servitù all’oggi in essere e l’accesso al giardino per le loro manutenzioni ordinarie e straordinarie (che dovranno sempre essere sopportate dalla collettività dei proprietari). La recinzione, inoltre, non dovrà impedire il pacifico godimento delle altre parti comuni dell’edificio.


L. B. chiede
venerdì 10/12/2021 - Marche
“Gentili Avvocati di Brocardi.it, buonasera, vi sottopongo la seguente situazione.

Nel condominio, in cui sono proprietario di un piccolo appartamento, composto da 6 unità immobiliari e due negozi di arredamento posti a piano terra si è verificata una perdita d’acqua a seguito della rottura di una condotta d’acqua all’interno del muro perimetrale di uno dei due negozi.
Nel negozio in questione si sono verificati discreti danni al materiale in esposizione più le rotture del pavimento e del rivestimento necessarie per la ricerca e la riparazione della perdita.

Il tecnico termoidraulico intervenuto sul posto per l’espletamento delle attività di ricerca e riparazione della perdita ha individuato la rottura in un tubo che appartiene al vecchio impianto di ricircolo dell’acqua calda centralizzato.
Il condominio era infatti dotato di una caldaia a gasolio centralizzata per il riscaldamento e l’acqua calda, dismessa nel lontano 1999, molto prima che acquistassi l’appartamento.

Il tecnico ha spiegato che, evidentemente per il mancato isolamento di questo impianto di ricircolo al tempo della dismissione della caldaia a gasolio, lo stesso era rimasto in qualche modo a disposizione delle unità immobiliari che nel frattempo non si fossero distaccate da esso.

Dalle verifiche effettuate, in questa tubazione posta all’interno del muro perimetrale del negozio scorre l’acqua che serve la mia unità immobiliare posta al terzo piano e quella di un altro condomino posta al secondo.
Il proprietario dei locali del negozio afferma che le spese per i danni e per il risarcimento dei beni ammalorati siano da addebitare esclusivamente a questi due condomini poiché sono risultati gli unici ad utilizzare ancora quel vecchio impianto condominiale di ricircolo che serviva la caldaia dismessa.

Dal mio canto ho provato a difendermi sostenendo che l’impianto oggetto della rottura è di natura condominiale visto che serviva una tubazione di ricircolo della vecchia caldaia a gasolio centralizzata.
Inoltre la conduttura di cui si parla scorre all’interno di un muro perimetrale, di conseguenza si tratta anch’essa di bene comune fino al punto di diramazione ai locali di proprietà individuale dei singoli condomini come precisato dall’articolo 1117 del codice civile.

Ho ribadito quindi che il fatto che alcuni condomini si siano distaccati da quell’impianto non rilevi ai fini della ripartizione delle spese di risarcimento poiché, come stabilisce il comma 2 dell’articolo 1118 del codice civile, “il condomino non può sottrarsi dall’obbligo di contribuire alle spese di conservazione delle parti comuni”.
Le tubazioni dell’impianto di ricircolo dell’acqua calda della vecchia caldaia centralizzata, infatti, costituiscono accessori di proprietà comune e rimangono di norma tali nonostante alcuni proprietari abbiano deciso di distaccarsi da esse, nondimeno finché non venissero isolate definitivamente, rimarrebbero a disposizione di coloro che, eventualmente, volessero riallacciare la propria unità immobiliare.

Queste mie considerazioni, che ho opposto in via preliminare al proprietario del negozio, possono avere una qualche valenza sul piano giuridico, hanno qualche possibilità di essere accolte o sono totalmente prive di fondamento?
Che cosa mi consigliate?
Mi conviene cercare di resistere alla pretese della controparte o è meglio cedere alle sue richieste?

Ed infine, nel malaugurato caso in cui non riuscissimo a dirimere la questione in via “amichevole”, cosa rischio? Una causa davanti a un giudice ordinario?
Esistono per queste liti condominiali delle soluzioni extra giudiziali che non prevedono l’approdo in tribunale (arbitrati, mediazioni, conciliazioni ecc…)?

Non essendo del campo e non avendo avuto esperienza di cose del genere prima d’ora ho qualche problema ad orientarmi e non so come muovermi, chiedo quindi una vostra consulenza.

Spero di essere stato esaustivo, rimango a disposizione attraverso i contatti che ho lasciato per eventuali chiarimenti o dubbi.

Grazie mille,
Saluti cordiali.”
Consulenza legale i 17/12/2021
Le considerazioni giuridiche che sono state fatte nel quesito sono da condividere.
Seppur la gran parte dei proprietari si è distaccato dal vecchio impianto di riscaldamento esso rimane un bene comune ai sensi dell’art.1117 del c.c. e come tale rimane fermo l’obbligo di provvedere alla sua manutenzione e messa in sicurezza. Tale principio da sempre ribadito dalla giurisprudenza è stato confermato dallo stesso legislatore con la riforma del condominio del 2012 che ha modificato il 4° co. dell’art. 1118 del c.c. Tale comma da un lato riconosce espressamente al singolo proprietario il diritto di distaccarsi dall’impianto di riscaldamento centralizzato (se da ciò non deriva uno squilibrio termico), ma dall’altro ribadisce che rimane fermo anche per chi si distacca l’obbligo di provvedere alla manutenzione straordinaria, alla conservazione e messa a norma del vecchio sistema di riscaldamento. In altre parole il distacco dà il vantaggio di non dover più corrispondere al condominio il consumo di forza calore ma gli altri obblighi rimangono pienamente in vigore.

Posto questo, la richiesta danni avanzata dal proprietario del negozio può avere si un fondamento, ma comunque essa deve essere rivolta non solo ai due proprietari che sono rimasti allacciati al vecchio impianto ma all’intera compagine condominiale, e se la controparte insisterà nelle sue pretese si avrà sicuramente pieno titolo per estendere il contraddittorio all’intero condominio.
La possibilità di coinvolgere il condominio nel contenzioso non è sicuramente di poco conto perché potrà dare la possibilità di chiamare in causa anche l’assicurazione condominiale e la polizza che copre tale tipologia di danni.
Fermo restando questa solida linea difensiva è possibile che la vicenda possa sfociare in un contenzioso innanzi al giudice, evitabile con il ricorso a procedure di risoluzione alternative delle controversie come la mediazione civile di cui al D.Lgs. n.28/2010, istituto assolutamente applicabile al caso specifico.


G. G. chiede
venerdì 10/12/2021 - Lombardia
“Sono proprietario, dal 2005, nel condominio A, di un magazzino al piano cantinato proveniente da un locale a suo tempo unico (subalterno K), composto da un negozio al piano rialzato con ingresso dalla via pubblica e collegato con scala interna ad un locale ad uso magazzino al seminterrato con accesso di servizio sul cortile del condominio B (adesso di mia proprietà)
I condomìni A e B facevano capo allo stesso proprietario-comproprietario che nel 1960 cominciò a vendere alcuni appartamenti: i due fondi vennero divisi e fu creata, nell’atto notarile del 1960, una servitù attiva a favore del condominio A (fondo dominante) con onere sul condominio B (Fondo servente). Trascrivo integralmente tale servitù:
"A favore dello stabile di cui fanno parte gli enti in contratto viene costituita servitù attiva di luce, prospetto e sporto sulla proprietà dell’alienante confinante in lato di sud e di est al mappale n. XYZ nonché servitù attiva di passo carraio lungo il confine di sud e di est dello stesso mappale n. XYZ per accedere al locale di raccolta rifiuti, al locale deposito combustibile, nonché al locale del piano cantinato a parte dell’unità immobiliare contraddistinta col sub K.
La servitù di passo come sopra costituita dovrà essere esercitata sopra una striscia di terreno della costante larghezza di metri …….lungo i lati di nord e di ovest della suddetta proprietà dell’alienante al mappale n XYZ, precisandosi che la servitù stessa non potrà dar luogo ad alcun diritto di parcheggio o di sosta per un orario eccedente le sollecite operazioni di carico e scarico".

Nel 1965 i due piani del subalterno K furono separati con un tramezzo creando due unità indipendenti: il piano seminterrato mutò anche di destinazione da magazzino a laboratorio, con ingresso dal passo carraio dell’adiacente condominio B.
Il proprietario (pater familias) ottenne dal Comune nel 1990 la concessione edilizia per i lavori abusivi relativi al sub.K; lo vendette nel 2005 ed i nuovi proprietari hanno usato il passo carraio senza alcun impedimento, turbativa o azioni negatorie; nel 2005 il locale fu da me acquistato.
Il mio atto notarile non menziona alcuna servitù e così anche l’atto notarile del mio dante causa.
Il fondo dominante (condominio A paga un importo che gli viene addebitato dal condominio
B (fondo servente) per le spese di manutenzione ordinaria e che viene suddiviso tra i suoi condomini, me compreso, in base ai millesimi di proprietà.
Recentemente, l’amministratore del condominio B pretende che io possieda dei millesimi di proprietà nel suo condominio e mi addebita, con minaccia di decreto ingiuntivo spese per la gestione ordinaria, in base ad una “nuova” tabella millesimale in cui io avrei il 50% delle spese di manutenzione ordinaria e l’altro 50% suddiviso tra il mio condominio A e il suo, condominio B.
La stessa cosa per quanto riguarda le spese straordinarie di rifacimento cortile e passo carraio:
50% a mio carico, 25 al mio condominio A e 25% al suo condominio B. Insomma, non considera l’appartenenza del mio locale alla servitù, trasformandola in comunione.
Quesiti:
a) Come si interpreta quel, "a parte dell’unità immobiliare contraddistinta col sub. K" nell’atto notarile del 1960? Per me non è un’esclusione dalla servitù come l’interpreta l’amministratore: specifica soltanto che lì non si entra essendo quel locale di proprietà privata (suo).
Anche se fosse esclusione dalla servitù (ma a che pro?), una volta avvenuto l’ultimo frazionamento del fondo dominante e interrotto il collegamento tra le due unità, la parte inferiore del sub K divenne totalmente interclusa e il passo carraio di proprietà del fondo servente è l’unica via per raggiungere la via pubblica; la servitù rientra “ex lege” nella servitù dello stabile, senza alcuna necessità di espressa menzione negli atti traslativi (Cassaz. 26 aprile 2017 n.10293).
Se “ex-lege”, occorreva, comunque, fare azione confessoria? Devo farla io adesso che si minaccia la turbativa o attendere, l’eventuale decreto d’ingiunzione a pagare, la mediazione ecc.
Grazie per il vostro parere su cui conto molto.
Cordiali saluti.”
Consulenza legale i 17/12/2021
Per dare una risposta precisa al quesito sarebbe necessario un confronto approfondito tra il legale condominialista ed un bravo geometra che sicuramente potrebbe aiutare il primo a sbrogliare meglio la matassa, che pare allo stato un po’ ingarbugliata.
Sulla base però di quanto si è detto nel quesito però si possono fare alcune considerazioni.

Ai sensi dell’art. 1118 del c.c. l'obbligo di corrispondere gli oneri condominiali trova la sua giustificazione non perché la nostra proprietà gode di un diritto di servitù a carico di un fondo adiacente, ma perché si è proprietari di una unità immobiliare ricompresa nel condominio da cui deriva la spesa. E’ ben possibile poi che all’interno del condominio vi possano essere delle servitù a favore delle parti esclusive e a carico delle parti comuni (o anche viceversa), ma ciò non influisce sull’obbligo di corrispondere gli oneri condominiali. Si ha il forte sospetto che siano state approvate delle nuove tabelle millesimali le quali considerano i due condomini A e B non come due enti distinti ma come un corpo di fabbrica unico e da qui scaturisce la richiesta di pagamento avanzata dall’amministratore. Diviene quindi essenziale far esaminare da un tecnico le nuove tabelle millesimali per capirne la correttezza redazionale sula base delle costruzioni a cui si riferiscono.

Per quanto riguarda la servitù si pensa che l’interpretazione prospettata nel quesito sia corretta e ad ogni modo se il magazzino risulta essere intercluso ovviamente il suo proprietario avrà diritto di pretendere, anche giudizialmente, uno sbocco sulla pubblica via. Tuttavia come si è illustrato, la vera questione non ruota attorno alla servitù ma alle tabelle millesimali e a come le stesse sono state redatte.
Si consiglia quindi di pretendere di avere in visione queste “nuove” tabelle millesimali, e ad ogni modo allo stato attuale negare la debenza di ogni somma sostenendo di non essere in alcun modo condomino del condominio B.


Antonio B. chiede
lunedì 13/09/2021 - Lazio
“Sono proprietario di un appartamento in un "supercondominio" formato da cinque costruzioni ed un totale di una sessantina di Condomini: detto condominio, costruito negli anni '60 dello scorso secolo, eroga i servizi centralizzati di riscaldamento ed acqua calda sanitaria (ACS) per mezzo di una unica centrale termica ed una rete di distribuzione vetusta e molto estesa.
In particolare il servizio di distribuzione di ACS viene da parecchi anni erogato (mantenendo una circolazione continua di acqua calda tra la centrale ed ogni più remoto punto della rete) H24 per 365 gg/anno, con una spesa (spreco) annua di diverse decine di migliaia di euro : un'accurata indagine energetica ha infatti dimostrato che le dispersioni termiche connesse assorbono oltre l'80% dei consumi e delle relative spese, con aggravio di costi a danno proprio dei condomini "più virtuosi", che pagano "consumi involontari" esorbitanti.
Logica vorrebbe che il servizio venisse drasticamente ridimensionato, o meglio definitivamente abbandonato per passare a scaldabagno autonomi quali che siano, poiché comunque più efficienti.
Alcuni condomini si oppongono ad entrambe le soluzioni: qual è la via per riportare la situazione nel limite del ragionevole?”
Consulenza legale i 18/09/2021
Le intenzioni dell’autore del quesito per quanto condivisibili non sono di facile attuazione alla luce della vigente normativa.
Il problema principale risiede soprattutto nel 2° co. dell’art. 1118 del c.c. il quale dispone che nessun condomino possa rinunziare alla proprietà delle parti comuni dell’edificio: nel caso specifico, quindi, alla proprietà sull’impianto di riscaldamento ed acqua calda sanitaria.

Da ciò deriva che se si volesse realizzare fino in fondo l’intendimento che ci si propone, ovvero la totale dismissione dell’impianto, l’unica strada sarebbe quella di ottenere l’unanimità di tutti i proprietari facenti parte del supercondominio nel suo complesso. Ciò è ancora più vero se si pensa al fatto che vi sarebbe la necessità che ciascun proprietario installi nel suo appartamento uno scaldabagno autonomo. Il problema è che l’unità abitativa è una proprietà esclusiva del singolo e non può l’assemblea a colpi di maggioranza imporre la realizzazione di determinati lavori al suo interno: questo può avvenire solo col consenso del singolo proprietario. Visto che vi sono proprietari che da questa iniqua situazione ottengono evidenti vantaggi è improbabile ottenere il loro indispensabile consenso alla realizzazione dei lavori.

Vi è però una scappatoia, in quanto se è vero che l’art. 1118 del c.c. vieta la rinunzia del condominio alle proprietà sulle parti comuni, è pacificamente ammissibile che il singolo possa rinunziare non alla proprietà ma all’utilizzo dei servizi condominiali e questo accade molto spesso proprio nei confronti degli impianti di riscaldamento condominiale, tanto è vero che il legislatore ha affrontato il problema nella riforma del condominio del 2012.
Infatti, il 4° comma dell’art. 1118 del c.c. riconosce il diritto soggettivo del singolo proprietario di distaccarsi dall’impianto di riscaldamento comune, a condizione che da tale distacco non derivi squilibrio di funzionamento dell’impianto e aggravio di spesa per gli altri condomini. E’ importante sottolineare che se non vi sono problemi di squilibrio termico o aggravi di spesa, il diritto al distacco viene riconosciuto direttamente dalla legge senza che esso sia condizionato da una qualche autorizzazione assembleare. Bisogna però prestare attenzione, in quanto il distacco del singolo dall’impianto centralizzato di riscaldamento non significa rinuncia alla sua proprietà. Il 4° comma dell’art. 1118 del c.c. si affretta a precisare che rimane fermo per il distaccante l’obbligo di far fronte alle spese di manutenzione straordinaria dell’impianto, a quelle di conservazione e relative alla sua messa a norma.
Purtroppo, però, anche se questa soluzione fosse percorribile nel caso specifico e l’autore del quesito decidesse di intraprenderla, per costante giurisprudenza egli rimarrebbe sempre obbligato a pagare anche la quota di riscaldamento relativa ai consumi involontari derivati dalla naturale dispersione termica dell’impianto.

In questo senso si veda la decisione della Sez. V del Tribunale di Roma n.8386 del 10.06.2020, la quale ha posto il pagamento dei consumi involontari anche in capo al condomino distaccante: il suo appartamento, secondo i giudici romani, usufruisce di tale dispersione al di là del fatto che egli si sia volontariamente distaccato e questo perché: "la dispersione si verifica in ragione del fatto che l’impianto è strutturato per servire tutti gli appartamenti, a prescindere dal fatto che il condomino sia o meno allacciato alla rete di distribuzione".

A conti fatti, quindi, il condomino distaccante sarebbe esentato dal pagamento delle sole spese riconducibili alla sola manutenzione ordinaria dell’impianto e al consumo volontario di calore.

Giungendo alla conclusione è giusto precisare che se si volesse intraprendere tale strada, che può essere percorsa singolarmente o anche collettivamente dai proprietari di un singolo palazzo, è necessario corredare la richiesta con una perizia di un termotecnico che accerti la fattibilità dell’operazione e che essa non comporti squilibri termici a danno degli altri proprietari. Ovviamente, se il condominio dovesse fare resistenza a questa soluzione, l’unica scelta possibile sarebbe quella di intraprendere un cammino giudiziario teso a far valere nei confronti della compagine supercondominiale il diritto al distacco.


Ferrari G. chiede
mercoledì 21/10/2020 - Emilia-Romagna
“Abito in un condominio di 7 piani.
Qualche anno fa il condomino del piano terra ha ristrutturato l'appartamento installando un impianto a pompa di calore senza peraltro comunicare nulla preventivamente all'amministratore.
Adesso il condomino al 6 piano ha dei problemi di tiraggio delle propria caldaia (sono tutte caldaie a camera aperta di tipo B la canna fumaria condominiale è di tipo ramificata e parte dal piano terra).
Per risolvere il problema ci è stato proposto di risanare la canna fumaria inserendo una guaina in modo da permettere a tutti di sostituire le vecchie caldaie con quelle di nuova generazione e cioè a tiraggio forzato.
Un tale lavoro sulla canna fumaria presuppone che alla base della stessa venga installato un dispositivo di controllo e di scarico delle condense.
Il proprietario del piano terra da dove parte la canna fumaria si rifiuta di far effettuare i lavori nel suo appartamento adducendo la giustificazione che lui non usa più la canna fumaria e di conseguenza toccherebbe a me che sono al primo piano di sopportare gli enormi disagi di questa innovazione ed accettare questa servitù imprevista al condominio.
Chiedo il vostro parere legale su questa questione.

Grazie in anticipo

Cordiali Saluti


Consulenza legale i 26/10/2020
Le pretese del proprietario del piano terra non hanno alcun fondamento giuridico. Il 2° co. dell’art.1118 del c.c. ci dice chiaramente che il singolo proprietario non può rinunziare al suo diritto sulle parti comuni; il successivo 3°co. specifica, ulteriormente, che il condomino non può sottrarsi al pagamento degli oneri riguardanti la conservazione delle parti comuni dell’edificio, neanche modificando la destinazione d’uso della propria unità immobiliare.
Tali fondamentali principi sono stati espressamente applicati dal successivo comma 4° dell’art. 1118 del c.c. proprio in merito al servizio di riscaldamento condominiale, di cui ovviamente la canna fumaria costituisce una necessaria ed indispensabile propaggine.

Il comma che si sta commentando, riconosce al singolo proprietario il diritto a determinate condizioni di distaccarsi dall’impianto centralizzato di riscaldamento: tuttavia, a tale operazione non fa da contraltare il diritto del distaccante di disinteressarsi completamente dell’impianto comune. Il codice specifica, infatti, che il proprietario che si è reso autonomo è comunque tenuto a concorrere insieme agli altri condomini al pagamento delle spese necessarie per la manutenzione straordinaria dell’impianto e per la sua conservazione e messa a norma. Anche la giurisprudenza antecedente alla riforma del 2012, pur riconoscendo il diritto del proprietario a distaccarsi, aveva comunque tenuto fermo l’obbligo per lo stesso di contribuire alle spese di manutenzione straordinaria dell’impianto, e i giudici arrivavano a tale conclusione partendo dall’ imprescindibile presupposto che il singolo proprietario non può rinunciare ai suoi diritti sulle parti comuni e non può sottrarsi al pagamento degli oneri condominiali conseguenti.

È interessante notare come il D.P.R. n. 412 del 26.08.1993 (Regolamento recante norme per la progettazione, l'installazione, l'esercizio e la manutenzione degli impianti termici degli edifici ai fini del contenimento dei consumi di energia, in attuazione dell'art. 4, comma 4, della legge 9 gennaio 1991, n. 10) al suo art.1 lett.i) chiarisce che per manutenzione straordinaria dell'impianto termico deve intendersi: "gli interventi atti a ricondurre il funzionamento dell'impianto a quello previsto dal progetto e/o dalla normativa vigente mediante il ricorso, in tutto o in parte, a mezzi, attrezzature, strumentazioni, riparazioni, ricambi di parti, ripristini, revisione o sostituzione di apparecchi o componenti dell'impianto termico". Anche ad un occhio non tecnico, pare evidente che l’intervento descritto nel quesito sulla canna fumaria debba rientrare nel concetto di manutenzione straordinaria specificato nella norma regolamentare citata.

Più che altro, ci si chiede se l’installazione della pompa di calore effettuata molto alla chetichella, abbia comportato un effettivo e fisico distacco della unità immobiliare dall'impianto comune, e se questo è avvenuto, se l'operazione possa considerarsi legittima ai sensi del co. 4° dell’art. 1118 del c.c. Tale comma subordina il diritto al distacco, al fatto che dallo stesso non derivino aggravi di spesa per gli altri condomini e squilibri termici nel funzionamento dell’ impianto. Se tali presupposti non sono stati rispettati è indubbio che il distacco deve considerarsi illegittimo, e da ciò potrebbe derivare l’obbligo per chi si è reso autonomo di risarcire i danni agli altri proprietari e anche, secondo il parere di chi scrive, di continuare a concorrere con gli altri condomini al pagamento della manutenzione ordinaria (non solo straordinaria), e della forza calore consumata dall'impianto.

MIRELLA T. chiede
giovedì 05/03/2020 - Toscana
“In un condominio che amministro, l'appartamento all'attico si è distaccato dalla caldaia centralizzata circa 25 anni fa. È stato poi suddiviso in 3 unità abitative e ciascun Proprietario ha sempre pagato solo le spese per la manutenzione straordinaria e conservazione dell'impianto di riscaldamento
Nel 2018 si sono distaccati altri 2 Condomini. Il Tecnico incaricato ha redatto i millesimi per i consumi involontari escludendo i tre appartamenti dell'attico e considerando coloro che si erano distaccati di recente. È corretto?
Dovendo sostituire la caldaia centralizzata con una a condensazione ma in grado di "scaldare" tutti e 13 gli appartamenti
i 5 che si sono distaccati possono rifiutarsi di pagare? Credo che non si possa rinunciare singolarmente al diritto di proprietà su un bene comune. Attendo Vs risposta Saluti”
Consulenza legale i 06/05/2020
La ricostruzione operata dall’amministratore di condominio appare assolutamente corretta e conforme a quanto disposto dai commi 3° e 4° dell’art. 1118 del c.c. Il terzo comma ci dice che nessun condomino può sottrarsi dal pagamento delle spese comuni, neppure modificando la destinazione d’uso della propria unità immobiliare. Il successivo 4° comma non è altro che una attuazione di tale importante principio: con esso il legislatore ha riconosciuto il diritto del singolo condomino di distaccarsi dall’ impianto di riscaldamento centrale, a patto che ciò non comporti notevoli squilibri di funzionamento o aggravi di spesa per gli altri condomini (il c.d. squilibrio termico). Anche per chi si distacca, però, viene mantenuto fermo l’obbligo di pagamento delle spese per la manutenzione straordinaria dell'impianto e per la sua conservazione e messa a norma, e questo perché l’impianto di riscaldamento condominiale rimane bene comune e ogni proprietario non può sottrarsi alle spese che lo riguardano. La giurisprudenza successiva alla riforma del 2012 è costante finora nel far rientrare nella contribuzione per la conservazione, i consumi involontari derivanti dalla dispersione di calore dell’impianto. Interessante in questo senso è la pronuncia del Tribunale di Roma,Sez.V, n.18478 del 11.10.2016, nella quale si statuisce che la spesa riconducibile alla percentuale di consumo involontario di calore, deve essere ripartita tra tutti i condomini, in proporzione alla loro rispettiva quota millesimale, anche nel caso in cui essi non utilizzino l’impianto. In questo senso quindi il comportamento tenuto dal tecnico incaricato parrebbe censurabile, ma chi scrive non è un termotecnico abilitato ma un avvocato: pertanto è consigliabile capire le motivazioni che hanno portato il tecnico a compiere tale scelta e, se del caso, consultare un altro perito.

In merito alla sostituzione della caldaia condominiale, si ritiene che tutti i proprietari distaccati siano comunque tenuti a partecipare alla spesa di sostituzione in attuazione di quanto disposto dal 4° co. dell’1118 del c.c. D’altronde nulla vieta che in un futuro chi si è distaccato possa scegliere di ritornare sui suoi passi e riallacciarsi all’impianto condominiale che rimane e non può non rimanere bene comune.
Come sottolineato dal Tribunale di Parma con sentenza n. 1281 del 1.10.2019, proprio in merito alle spese di rifacimento della caldaia condominiale, solo un accordo sottoscritto da tutti condomini potrebbe sottrarre chi si è distaccato dal pagamento delle spese di manutenzione straordinaria e di conservazione dell’impianto previsti dall’ultimo comma dell’art.1118 del c.c.

Catia D. F. chiede
sabato 30/11/2019 - Liguria
“Buonasera,
il mio quesito è il seguente: Sono amministratore di una s.r.l. proprietaria di un fondo posto sotto un condominio, il fondo non è mai stato servito dall'impianto di riscaldamento, l'amministratore del condominio, invocando l'applicazione della normativa UNI 10200, a partire dal consuntivo dell'anno 2017/2018 ha ripartito le spese di manutenzione straordinaria dell'impianto di riscaldamento sulla base dei millesimi di proprietà e quindi a carico anche della società da me amministrata il cui fondo non è mai stato servito dall'impianto di riscaldamento.
È legittima tale attribuzione di spesa?
In caso negativo, sono spirati i termini per impugnare la delibera con la quale è stato approvato il consuntivo?
Ringrazio.”
Consulenza legale i 04/12/2019
Il 3° comma dell’art 1118 del c.c. detta un principio fondamentale in tema di condominio: nessun proprietario può sottrarsi al pagamento delle spese comuni dell’edificio, neanche modificando la destinazione d’uso della propria unità immobiliare (salvo i casi previsti dalla legge).
In attuazione di tale importante principio, il successivo 4° comma dell’art. 1118 del c.c. nell’introdurre il diritto di ogni condomino a distaccarsi dall’ impianto di riscaldamento centralizzato, ribadisce comunque che anche il proprietario distaccato è tenuto a concorrere con gli altri proprietari alle spese per la manutenzione straordinaria dell’impianto.

Quanto finora detto vale sicuramente nel momento in cui si è proprietari in condominio di una unità immobiliare che abbia una destinazione d’uso o abitativa o lavorativa: si pensi ad un appartamento, un ufficio o un negozio in condominio. In questo caso, infatti, anche in caso di distacco, l’impianto di riscaldamento centralizzato è un servizio condominiale accessorio alla unità immobiliare, la quale usufruisce comunque, a proprio vantaggio, della dispersione di calore dell’impianto, il cui consumo, secondo la normativa UNI10200 recepita dall’art. 9, comma 5, lett. d) del D.Lgs n.102 del 04.07.2014 e la giurisprudenza dominante, deve essere addebitato anche a chi si è distaccato dall’impianto centralizzato.

Il discorso muta nel momento in cui si è proprietari di un solo posto auto sito ad esempio nel piano pilotis o in un piano sotterraneo del palazzo. In questo caso infatti, per destinazione oggettiva, l’impianto di riscaldamento non può considerarsi un accessorio posto al servizio e al miglior godimento della unità immobiliare: per l’utilizzo di un posto auto non è certo necessario l’esistenza e il funzionamento di un impianto di riscaldamento, e quindi il proprietario di tale unità non può vantare dei millesimi di comproprietà su tale bene comune e non deve di conseguenza sopportarne le spese di manutenzione straordinaria.

In questo senso è molto chiara Cass. Civ.sez. II, n. 1420 del 27.01.2004:” le spese di sostituzione della caldaia condominiale devono essere ripartite secondo i millesimi di proprietà e non secondo l’uso che ciascun condomino può farne, trattandosi di spese che riguardano la proprietà di un impianto: va infatti, in generale, precisato che, trattandosi di spese che attengono alla conservazione, cioè alla tutela dell’integrità materiale e, quindi, del valore capitale dell’impianto comune, esse interessano i condomini quali proprietari dell’impianto, a cui carico la legge (articolo 1123 primo comma c.c.) pone l’obbligo di concorrere alle spese, configurando a carico di essi obbligazioni propter rem (obligatio propter rem n.d.r.), che, nascendo dalla contitolarità del diritto reale sull’impianto comune, sono dovute in proporzione della quota che esprime la misura della appartenenza”.

È evidente l’errore effettuato dall’amministratore di condominio. Esso ha ripartito le spese straordinarie di manutenzione e rifacimento dell’impianto centralizzato considerandole attinenti al suo utilizzo e al consumo di energia derivante, applicando in conseguenza il D.Lgs n.102 del 04.07.2014 e la normativa UNI in esso richiamato. Il professionista, invece, avrebbe dovuto considerare tali spese come attinenti alla proprietà dell’impianto medesimo, utilizzando il criterio di riparto indicato dal co. 1° dell’art. 1123 del c.c. e le conseguenti tabelle millesimali che ne costituiscono attuazione.

Se l’assemblea condominiale dovesse approvare il riparto delle spese di manutenzione straordinaria dell’impianto avvallando tale errore, la delibera conseguente sarebbe affetta da un vizio insanabile di nullità, in quanto l’assise, statuendo su argomenti su cui non aveva alcun potere di intervento, accolla a chi non era proprietario dell’impianto di riscaldamento degli oneri attinenti alla sua conservazione e quindi alla proprietà.

La Cass. Civ.,sez. II, n. 6714 del 10.03.2010 ha statuito sul punto che :”in tema di condominio, sono affette da nullità, che può essere fatta valere anche da parte del condomino che le abbia votate, le delibere condominiali attraverso le quali, a maggioranza, siano stabiliti o modificati i criteri di ripartizione delle spese comuni in difformità da quanto previsto dall'art. 1123 cod. civ. o dal regolamento condominiale contrattuale, essendo necessario per esse il consenso unanime dei condomini…”

Una delibera assembleare nulla, può essere impugnata in ogni tempo, anche oltre i rigidi termini impugnatori indicati dall’ art. 1137 del c.c., da chiunque vi abbia interesse, anche paradossalmente da quel condomino che col suo voto ha contribuito a formare la delibera viziata.


Pierpaolo M. chiede
martedì 22/10/2019 - Marche
“Sono il solo condomino di un edificio di 4 piani più mansarda distaccatosi dal riscaldamento centralizzato. In base alla legge UNI 1210 l'amministrazione ci vuole addebitare oltre ai costi di proprietà (manutenzione ordinaria e straordinaria) anche il consumo involontario suddiviso per millesimi di riscaldamento.
Come debbo contenermi, ho bisogno di un esperto per instaurare una controversia legale?
Grazie

Consulenza legale i 25/10/2019
L’autore del quesito si è distaccato dall’impianto centralizzato condominiale, installando un impianto di riscaldamento autonomo. Tale situazione molto frequente negli edifici non di recente costruzione ha generato diversi contenziosi tra condomini e ha indotto il legislatore della riforma del condominio del 2012 ad intervenire. Il nuovo co. 4 dell’art 1118 del c.c., recependo la giurisprudenza maggioritaria antecedente al 2012, ha stabilito il diritto di ogni condomino, non derogabile da alcun regolamento condominiale né sottoposto ad alcuna autorizzazione assembleare, a distaccarsi dall’ impianto condominiale di riscaldamento a condizione, però, che detto distacco non comporti notevoli squilibri di funzionamento (il c.d. squilibrio termico), oppure aggravi di spesa per gli altri condomini.

Una volta distaccato il condomino, sempre secondo la normativa citata, rimane obbligato comunque a corrispondere le spese per la manutenzione straordinaria dell’impianto o per la sua conservazione e messa a norma. In altri termini una volta distaccato il condomino è tenuto a concorrere insieme agli altri proprietari ed in proporzione ai rispettivi millesimi, solo per quelle spese necessarie al corretto funzionamento e alla manutenzione dell’impianto. Il mantenimento da parte del legislatore del 2012 di tale contribuzione è posto in attuazione del principio previsto dal co. 3° dell’art. 1118 del c.c. secondo il quale il condomino non può in ogni caso, salvo disposizioni di leggi speciali, sottrarsi al pagamento delle spese per la conservazione delle parti comuni.

La giurisprudenza successiva alla riforma del 2012 è costante finora nel far rientrare nella contribuzione per la conservazione, i consumi involontari derivanti dalla dispersione di calore dell’impianto.
Interessante in questo senso è la pronuncia del Tribunale di Roma,Sez. V, n. 18478 del 11.10.2016, nella quale, proprio richiamando la normativa UNI 10200/2013, statuiva che la spesa riconducibile alla percentuale di consumo involontario di calore, deve essere ripartita tra tutti i condomini, in proporzione alla loro rispettiva quota millesimale, anche nel caso in cui essi non utilizzino l’ impianto.

La normativa UNI sono norme volte ad uniformare determinate prassi tecniche nei più diversi settori industriali e adottate volontariamente (e quindi non per forza di una normativa imperativa statale), dagli operatori di quel determinato specifico settore. Certo, per l’importanza che tali normative rivestono nella vita quotidiana, esse possono andare ad influenzare o essere recepite in toto dalla normativa nazionale. È il caso, ad esempio, del D.lgs. n. 102 del 04.07.2014 (come modificato dal D.Lgs. n. 141/2016) che fa espressamente rinvio alla normativa UNI10200.
La normativa Uni a cui fanno riferimento i testi normativi e il giudice romano nella sentenza citata va a disciplinare, appunto, i criteri di ripartizione delle spese negli impianti centralizzati condominiali di climatizzazione e produzione di acqua calda sanitaria. Tale normativa distingue tra consumo di calore volontario ed involontario. Il primo è deriva dall’azione volontaria dell’utente che, regolando il termostato chiama calore nella propria unità abitativa, la seconda invece deriva dalla dispersione di calore tipica di ogni impianto.
È importante però sottolineare come la percentuale di consumo involontario che deve essere ripartita tra tutti i condomini non può essere determinata arbitrariamente dall’amministratore o da una delibera assembleare.

In questo senso è molto chiara la sentenza del Tribunale di Verbania n.52 del 10.02.2017 la quale ha statuito la nullità della delibera condominiale che statuiva arbitrariamente la suddivisione tra consumi volontari ed involontari in base a percentuali fisse predeterminate dai condomini in assenza di una perizia tecnica asseverata.
Come è noto, una delibera nulla può essere impugnata in ogni tempo, anche oltre i rigidi termini impugnatori di cui all’art. 1137, da chiunque vi abbia interesse e quindi anche da chi, paradossalmente, ha contribuito alla adozione della delibera viziata con il suo voto favorevole.

Quindi in conclusione, anche in caso di distacco dall’impianto di riscaldamento centralizzato è possibile, in base alla vigente normativa, ripartire tra tutti i condomini, compresi quelli che si sono distaccati dall’impianto comune centralizzato, il consumo involontario di riscaldamento. La percentuale di consumo involontario, tuttavia deve essere determinata sulla base di perizia eseguita da un tecnico incaricato dalla assemblea, il quale dovrà andare ad applicare la appropriata normativa UNI.
In applicazione della normativa generale di cui all’art. 1123 del c.c. e della normativa speciale di cui alla lett. d) co. 5 dell’art. 9 del D. Lgs.n102 del 2014 la ripartizione della quota involontaria di calore così accertata potrà essere ripartita in base ai millesimi, o in base anche ad altri criteri di riparto adottati, tuttavia, col consenso unanime di tutti i condomini.

Alessandro R. chiede
venerdì 08/09/2017 - Emilia-Romagna
“Spett.le Brocardi,
in un condominio con impianto di riscaldamento centralizzato, in ottemperanza al comma 4 art. 1118 legge 220/2012, un condomino ha richiesto il permesso d' effettuare il distacco tramite domanda scritta allegando la perizia effettuata da tecnico autorizzato dichiarando che avrebbe provveduto al pagamento delle spese di riscaldamento straordinarie e di manutenzione.
I condomini hanno deliberato che non potevano ne' negare ne' concedere il permesso poiché la corretta modalità è stabilita dalla legge.
L' amministratore, nel redigere il verbale della riunione di condominio, ha aggiunto che non sussistevano problemi di sorta ed il condomino in questione ha provveduto al distacco.
Il fatto è avvenuto nell'estate del 2016, all' inizio si pensava che il condomino avrebbe installato un impianto di riscaldamento autonomo ma così non è successo, forse anche a causa dell' allegato 2 D.A.L. 156/2008 e s.m.i. della regione Emilia Romagna (regione d' appartenenza) il quale non permette la trasformazione dell' impianto da centralizzato ad autonomo, o forse per ottenere un buon risparmio sulle spese di riscaldamento anche se l' appartamento è abitato.
L' appartamento del condomino distaccato è sito al piano terra mentre il mio è al primo piano e sono l' unico condomino confinante e di conseguenza ho subito un danno dovuto ad un maggiore utilizzo del mio riscaldamento a causa della maggiore dispersione termica dovuta all'intero pavimento del mio appartamento più freddo del previsto.
Preciso che i condomini sono dotati dei ripartitori di calore e termostati sui corpi riscaldanti come previsto dal D.L. 102/2014.
Il condomino rinunziante non è intenzionato al riallaccio mentre dovrebbe perché provoca "un aggravio di spesa per gli altri condomini", gli altri condomini sono disinteressati alla vicenda ed anche il nuovo amministratore che si è avvicendato al suo predecessore redattore del verbale summenzionato.
Oltre al condomino distaccatosi il condominio od anche l' amministratore hanno qualche responsabilità?
In che modo posso risolvere questa questione?
Grazie.”
Consulenza legale i 14/09/2017
Quando si affronta il tema del distacco dall’impianto di riscaldamento centrale, occorre sempre tenere presente sia il disposto di cui all’art. 1117 c.c. (nella parte in cui stabilisce che l'impianto di riscaldamento si presume di proprietà comune a tutti i condomini fino al punto di diramazione nelle varie proprietà esclusive), sia la norma di cui all'art. 1102 c. c., secondo cui ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto.

Inoltre, non va mai trascurato che l'impianto è stato progettato per tutto l'immobile, ossia per assicurare una temperatura base equilibrata in tutto lo stabile.

Premesso ciò, va osservato che prima della riforma del condominio, la rinuncia unilaterale al riscaldamento operata da un singolo risultava vietata se da ciò ne potevano derivare squilibri termici con aggravi di spesa per gli altri condomini (così Cassazione n. 4023/1966), mentre era consentita qualora risultasse prevista dal regolamento condominiale, fosse stata deliberata dall'assemblea ovvero se il proprietario interessato fosse stato in grado di dimostrare che il distacco avrebbe comportato una effettiva riduzione dei costi rapportata al costo complessivo.

Nel caso in cui, invece, il distacco dall'impianto centrale di riscaldamento di uno o più condomini avesse comportato un aumento di costi per gli altri fruitori, i primi erano tenuti a sostenerli (così Cassazione n. 10214/96 e n. 8924/2001).

Con la riforma del condominio il legislatore ha espressamente riconosciuto al singolo condomino il diritto di rinunciare all'utilizzo dell'impianto centralizzato di riscaldamento o di condizionamento.
Tuttavia, lo stesso art. 1118 c.c., nel riconoscere tale diritto, ha posto quale condizione indispensabile che dal distacco non possano derivare notevoli squilibri di funzionamento o aggravi di spesa per gli altri condomini.

Risulta evidente, quindi, che colui il quale intende distaccarsi, prima di porre in essere il distacco, dovrà provvedere a darne comunicazione agli altri condomini, per il tramite dell’amministratore ex art.1122 c.c., trattandosi di intervento che sicuramente va ad interessare i beni comuni, corredando l’informativa con la documentazione tecnica redatta da un tecnico abilitato, comprovante o meno l’esistenza dei presupposti che rendono possibile la rinuncia all’impianto di riscaldamento centralizzato.
Nei fatti appare poco praticabile un distacco senza che si verifichino “aggravi di spesa” per coloro che continuano a servirsi di tale impianto, ancor più quando, come nel caso di specie, il condomino non abbia provveduto a dotare la propria unità abitativa di un impianto di riscaldamento autonomo.

Corretto appare anche il riferimento fatto nel testo del quesito al D.lgs. 102/2014 il quale, avendo previsto l’installazione dei c.d. sottocontatori nei condomini con impianto di riscaldamento centralizzato (da effettuare entro il 31.12.2016), ha di fatto posto il condominio nelle condizioni di poter misurare l’effettivo consumo da parte di ogni singola unità abitativa e di far si che ciascun condomino possa gestire l’erogazione del calore all’interno della sua unità quasi come se fosse dotato di impianto termoautonomo.

Lo stesso decreto si è anche occupato di disciplinare la ripartizione dei costi del riscaldamento, prevedendo che questa debba essere effettuata suddividendo l’importo finale in base alla norma tecnica UNI 10200, ossia quella norma la quale distingue tra “consumo involontario” e “consumo volontario”.
È proprio tale distinzione che costringe quasi a dover escludere che il condomino che intenda distaccarsi possa essere in grado di dimostrare che non vi siano “aggravi di spesa” per gli altri condomini, poiché la quota di “consumo involontario”, cui tutti i condomini sono chiamati a contribuire in quanto non dipendente dalla volontà del singolo, determina senza alcun dubbio un aggravio di costi per i rimanenti condomini, non imputabili tra quelle che l’art. 1118 c.c. qualifica come spese per la manutenzione straordinaria dell'impianto e per la sua conservazione e messa a norma, a cui il condomino resta obbligato.

Tanto si ritiene possa essere sufficiente per chiedere all’amministratore di condominio di convocare senza indugio una assemblea straordinaria ex art. 66 delle disposizioni di attuazione al codice civile, nel corso della quale richiedere che venga disposta una ulteriore perizia come condominio, a seguito della quale poter formalmente constatare la mancata installazione di un impianto di riscaldamento autonomo nell'appartamento e pretendere così il ripristino della situazione iniziale.

Si tenga peraltro conto del fatto che l’amministratore di condominio risulta in certo qual modo obbligato a convocare l’assemblea straordinaria per tale finalità, incombendo sullo stesso l’obbligo di effettuare con scadenze temporali ben determinate i controlli di efficienza energetica degli impianti, ancor più nel caso di installazione di nuovi impianti termici o di ristrutturazione di impianti esistenti (in tale concetto potrebbe anche farsi rientrare il distacco di uno o più appartamenti dall’impianto centralizzato).

Sotto il profilo delle eventuali responsabilità dell’amministratore, può invocarsi la normativa sulla prestazione energetica degli edifici, contenuta nel decreto 22 novembre 2012 del Ministero dello sviluppo economico e delle attività produttive, modificativo del decreto 26 giugno 2009 (recante le Linee guida nazionali per la certificazione energetica degli edifici), normativa che, probabilmente rispondendo ad una specifica necessità dei certificatori energetici, dispone che gli amministratori degli stabili e i responsabili degli impianti forniscano ai condomini o ai certificatori, da questi incaricati, tutte le informazioni e i dati edilizi e impiantistici, compreso il libretto di impianto (o di centrale) per la climatizzazione, necessari alla realizzazione della certificazione energetica degli edifici.

Il Decreto Ministeriale in parola, con espresso riferimento agli impianti di climatizzazione invernale, stabilisce che per gli edifici residenziali la certificazione energetica debba riguarda il singolo appartamento; a tal fine è fatto obbligo agli amministratori degli stabili e ai responsabili degli impianti di fornire ai condomini o ai certificatori, da questi incaricati, tutte le informazioni e i dati edilizi e impiantistici, compreso il libretto di impianto (o di centrale) per la climatizzazione, necessari alla realizzazione della certificazione energetica degli edifici.
L’inottemperanza a tali controlli e manutenzioni da parte dell’amministratore può avere come conseguenza l’applicazione di una sanzione amministrativa non inferiore a 500 euro e non superiore a 3.000 euro (v. comma 5 dell’art. 15 D.lgs. n. 192/2005).

Giovanni G. chiede
giovedì 15/12/2016 - Puglia
“Il mio condominio è costituto da 18 unità abitative su otto piani più due rampe di scale che portano al terrazzo, dove sono ubicate la sala macchine ascensore e l'antenna centralizzata e qualche parabola privata, mentre a piano terra vi sono due tre negozi e un garage aperto al pubblico.
Nell'atto di acquisto originario di un locale del 1954 che successivamente è stato frazionato in due è scritto che lo stesso locale essendo dotato di un contatore acqua allacciato direttamente alla rete comunale pertanto non sarà tenuto a contribuire alle spese di condominio dell'intero fabbricato, salvo quanto fosse previsto per legge a carico dei vani stessi.
si stabilisce inoltre che il compratore non avrà alcun diritto ad accedere ai lastrici solari, (poiché l'ottavo piano sottostante il terrazzo di copertura è composto da due appartamenti con terrazzo a livello di uso esclusivo.) e quindi sarà tenuto a contribuire alle spese per la riparazione e manutenzione, nella misura stabilita dall'art.1126.
Nell'atto originario dell'altro locale invece è contenuto quanto segue: la presente vendita comprende due vani a p.t. non ancora accatastati perché di recente costruzione riferendosi sempre al 1954,posti tra l'entrata del garage ed il portone di
ingresso per accesso ai piani superiori.
la presente vendita comprende i vani innanzi descritti con tutti i relativi accessori, ma escluso il diritto ai lastrici solari ed esclusa altresì ogni contribuzione per le spese di condominio relativamente al portone, scalinata,ascensore, impianto, elettrico nel portone e nelle scale, e di qualsiasi altra cosa in condominio ad eccezione delle riparazioni necessarie ai lastrici solari e ai muri maestri per le quali riparazioni si applicheranno le norme di legge.
Orbene la mia domanda è questa: stiamo facendo rifare le tab. millesimali per cui con l'entrata in vigore della riforma di condominio avendo chiarito il legislatore quali sono le parti comuni,avendo loro l'obbligo di concorrere alle spese di manutenzione e riparazione dei lastrici solari, hanno un uso potenziale delle scale e dell'androne oltre che di un ex alloggio portiere, e quindi dovrebbero partecipare alle spese della tab. scale nonché alle spese tab. androne ?”
Consulenza legale i 20/12/2016
Ai sensi dell’art. 1118 c.c., “Il diritto di ciascun condomino sulle parti comuni, salvo che il titolo non disponga altrimenti, è proporzionale al valore dell'unità immobiliare che gli appartiene”. In altre parole, la ripartizione delle c.d. parti comuni dell’edificio e delle spese ad esse inerenti dovrà tener conto del valore dell’unità immobiliare, sempre che il titolo da cui scaturisce la proprietà dell’unità immobiliare stessa non stabilisca diversamente.
Nel caso di specie, parrebbe essere proprio questa la situazione: per il secondo stabile è espressamente prevista l’esclusione dalla contribuzione alle spese condominiali per alcune delle parti comuni.
Naturalmente, però, stante quanto sopra esposto, le spese per la straordinaria manutenzione e per la conservazione e il godimento delle parti comuni dovrà comunque essere ripartita fra tutti i condomini. Ciò anche alla luce dell’art. 1139 c.c. che richiama le norme della comunione, tra cui emerge l’art. 1102 c.c. che prevede “ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto. A tal fine può apportare a proprie spese le modificazioni necessarie per il migliore godimento della cosa”.
In altre parole, il condomino può comunque servirsi della cosa comune: ciò non fa sorgere “in automatico” la ripartizione delle spese condominiali per il semplice uso, posto che il titolo da cui deriva la comproprietà stabilisce espressamente l’esclusione dalla contribuzione alle spese condominiali. Naturalmente, le spese c.d. straordinarie invece dovranno essere ripartite secondo le norme di legge (millesimi di proprietà).

Silvano Q. chiede
martedì 06/12/2016 - Veneto
“Buon giorno, mi chiamo Silvano, e sono proprietario di un appartamento di un condominio di 12 unità, ancora anni fa ho fatto fare dei lavori e ho fatto in modo di far diventare il mio appartamento Completamente Termoautonomo, dopo aver chiesto agli altri proprietari e solo dopo loro consenso, anche se non scritto ma solo verbale, da circa 4/5 anni mi sono staccato in tutto per tutto dal riscaldamento e acqua calda condominiale, usufruendo quindi della mia sola caldaia installata e regolarmente controllata ogni anno.
Io per quieto vivere e per non incorrere in polemiche ho continuato a pagare, non i miei millesimali per intero, ma solamente una piccola quota, (anche se non ho mai capito perché e di che percentuale si tratti), del riscaldamento condominiale, oltre che alle spese straordinarie e ora vogliono che io partecipi anche alle spese di una installazione di Nuova Caldaia del condominio.
Sono a conoscenza dell'art. 1118 c.c., ma so anche che io dovrei aver concorso solamente alle spese straordinarie per la manutenzione del buon funzionamento della caldaia, ma sarei stato tenuto anche a pagare una piccola percentuale del riscaldamento condominiale in tutti questi anni, e soprattutto sono tenuto a partecipare alla spesa condominiale per far mettere una nuova caldaia di cui io non usufruirò mai? Saluti e grazie.”
Consulenza legale i 19/12/2016
Innanzitutto andrebbe verificato l’anno in cui è stato realizzato il distacco: ad oggi infatti, successivamente alla riforma del condominio (2012), non è necessaria una delibera assembleare per effettuare i lavori (basta che siano rispettati i presupposto di cui al 1118 c.c., quarto comma), ma un tempo era necessario, anche per la Corte di Cassazione, il consenso unanime dei condomini, perché l’opera sarebbe rientrata nella disciplina delle innovazioni altrimenti vietate, ai sensi dell’art. 1120 c.c..
Se quindi, all’epoca dei fatti, il consenso non è stato ottenuto formalmente a mezzo assemblea e conseguente delibera, gli altri condomini (fatta salva la prescrizione) avrebbero il diritto di agire in giudizio nei confronti del condomino distaccato per richiedere, previo accertamento dell’illegittimità del distacco, il risarcimento del danno ed eventualmente, se possibile, il ripristino dello status quo ante con obbligo di versamento di tutte le spese di riscaldamento arretrate.

Sul pagamento della quota parte di spese di riscaldamento, benché minima, essa non era e non è dovuta in quanto tali spese sono strettamente legate all’utilizzo o meno dell’impianto: pertanto, quanto già versato dal condomino distaccato nel corso degli anni è stato pagato indebitamente ed egli potrà legittimamente richiederne il rimborso. Ciò, ovviamente, se il distacco sia avvenuto regolarmente: in caso contrario, infatti, come già evidenziato sopra, il rischio è il pagamento delle differenze arretrate.

In merito invece alla sostituzione della caldaia, l’art. 1118, come correttamente sottolinea chi ha posto il quesito, prevede che il condomino distaccato partecipi solo delle spese inerenti la manutenzione straordinaria dell'impianto e la sua conservazione e messa a norma.
La legge ha lasciato aperta la questione di cosa debba intendersi per “straordinaria”: la sostituzione della caldaia, tuttavia, costituisce senz’altro un intervento straordinario anche perché, quando viene eseguito, solitamente è per vetustà dell’impianto o perché quest’ultimo non è a norma.
Ad avviso di chi scrive si tratta, insomma, di spesa alla quale anche il condomino distaccato deve contribuire.

Indicativa in tal senso è una pronuncia che, benché intervenuta prima della riforma, si deve considerare comunque ancora valida per il principio che enuncia, e dal quale si può capire il senso del testo riformato del 1118 c.c. (il legislatore, peraltro, con la riforma non ha fatto altro che formalizzare quelli che erano da tempo gli orientamenti della giurisprudenza sul punto): “Soddisfatta la condizione inerente alla preventiva autorizzazione dell'assemblea per il distacco, ovvero fornita la prova che questo non abbia comportato un aggravio di gestione o uno squilibrio termico, il condomino distaccatosi è sempre obbligato a pagare le spese di conservazione dell'impianto di riscaldamento centrale, mentre invece è esonerato dall'obbligo di corrispondere quelle occorrenti per il suo uso, tranne che il contrario non risulti dal regolamento. Quindi, anche i condomini distaccati devono partecipare alla spesa inerente alla sostituzione della caldaia, posto che l'impianto termico costituisce un accessorio di proprietà comune, nonostante il distacco delle relative diramazioni delle unità immobiliari interessate, non impedendo tale elemento l'eventuale necessità o scelta di riallaccio all'impianto centralizzato stesso (Cassazione Civile, Sezione II, 29 marzo 2007, n. 7708).
Vale a dire che, rientrando la caldaia tra le parti di proprietà comune dell’edificio, il condomino proprietario, benché non utilizzatore, sarà tenuto a contribuire pro quota.

L’alternativa, presa in considerazione da alcune sentenze, è quella di fare in modo di escludere un eventuale riallaccio: ”In materia di condominio, in caso di distacco di alcuni condomini dall'impianto centralizzato di riscaldamento, è legittima la delibera dei condomini rimanenti avente ad oggetto la sostituzione della vecchia caldaia con una nuova dimensionandola per le sole unità immobiliari allacciate all'impianto centralizzato di riscaldamento sì da escludere la possibilità di un futuro allaccio all'impianto comune e da creare un impianto all'esclusivo servizio di taluni dei condomini, quindi solo a loro appartenente, talché solo a loro carico possono essere le spese necessarie all'installazione, alla conservazione ed all'uso dello stesso” (Cassazione Civile, 10.05.2012, n. 7182).

Giuliano R. chiede
sabato 24/10/2015 - Marche
“Abbiamo un unico condominio formato da 4 stabili di diversa fattezza, due sono di 30 appartamenti, uno di 16 appartamenti, e un altro di un solo appartamento.
Parliamo di spese generali per esempio delle spese dell'amministratore e del custode ecc...

Il regolamento dice che tali spese vengono ripartite in base a una tabella millesimale ad hoc per ogni palazzina.
Naturalmente ogni tabella fa capo a 1000 millesimi.
Ma è palese che i singoli millesimi per ogni condomino vengono diversi in quanto, se un condomino è della palazzina con 30 appartamenti i millesimi per esempio sono 25 , ma se è della palazzina da 16 i millesimi sono molti di più, esempio 60 ecc...
Tali spese attualmente vengono ripartite dall'amministratore applicando quei millesimi non su mille ma su 4000, mi spiego.....
Se il condominio tutto, spende per il custode 5000 euro
- a un condomino che su quella tabella ha 60 millesimi la ripartizione la sta facendo 5000/4000 millesimi =1.25 x 60 = 75 euro
- mentre ad un altro condomino con su quella tabella ha 25 millesimi il conto gli viene 5000/4000 millesimi =1.25 x 25 = 31.25 euro
In pratica fa una ripartizione a base 4000.

Ma facendo così non ci pare giusto che un condomino paghi di più di un altro le spese per il custode o l'amministratore.

Noi si crede che il conto invece vada fatto sempre in base 1000, cioè:
se il condominio tutto, spende per il custode 5000 euro
- queste 5000 euro vanno divise x stabile in base agli appartamenti
quindi 5000 diviso 77 appartamenti =64,94
- a un condomino che sta sulla palazzina da 15 appartamenti il conto sarà:
64,94x15 appartamenti=974 su tale cifra applico quella tabella ha 60 millesimi su 1000 e diventa
974/1000 millesimi =0.974 x 60 millesimi = 58.44 euro

Chi ha ragione?”
Consulenza legale i 28/10/2015
La situazione descritta nel quesito potrebbe far ritenere che si sia in presenza di un cosiddetto “supercondominio”, cioè una pluralità di edifici che costituiscono autonomi condomini anche strutturalmente separati (di solito ciascuno con proprio amministratore), ma che hanno spazi e beni di proprietà comune o servizi destinati all'uso comune (una definizione data dalla giurisprudenza è ad esempio la seguente: "Per supercondominio s'intende la fattispecie legale che si riferisce ad una pluralità di edifici, costituiti o meno in distinti condomini, ma compresi in una più ampia organizzazione condominiale, legati tra loro dall'esistenza di talune cose, impianti e servizi comuni (il viale d'accesso, le zone verdi, l'impianto di illuminazione, la guardiola del portiere, il servizio di portierato, eccetera) in rapporto di accessorietà con fabbricati", Cass. civ., sez. II, 14.11.2012 n. 19939).

Si precisa nel quesito che il condominio è unico, con unico amministratore.
Al di là della definizione o meno di supercondominio, si tratta nel caso di specie di ipotesi in cui un condominio ha più edifici, oggi espressamente contemplato dall'art. 1117 bis del codice civile: "Le disposizioni del presente capo si applicano, in quanto compatibili, in tutti i casi in cui più unità immobiliari o più edifici ovvero più condominii di unità immobiliari o di edifici abbiano parti comuni ai sensi dell'articolo 1117").
Appare corretto che nel caso in esame debba trovare applicazione, oltre alle altre norme, anche l'art. 1123, il quale prevede che "Le spese necessarie per la conservazione e per il godimento delle parti comuni dell'edificio, per la prestazione dei servizi nell'interesse comune e per le innovazioni deliberate dalla maggioranza sono sostenute dai condomini in misura proporzionale al valore della proprietà di ciascuno, salvo diversa convenzione".
Il criterio fondamentale è quello della proporzionalità.

Alla luce di tale principio, così come è corretto che esistano diverse tabelle millesimali per ciascun edificio, con cui vanno ripartite le spese attinenti a quel particolare plesso (es. scale, ascensori), è altresì corretto che, per quanto concerne le spese comuni a tutti i proprietari degli appartamenti dislocati nei diversi edifici, si proceda mantenendo la proporzionalità tra il singolo edificio e il complesso edilizio nel suo insieme, per consentire il rispetto del citato art. 1123.

A tal fine, la giurisprudenza ha da tempo elaborato il principio per cui, nei complessi immobiliari dove possa individuarsi un frazionamento di alcuni servizi ma vi siano altresì servizi generali comuni a tutti, questi ultimi vadano trattati come facenti parte di un unico condominio, con applicazione delle norme relative: in tale caso, suggerisce ad esempio una pronuncia della Suprema Corte, la ripartizione delle spese di gestione deve essere calcolata facendo riferimento a "due tabelle, delle quali una si riferisce al valore di ogni singolo edificio nei confronti degli altri, e l'altra che ripartisce, poi, tale quota tra i condomini di ogni singolo, in misura proporzionale alla proprietà di ciascuno" (Cass. civ., 16.2.1996, n. 1206).

Nel caso di specie, appare certamente più corretta la seconda delle esposte metodologie di ripartizione delle spese, poiché la prima tende a stravolgere la reale proporzione tra i valori delle distinte proprietà immobiliari, ponendosi in aperto contrasto con il primo comma dell'art. 1123.

Tuttavia, appare consigliabile adottare una vera e propria tabella che regolamenti la suddivisione delle spese comuni a tutti gli edifici tenendo conto anche del valore reciproco degli stessi. In altre parole, dovrebbero esistere 5 tabelle, una per le spese comuni ai quattro edifici (una "tabella generale" di proprietà, su base 1000), e poi le 4 tabelle di proprietà ad hoc per ciascun edificio.

E' possibile adottare la nuova tabella in assemblea, senza la necessità di avere l'unanimità dei consensi: secondo giurisprudenza pacifica è sufficiente la maggioranza qualificata di cui all'art. 1136 c.c., comma 2 (come ha stabilito la Corte di Cassazione a Sezioni Unite, sentenza 9.8.2010, n. 18477 e successive sentenze conformi, quali Cass. civ., sez. II, 26.2.2014, n. 4569). Si veda anche quanto sancisce il nuovo art. 69 delle disposizioni di attuazione del codice civile.
In alternativa, i condomini possono agire in via giudiziale per far redigere ad un giudice la tabella, sul presupposto che la suddivisione attuale delle spese comuni non rispetta il principio fondamentale dell'art. 1123 c.c.

Si ponga attenzione al fatto che, però, se esiste un regolamento condominiale di tipo contrattuale (redatto dal costruttore del complesso edilizio e recepito in tutti gli atti d'acquisto delle varie unità immobiliari, oppure deliberato dall'unanimità di tutti i 77 condomini), esso potrebbe validamente prevedere regole anche in contrasto con il principio di proporzionalità di cui al primo comma dell'art. 1123. In tal caso, l'unica alternativa è quella di ottenere una modifica - questa sì, all'unanimità - del regolamento condominiale.

Alvise F. chiede
venerdì 04/07/2014 - Estero
“Buongiorno, vi presento il caso di due mansarde all'ultimo piano di un condominio anni Settanta, sul tetto del quale non esiste, sotto tegola, né guaina impermeabilizzante né alcun isolamento termico. Tali mancanze causano da alcuni anni, nelle due mansarde, estese ed invincibili formazioni di muffa e occasionali infiltrazioni di acqua piovana. L'assemblea condominiale ha deliberato di risolvere con piccoli rattoppi soltanto le infiltrazioni d'acqua, ma ha respinto la proposta, presentata dal proprietario di una delle due mansarde, di effettuare sul tetto lavori di impermeabilizzazione e coibentazione termica, che secondo il responso di varie ditte sono i soli che permetterebbero di debellare le muffe. Anche il proprietario dell'altra mansarda, nonostante le pressanti richieste dell'inquilino, ha votato contro la proposta. Chiedo: vi è la possibilità di costringere il condominio a effettuare i lavori di impermeabilizzazione e coibentazione del tetto? Vi sono precedenti sentenze richiamabili?”
Consulenza legale i 05/07/2014
Il tetto costituisce parte comune dell'edificio ai sensi dell'art. 1117 del c.c. e pertanto le spese inerenti alla sua manutenzione ordinaria e straordinaria gravano su tutti i condomini, che ripartiranno tali oneri in base ai millesimi di proprietà (art. 1123 del c.c.).
Il caso di specie vede una situazione in cui l'omessa manutenzione decennale del tetto condominiale ha causato e sta causando danni all'interno di due mansarde in proprietà esclusiva di due diversi condomini.
Appare evidente che il comportamento tenuto dal condominio nella vicenda, la cui assemblea ha respinto la proposta di effettuare i lavori necessari per ovviare ai danni che si continuano a produrre nelle mansarde, è lesivo degli artt. 2043 e 2051 c.c. e, in generale, del principio di buona fede.
L'art. 2043 prevede la responsabilità extracontrattuale come fonte dell'obbligo del risarcimento dei danni e l'art. 2051 sancisce che "Ciascuno è responsabile del danno cagionato dalle cose che ha in custodia, salvo che provi il caso fortuito".
Ricade, quindi, sul condominio il dovere di custodia delle parti comuni dell'edificio, quali appunto il tetto, e di conseguenza la responsabilità per i danni causati dall'omessa custodia e manutenzione di tali parti comuni.
Una sentenza significativa sul punto è quella della Corte di cassazione, n. 12211/2003: “Il condominio di un edificio, quale custode dei beni e dei servizi comuni, essendo obbligato ad adottare tutte le misure necessarie affinché le cose comuni non rechino pregiudizio ad alcuno, risponde in base all'art. 2051 cod. civ. dei danni da queste cagionati alla porzione di proprietà esclusiva di uno dei condòmini, ancorché i danni siano imputabili ai vizi edificatori o dello stabile comportanti la concorrente responsabilità del costruttore-venditore (ex art. 1669 cod. civ.), non potendosi equiparare i difetti originari dell'immobile al caso fortuito, che costituisce l'unica causa di esonero del custode dalla responsabilità dell'art. 2051”.
Il condominio non si potrà difendere asserendo di non essere stato a conoscenza della gravità della situazione, posto che l'assemblea condominiale è stata resa edotta e consapevole della stretta necessità di provvedere ai lavori in questione, nonché del fatto che la loro mancata esecuzione è fonte di continui danni.
Il condominio, quindi, prima che il pregiudizio alle mansarde si aggravi ulteriormente, dovrebbe prudenzialmente avviare i lavori che i tecnici hanno reputato necessari per la risoluzione definitiva del problema.
Se ciò non dovesse succedere, i proprietari danneggiati potranno agire in giudizio nei confronti del condominio.
Le azioni consigliabili, precedute da una diffida al condominio ad ovviare agli inconvenienti causati dalle infiltrazioni sul tetto condominiale, sono:
- un preliminare accertamento tecnico preventivo (cosiddetta "A.T.P.", art. 696 del c.p.c.), con cui il ricorrente chiede che un perito incaricato dal tribunale accerti in una perizia svolta in contraddittorio lo stato dei luoghi, la gravità e la fonte dei danni. La perizia può fungere da base per una trattativa (art. 696 bis del c.p.c.) oppure essere utilizzata in un successivo giudizio di merito;
- in alternativa, è possibile esperire una azione ex art. 1172 del c.c., denuncia di danno temuto, i cui presupposti sono dati da un danno certo già verificatosi, ovvero anche da un ragionevole pericolo che il danno si verifichi: con questa azione, si mira ad ottenere che il giudice ordini con suo provvedimento di ovviare al pericolo (ad esempio, ordinando l'esecuzione del lavoro di permeabilizzazione);
- ancora, è ipotizzabile un ricorso ex art. 700 del c.p.c. diretto ad ottenere che sia ordinata l'esecuzione dei lavori al tetto per tutelare il bene primario di abitare in un ambiente di vita salubre, privo di fattori potenzialmente pregiudizievoli della integrità psicofisica dell'individuo: quando si tratti di diritto alla salute, il pregiudizio affermato è da considerarsi sempre irreparabile e imminente.

Enzo R. chiede
domenica 01/12/2013 - Lazio
“Salve, nel Luglio del 2006, insieme ad altri 2 condomini, nonostante il parere contrario dell'assemblea condominiale, mi sono distaccato dall'impianto centralizzato di riscaldamento. L'assemblea condominiale mi ha negato il permesso al distacco perché afferma che il nostro regolamento condominiale, essendo contrattuale, proibisce modifiche all'impianto in argomento.
Nel Giugno del 2007 il condominio ha deciso (comma 5 art. 26 legge 10/91), fermo restando l'impianto termico centralizzato, il passaggio alla gestione contabilizzata del riscaldamento ed in quell'occasione noi accettammo di pagare un contributo ai consumi pari al 20% .
In quell'assemblea facemmo mettere a verbale che la decisione presa dall'assemblea di passare alla contabilizzazione del calore era illegittima proprio perché il nostro regolamento condominiale vieta modifiche all'impianto in argomento.
Da allora, al pari di tutti gli altri condomini, abbiamo sempre pagato quel contributo calcolato anno per anno in base a quel consumo di gas che non è imputabile direttamente ai singoli che usufruiscono del riscaldamento centralizzato (“dispersione del calore”).
Ora, in base alla nuova formulazione dell'articolo 1118 comma 4, abbiamo deciso di non contribuire più ai consumi dell'impianto centralizzato e tutti gli altri condomini non sono d'accordo.
Vorrei avere da voi un parere relativamente al permesso che mi è stato negato al distacco e alla decisione di non contribuire più alle spese di cui sopra.
Cordiali saluti.”
Consulenza legale i 11/12/2013
La recente riforma della disciplina del condominio (legge 220/2012) ha toccato anche il tema del diritto del singolo condomino al distacco dall'impianto di riscaldamento centralizzato. Codificando un orientamento giurisprudenziale che si era consolidato nel tempo, il legislatore ha stabilito che il condomino può rinunciare all’utilizzo dell’impianto centralizzato di riscaldamento o di condizionamento, a condizione che dal suo distacco non derivino squilibri di funzionamento o aggravi di spesa per gli altri condomini. In tal caso è previsto che il rinunziante concorra al pagamento delle sole spese per la manutenzione straordinaria dell’impianto e per la sua conservazione e messa a norma.

La giurisprudenza della Suprema Corte aveva già raggiunto lo stesso risultato conseguito dalla nuova formulazione dell'art. 1118 c.c., configurando negli anni un vero e proprio diritto al distacco dall’impianto centralizzato, senza necessità di autorizzazione o approvazione da parte dell’assemblea: l'unico limite stabilito era che il distacco non avrebbe dovuto comportare un aggravio di spese e inconvenienti alla funzionalità dell’impianto.
Addirittura, anche se parte della dottrina e della giurisprudenza (v. Cassazione 21.5.2001, n. 6923) non condivideva questa tesi, la Cassazione, con sent. n. 19893 del 29 settembre 2011, ha sostenuto che il diritto del singolo condomino al distacco non possa essere limitato nemmeno da un’eventuale norma del regolamento condominiale di natura contrattuale che impedisca tale distacco. La decisione venne fondata su ragioni legate al "risparmio energetico", come si rileva in un brano della sentenza: "proprio l’ordinamento ha mostrato di privilegiare, al preminente fine d’interesse generale rappresentato dal risparmio energetico, dette trasformazioni e, nei nuovi edifici, l’esclusione degli impianti centralizzati e la realizzazione dei soli individuali”.

Tuttavia, la nuova formulazione dell'art. 1118 c.c. trova applicazione alle fattispecie verificatesi dopo la sua entrata in vigore e pertanto, visto che nel caso di specie il distacco avvenne nel luglio 2006, si deve guardare ad altre norme vigenti all'epoca.
L’art. 26 punto 2 della legge 10/91 consentiva originariamente (rif. art. 8 della stessa legge) l’approvazione, con maggioranze ridotte, del progetto di trasformazione dell’impianto centralizzato di riscaldamento in impianti unifamiliari a gas per il riscaldamento e la produzione di acqua calda sanitaria. In particolare, la norma recitava: "Per gli interventi sugli edifici e sugli impianti volti al contenimento del consumo energetico ed all'utilizzazione delle fonti di energia di cui all'articolo 1, individuati attraverso un [attestato di prestazione energetica] o una diagnosi energetica realizzata da un tecnico abilitato, le pertinenti decisioni condominiali sono valide se adottate con la maggioranza degli intervenuti, con un numero di voti che rappresenti almeno un terzo del valore dell'edificio". La decisione adottata nel luglio 2006 (tralasciando per ora la contrarietà al regolamento contrattuale del condominio) avrebbe dovuto rispettare queste maggioranze previste per legge.
L’art. 7 del D. Lgs. 29.11.2006 n. 311 (modificato dall’art. 27 comma 22 della l. 23.7.2009, n. 99) ha poi modificato tale maggioranza prevedendo che le decisioni condominiali erano valide se adottate con la maggioranza semplice delle quote millesimali, rappresentate dagli intervenuti in assemblea.
Pertanto, la decisione presa nel luglio 2006 appare illegittima:
1. perché in contrasto con il regolamento condominiale, di natura contrattuale (salvo non si ritenga di seguire il diverso orientamento di alcune pronunce);
2. perché (almeno si presume) non venne presa con le maggioranze previste in base alla legge all'epoca vigente.
E' evidente, comunque, che poiché ora il diritto al distacco è stato previsto per legge, il condominio potrebbe rivalersi sul condomino "distaccato" solo provando eventuali danni causati dal distacco, e non potrebbe ad oggi obbligarlo a tornare a fruire dell'impianto comune.

La decisione del condominio di passare alla contabilizzazione del calore, che si presume presa con le maggioranze previste dal 5 comma dell'art. 26, legge 10/91 (testo vigente nel 2007: "per le innovazioni relative all'adozione di sistemi di termoregolazione e di contabilizzazione del calore e per il conseguente riparto degli oneri di riscaldamento in base al consumo effettivamente registrato, l'assemblea di condominio decide a maggioranza in deroga agli articoli 1120 e 1136 del codice civile"), potrebbe essere illegittima se contrastante con il regolamento condominiale. Va accertato, mediante attenta lettura, se questo vieti solamente la trasformazione dell'impianto di riscaldamento o qualsiasi intervento sullo stesso, compresa la contabilizzazione.
Per quanto riguarda la decisione attuale di non contribuire più alle spese relative alla "dispersione di calore", si deve analizzare la nuova formulazione dell'art. 1118, comma 4. Come visto, essa prevede che restino a carico del condomino "distaccato" le sole spese per la manutenzione straordinaria dell'impianto e per la sua conservazione e messa a norma: il contributo al consumo è configurabile come spesa ordinaria e pertanto appare legittimo che il condomino che non fruisce dell'impianto centralizzato chieda di non doverlo più versare.

N. B. chiede
mercoledì 25/10/2023
“Nel 1960 i miei genitori acquistarono un appartamento in un condominio di nuova costruzione del piano Ina Casa direttamente dall'ente, che era dotato di impianti di riscaldamento individuali a mezzo stufe. Nel 1969 i condomini deliberarono di dotarlo di impianto centralizzato con il voto contrario di mio padre. L'impianto fu costruito installando la caldaia nel Deposito Cicli e ai sensi dell'art. 1121 mio padre non partecipò alla spesa pretendendo però che passassero i tubi lungo i muri perimetrali e fossero previste delle uscite in modo da garantire la possibilità di un allaccio in fase successiva, peraltro mai avvenuto. Dalla sua installazione non mi sono mai state addebitate spese relative al suddetto impianto. La scorsa estate, a seguito di un contenzioso relativo all'assenza di tabelle millesimali valide e aggiornate, sono state redatte delle tabelle millesimali relative alla suddivisione delle spese di riscaldamento per i cosiddetti "consumi involontari -manutenzione della caldaia". Le stesse presentano il calcolo dei millesimi anche per il mio appartamento, non sono ancora state approvate ma l'amministratore ha inserito nel bilancio consuntivo un importo di spesa relativo ai suddetti consumi involontari, sostenendo che al mio caso si applica la fattispecie del distacco in quanto presenti le uscite all'interno del mio appartamento.
Chiedo se sia opportuno impugnare le tabelle così redatte
Se debba partecipare alle spese relative ai consumi involontari come sostenuto dall'amministratore.
A supporto di quanto sopra sono in possesso solo di appunti personali di mio padre nonché della copia di una lettera che non so se a suo tempo fu recapitata all'allora amministratore che fa riferimento alla richiesta di prevedere le uscite in riferimento all'art. 1121
Resto in attesa e saluto distintamente”
Consulenza legale i 01/11/2023
A parere di chi scrive nel caso prospettato non può trovare applicazione la normativa sul distacco.
Come è noto in forza della presunzione prevista dall’art. 1117 del c.c. nel momento in cui si diviene proprietari di una unità immobiliare ricompresa in un edificio condominiale, si diviene nel contempo comproprietari di tutti gli impianti già presenti nello stabile, se ovviamente il titolo da cui deriva il nostro diritto di proprietà sulla unità immobiliare non disponga diversamente. Argomentando ai sensi degli artt. 1118 e 1119 del c.c. possiamo dire che la comproprietà sugli impianti condominiali è indivisibile quindi non può sciogliersi (salvo casi particolari che qui non rilevano) e il singolo condomino non può rinunziare al suo diritto sulle parti comuni né sottrarsi all’obbligo di pagamento degli oneri condominiali che appunto derivano da tale comproprietà.

Un evidente applicazione pratica dei principi appena illustrati è rappresentata dalla fattispecie del distacco dall’impianto di riscaldamento comune già esistente nello stabile condominiale, ipotesi oggi espressamente disciplinata dal 4° co. dell’art. 1118 del c.c., come modificato dalla L. n.220/2012. Tale comma introduce il diritto soggettivo del singolo proprietario di potersi distaccare dall’impianto centralizzato di riscaldamento a condizione che ciò non comporti squilibri termici o aggravi di spesa per gli altri proprietari. Tuttavia la norma precisa repentinamente che il condomino distaccante rimane obbligato a corrispondere le spese di manutenzione straordinaria dell’impianto comune e quelle relative alla sua conservazione e messa norma, tra cui rientrano per giurisprudenza assolutamente costante anche le spese riconducibili ai consumi involontari di forza calore.
Il motivo per cui il legislatore della riforma condominiale ha optato per mantenere in capo al condomino distaccante tali oneri di spesa ci viene spiegato dalla stessa giurisprudenza che riconobbe il diritto al distacco ben prima della sua introduzione a livello legislativo: il condomino pur se distaccato dall’ impianto centralizzato di riscaldamento ne rimane comunque comproprietario assieme agli altri proprietari e quindi è tenuto a pagare le spese di manutenzione straordinaria e quelle relative alla sua conservazione e messa a norma, nella cui categoria rientrano gli oneri attinenti al consumo involontario della forza calore.

Come però è già stato in parte accennato, la disciplina prevista dall’art. 1118 del c.c. è applicabile nel caso in cui l’impianto di riscaldamento centralizzato sia presente nello stabile nel momento in cui il singolo condomino acquisisce la proprietà del suo appartamento. Nel caso prospettato, tuttavia, l’introduzione dell’impianto di riscaldamento centralizzato è avvenuto diversi anni dopo l’acquisto della proprietà da parte del defunto padre dell’autrice del quesito: in questo caso entra in gioco la disciplina delle innovazioni prevista dagli artt. 1120 e 1121 del c.c.
Per innovazione si intende quell’opera nuova e prima non esistente che viene introdotta all’ interno dello stabile condominiale e che trasforma radicalmente la cosa comune: si pensi, per fare degli esempi, alla installazione di un ascensore in un palazzo che prima ne era privo, oppure, proprio come nel caso prospettato, l’installazione di un impianto riscaldamento centralizzato in uno stabile dove prima vi era un vecchio riscaldamento a stufa individuale.

Come norma generale vigente nella sostanza anche all’epoca dei fatti narrati il 1° co. dell’art.1120 del c.c. dispone che i condomini riuniti in assemblea possono deliberare con le maggioranze previste dalla legge tutte le innovazioni che ritengono necessarie tese al miglioramento, al maggior rendimento e al miglior uso della cosa comune. Per il principio espresso dal 1° co. dell'art. 1137 del c.c. se si raggiungono le maggioranze previste dalla legge il gruppo di condomini dissenzienti deve sottostare alla volontà espressa dalla maggioranza in assemblea e accettare la realizzazione della innovazione e il pagamento degli oneri condominiali che ne conseguono. Tuttavia in forza di questo pagamento obbligato, una volta che l’innovazione è stata realizzata e messa in opera anche il condomino contrario alla sua realizzazione in forza di quanto prevede il già citato art.1117 del c.c.ne diviene comproprietario.

Una importante eccezione al meccanismo appena descritto a tutela della minoranza dissenziente è rappresentata dall’art.1121 del c.c.. Tale norma dispone che quando la innovazione importi una spesa particolarmente gravosa e consista in opere, impianti o manufatti suscettibili di utilizzazione separata (come appunto l’impianto di riscaldamento centralizzato descritto), il proprietario che non intende tranne vantaggio è esonerato da ogni contributo e spesa. L’ultimo comma dell’art. 1121 del c.c. fa comunque salva la facoltà esercitabile in qualsiasi momento per il condomino dissenziente di partecipare ai vantaggi della innovazione successivamente alla sua realizzazione contribuendo alle spese di realizzazione e manutenzione dell’opera.

L’ art. 1121 del c.c. ha tra le altre cose un effetto estremamente importante per il caso descritto in quanto come ha chiarito bene la giurisprudenza (Cass.Civ. Sez.II, n.10850 del 08.06.2020 e Cass. Civ.,Sez.II, n.20713 del 04.09.2017), l’ esercizio del dissenso alla realizzazione della innovazione gravosa (o voluttuaria) da parte di un condomino o di un gruppo di essi impedisce che essi possono considerarsi comproprietari ai sensi dell’art. 1117 del c.c. dell’impianto poi realizzato, fatta salva comunque la possibilità di acquisirne una quota di proprietà in un momento successivo, esercitando la facoltà prevista dall’ ultimo comma dell’art.1121 del c.c., di cui si è già detto poco sopra.

Per tale motivo nel caso specifico, visto che il padre dell’autrice del quesito nel rispetto di quanto prevedeva il testo allora vigente dell’art.1121 del c.c. esercitò a suo tempo in maniera del tutto corretta il dissenso alla realizzazione dell'impianto di riscaldamento centralizzato, facendosi solo salva la possibilità di esercitare in un tempo futuro la facoltà di partecipare ai successivi vantaggi, facoltà tra l’altro mai esercitata nel concreto, egli non poteva considerarsi comproprietario dell’ impianto di riscaldamento, come certamente non possono considerarsi comproprietari di tale impianto i suoi eredi e aventi causa.
Quanto detto impedisce che oggi l’amministratore del condominio possa pretendere che l’autrice del quesito, e ovvia erede di colui che esercitò il dissenso ex art.1121 del c.c., paghi gli oneri derivanti dal consumo involontario di forza calore, e questo, come si è già detto meglio nella prima parte del parere, per il semplice motivo che tale obbligo di pagamento ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 1118 del c.c. discende sempre e comunque da un diritto di proprietà sull’ impianto comune: ma nel caso specifico, come si è già argomentato, colui che esercitò il dissenso ex art. 1121 del c.c. così come ovviamente la sua erede e avente causa (figlia) non possono considerarsi proprietari dell’impianto di riscaldamento e quindi conseguentemente obbligati a partecipare al pagamento degli oneri di spesa che derivano da tale diritto di comproprietà.

L’autrice del quesito ha quindi buone argomentazioni sostanziali per sostenere la non debenza del pagamento delle spese derivanti dal consumo involontario della forza calore. Tuttavia, nell’ottica di un ipotetico contenzioso con il condominio, sia nella fase di mediazione stragiudiziale che nel successivo giudizio vero e proprio, è importante procurarsi la prova che il suo dante causa (ovvero il padre) esercitò in maniera corretta il dissenso ai sensi dell’art. 1121 del c.c. Non pare che i documenti in possesso dell’autrice del quesito siano sufficienti di per se da soli ad assolvere tale onere probatorio: è opportuno che essi vengano quindi valutati da un legale di fiducia e magari rafforzati con altro materiale, come ad esempio gli estratti delle riunioni di condominio all’epoca della realizzazione dell’ impianto di riscaldamento centralizzato. Se infatti non si riuscisse a raggiungere la prova che il padre ha correttamente esercitato un valido dissenso ex art 1121 del c.c. alla realizzazione dell’impianto di riscaldamento centralizzato, il giudice inevitabilmente dovrebbe presumerlo comune anche all’autrice del quesito così come prevede l’art. 1117 del c.c.: da ciò inevitabilmente ne discenderebbe il pagamento degli oneri derivanti dal consumo involontario della forza calore ed ogni altro onere derivante dalla proprietà dell’ impianto.

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