Brocardi.it - L'avvocato in un click! CHI SIAMO   CONSULENZA LEGALE

Articolo 905 Codice Civile

(R.D. 16 marzo 1942, n. 262)

[Aggiornato al 07/03/2024]

Distanza per l'apertura di vedute dirette e balconi

Dispositivo dell'art. 905 Codice Civile

Non si possono aprire vedute dirette verso il fondo chiuso o non chiuso e neppure sopra il tetto del vicino, se tra il fondo di questo e la faccia esteriore del muro in cui si aprono le vedute dirette non vi è la distanza di un metro e mezzo(1).

Non si possono parimenti costruire balconi o altri sporti, terrazze, lastrici solari e simili, muniti di parapetto che permetta di affacciarsi sul fondo del vicino, se non vi è la distanza di un metro e mezzo tra questo fondo e la linea esteriore di dette opere.

Il divieto cessa allorquando tra i due fondi vicini vi è una via pubblica.

Note

(1) La distanza è quella che intercorre tra il confine del fondo e la parte esterna del muro in cui si aprono le vedute.

Ratio Legis

E' necessario tutelare la riservatezza e la libertà del vicino.

Brocardi

Inspicere in alienum
Ne luminibus officiatur
Ne prospectui officiatur
Prospicere in alienum
Servitus proiciendi

Relazione al Codice Civile

(Relazione del Ministro Guardasigilli Dino Grandi al Codice Civile del 4 aprile 1942)

427 Meno sensibili sono le innovazioni introdotte in tema di vedute o prospetti. Si è lasciata immutata la distanza di un metro e mezzo per le vedute dirette, precisando, tuttavia, che la distanza va osservata anche per le terrazze, per i lastrici solari e simili, muniti di parapetto che permetta di affacciarsi sul fondo del vicino (art. 905 del c.c.). Per le vedute laterali od oblique, invece, soppressa l'inopportuna eccezione contenuta nel secondo comma dell'art. 588 del codice del 1865, la distanza è stata elevata a settantacinque centimetri (art. 906 del c.c.), sembrando insufficiente la distanza di mezzo metro stabilita dal codice anteriore. Si è inoltre precisato (art. 907 del c.c.) che, quando si è acquistato il diritto di avere una veduta diretta verso il fondo del vicino, il proprietario di questo deve osservare, nel fabbricare, la distanza di tre metri non soltanto di fronte, ma anche al di sotto della finestra; se poi questa forma nello stesso tempo veduta obliqua, deve altresì osservare la distanza di tre metri dai lati di essa.

Massime relative all'art. 905 Codice Civile

Cass. civ. n. 7971/2022

Ove sia accertata la comunione di un cortile sito fra edifici appartenenti a proprietari diversi ed allorché fra il cortile e le singole unità immobiliari di proprietà esclusiva non sussista quel collegamento strutturale, materiale o funzionale, ovvero quella relazione di accessorio a principale, che costituisce il fondamento della condominialità dell'area scoperta, ai sensi dell'art. 1117 c.c., l'apertura di una veduta da una parete di proprietà individuale verso lo spazio comune rimane soggetta alle prescrizioni contenute nell'art. 905 c.c. Il partecipante alla comunione del cortile non può, in sostanza, aprire una veduta verso la cosa comune a vantaggio dell'immobile di sua esclusiva proprietà, finendo altrimenti per imporre di fatto una servitù a carico della cosa comune, senza che operi, al riguardo, il principio di cui all'art. 1102 c.c., il quale non è applicabile ai rapporti tra proprietà individuali e beni comuni finitimi, che sono piuttosto disciplinati dalle norme che regolano i rapporti tra proprietà contigue od asservite.

Nel caso di comunione di un cortile sito fra edifici appartenenti a proprietari diversi, l'apertura di una veduta da una parete di proprietà individuale verso lo spazio comune rimane soggetta alle prescrizioni contenute nell'art. 905 c.c., finendo altrimenti per imporre di fatto una servitù a carico della cosa comune, senza che operi, al riguardo, il principio di cui all'art. 1102 c.c., in quanto i rapporti tra proprietà individuali e beni comuni finitimi sono disciplinati dalle norme che regolano i rapporti tra proprietà contigue o asservite; né può invocarsi, al fine di escludere la configurabilità di una servitù di veduta sul cortile di proprietà comune, il principio "nemini res sua servit", il quale trova applicazione soltanto quando un unico soggetto è titolare del fondo servente e di quello dominante e non anche quando il proprietario di uno di essi sia anche comproprietario dell'altro.

Cass. civ. n. 23184/2020

L'eliminazione delle vedute abusive può essere realizzata non solo mediante la demolizione delle porzioni immobiliari per mezzo delle quali si realizza la violazione lamentata, ma anche attraverso la predisposizione di idonei accorgimenti che impediscano di esercitare la veduta sul fondo altrui o attraverso l'arretramento della costruzione, che il giudice può disporre, in alternativa alla demolizione, senza incorrere nel vizio di ultrapetizione, essendo tale decisione contenuta nella più ampia domanda di demolizione. (Cassa con rinvio, CORTE D'APPELLO FIRENZE, 04/12/2018).

Cass. civ. n. 3043/2020

Per configurare gli estremi di una veduta ai sensi dell'art. 900 c.c., conseguentemente soggetta alle regole di cui agli artt. 905 e 907 c.c. in tema di distanze, è necessario che le cd. "inspectio et prospectio in alienum", vale a dire le possibilità di "affacciarsi e guardare di fronte, obliquamente o lateralmente", siano esercitabili in condizioni di sufficiente comodità e sicurezza. Ne consegue che l'assenza di parapetto su una terrazza di copertura di un edificio costituisce elemento decisivo per escludere che l'opera abbia i caratteri della veduta o del prospetto, anche se essa sia di normale accessibilità e praticabilità da parte del proprietario, laddove la praticabilità può valere invece ai fini della qualificazione della situazione come luce irregolare. Per escludere anche questa seconda configurazione giuridica è necessario accertare, avuto riguardo all'attuale consistenza e destinazione dell'opera, oggettivamente considerata, ed alle sue possibili e prevedibili utilizzazioni da parte del proprietario, se e quali limitazioni, ancorché diverse e minori di quelle derivanti da un'apertura avente i caratteri della veduta o del prospetto, possano discenderne a carico della libertà del fondo vicino altrui. (Cassa con rinvio, CORTE D'APPELLO TORINO).

Cass. civ. n. 26807/2019

Nel caso di comunione di un cortile sito fra edifici appartenenti a proprietari diversi, l'apertura di una veduta da una parete di proprietà individuale verso lo spazio comune rimane soggetta alle prescrizioni contenute nell'art. 905 c.c., finendo altrimenti per imporre di fatto una servitù a carico della cosa comune, senza che operi, al riguardo, il principio di cui all'art. 1102 c.c., in quanto i rapporti tra proprietà individuali e beni comuni finitimi sono disciplinati dalle norme che regolano i rapporti tra proprietà contigue o asservite; né può invocarsi, al fine di escludere la configurabilità di una servitù di veduta sul cortile di proprietà comune, il principio "nemini res sua servit", il quale trova applicazione soltanto quando un unico soggetto è titolare del fondo servente e di quello dominante e non anche quando il proprietario di uno di essi sia anche comproprietario dell'altro.

Cass. civ. n. 17480/2018

In tema di rispetto delle distanze legali per l'apertura di luci e vedute, le prescrizioni contenute nell'art. 905 c.c. si applicano anche quando lo spazio su cui si apre la veduta sia comune, in quanto in comproprietà tra le parti in causa, poiché la qualità comune del bene su cui ricade la veduta non esclude il rispetto delle distanze predette.

Cass. civ. n. 15070/2018

L'art. 905 c.c., che salvaguarda il fondo finitimo dalle indiscrezioni attuabili mediante l'apertura di vedute negli edifici vicini al fine di proteggere interessi esclusivamente privati, non ha correlazione alcuna con l'art. 873 c.c. che, diretto a tutelare, evitando la formazione di intercapedini dannose, interessi generali di igiene, decoro e sicurezza negli abitati, consente agli enti locali di stabilire distanze maggiori secondo una valutazione particolare dei detti interessi collettivi. Ne consegue che non vi è spazio per una integrazione della previsione dell'art. 905 c.c. con quelle eventuali più restrittive in tema di distanze tra costruzioni contenute nei regolamenti locali, deponendo in tal senso anche l'assenza nel testo della norma di un rinvio – che è, invece, contemplato nell'art. 873 c.c. – ai regolamenti in questione.

Cass. civ. n. 2533/2017

Nell'ipotesi in cui il fondo su cui insiste il fabbricato sul quale si vuole aprire una veduta e quello confinante, edificato o non, sul quale la stessa è destinata ad essere esercitata, siano siti a livelli o a piani diversi, la distanza minima di m. 1,50 che la veduta deve rispettare dal confine del fondo finitimo, ai sensi dell'art. 905, comma 1, c.c., deve essere misurata tra la soglia della veduta, o faccia esteriore del muro in cui la stessa si apre, ed il piano ideale elevato perpendicolarmente sulla linea di confine tra i due fondi.

Cass. civ. n. 4967/2015

La disciplina delle distanze tra fabbricati, in quanto diretta a tutelare interessi generali di igiene, decoro e sicurezza degli abitati, pur dettata in via generale dall'art. 873 cod. civ. (che richiede una distanza non minore di tre metri), può essere resa più rigorosa dalle disposizioni dei regolamenti locali, mentre la disciplina della distanza delle vedute dal confine, in quanto finalizzata alla tutela del mero interesse privato alla salvaguardia del fondo vicino dalle indiscrezioni dipendenti dalla loro apertura, trova la sua fonte esclusivamente nell'art. 905 cod. civ. (che richiede una distanza di un metro e mezzo), salvo che la maggior distanza delle costruzioni, prevista dai regolamenti locali, sia riferita specificamente al confine, nel qual caso le norme regolamentari regolano anche la distanza delle vedute dal confine.

Cass. civ. n. 16200/2013

La qualificazione di una strada come pubblica, ai fini dell'esonero dal rispetto delle distanze nell'apertura di vedute dirette e balconi, ex art. 905, terzo comma, c.c., esige che la sua destinazione all'uso pubblico risulti da un titolo legale, che può essere costituito non solo da un provvedimento dell'autorità o da una convenzione con il privato, ma anche dall'usucapione, ove risulti dimostrato l'uso protratto del bene privato da parte della collettività per il tempo necessario all'acquisto del relativo diritto, restando peraltro escluso che, a tal fine, rilevi un uso limitato ad un gruppo ristretto di persone che utilizzino il bene "uti singuli", essendo necessario un uso riferibile agli appartenenti alla comunità in modo da potersi configurare un diritto collettivo all'uso della strada e non un diritto meramente privatistico a favore solo di alcuni determinati soggetti.

Cass. civ. n. 13000/2013

L'esonero dall'obbligo delle distanze per l'apertura di vedute tra fondi separati da una via pubblica, di cui all'art. 905, terzo comma, cod. civ., non opera nel caso di vedute laterali od oblique aperte sul fondo del vicino, restando tale ipotesi soggetta al rispetto delle distanze stabilite dall'art. 906 cod. civ., ancorché si tratti di edifici costruiti in adesione sullo stesso lato della strada pubblica e l'apertura dia luogo altresì ad una veduta diretta su tale via, avendo, del resto, una strada pubblica una larghezza di regola non inferiore a settantacinque centimetri e rivelandosi inopportuno che l'eventuale persiana, di cui sia munita la finestra, si apra troppo a ridosso della proprietà limitrofa.

La cessazione del divieto di aprire vedute dirette e balconi verso il fondo del vicino a distanza inferiore a un metro e mezzo, agli effetti dell'art. 905, terzo comma, cod. civ., opera sia quando una via pubblica separi i due fondi vicini rendendoli fronteggianti, sia quando essa si ponga, rispetto alle vedute, ad angolo retto, ma non anche quando i fondi siano allineati lungo la medesima via pubblica, dovendosi ravvisare la "ratio" del venir meno del divieto in oggetto nella circostanza che la presenza della strada pubblica impedisce la contiguità dei fondi, la quale costituisce il presupposto della tutela della riservatezza delle proprietà limitrofe.

Cass. civ. n. 10167/2011

In tema di distanze per l'apertura di vedute e balconi, la semplice esistenza di un terreno sopraelevato, senza che vi sia un parapetto che consenta l'affaccio sul fondo del vicino, esclude l'obbligo di distanziarsi dal fondo predetto ai sensi dell'art. 905 c.c.. Tuttavia, al fine di valutare l'idoneità del parapetto a consentire di guardare nell'altrui fondo, è rilevante la posizione reciproca delle due proprietà, atteso che, nell'ipotesi in cui il fondo dal quale si esercita la veduta sia in posizione sopraelevata, la "prospectio" ed a maggior ragione la "inspectio" possono risultare agevolate anche senza l'apporto determinante di un parapetto ad altezza normale, potendo non essere necessario che la parte si appoggi al manufatto al fine di esercitare la visione circolare intorno a sé. (Nella specie, la Corte ha cassato la pronuncia di secondo grado che, in presenza di terreno sopraelevato, aveva ritenuto disagevole l'affaccio da un parapetto di 50 cm. sormontato da fioriere di cemento).

Cass. civ. n. 220/2011

Ai fini della distinzione tra vedute dirette, laterali ed oblique, assume rilievo decisivo la posizione di chi guarda, in particolare quando siano possibili più posizioni di affaccio. Con riferimento ai balconi, pertanto, rispetto ad ogni lato di questo si avranno una veduta diretta, ovvero frontale, e due laterali o oblique, a seconda dell'ampiezza dell'angolo; ne consegue che, pur essendo la tutela delle vedute limitata all'arco massimo di centottanta gradi, con conseguente esclusione di quelle c.d. retroverse, può verificarsi che una delle vedute oblique esercitabili da un balcone sia retroversa rispetto alla parete in cui il medesimo è collocato, ma non per questo sia illegittima.

Cass. civ. n. 4222/2009

L'ultimo comma dell'art 905 cod. civ., il quale esclude l'obbligo di osservare una distanza minima per l'apertura di vedute dirette verso il fondo del vicino quando tra i due fondi contigui vi sia una via pubblica, non presuppone necessariamente che questa separi i fondi medesimi e che questi si fronteggino, ma richiede soltanto che essi siano confinanti con la strada pubblica, indipendentemente dalla loro reciproca collocazione, sicché i fondi possono anche essere contigui o trovarsi ad angolo retto; ciò in quanto l'esonero dal divieto è giustificato dall'identificazione della strada pubblica come uno spazio dal quale chiunque può spingere liberamente lo sguardo sui fondi adiacenti.

Cass. civ. n. 25188/2008

In tema di limitazioni legali alla proprietà, l'apertura di un ballatoio di collegamento tra la pubblica via e l'ingresso delle abitazioni situate al primo e al secondo piano può essere qualificata veduta ed assoggettata al regime giuridico del rispetto delle distanze fissato nell'art. 905 c.c., quando sia idonea, per ubicazione, consistenza e struttura, a consentire l'affaccio sul fondo vicino.

Cass. civ. n. 23572/2007

In tema di distanze per l'apertura di vedute dirette e balconi, ai sensi dell'articolo 905 c.c., la semplice esistenza di un terreno sopraelevato posto a confine, senza che vi sia un «parapetto» che permetta di affacciarsi sul fondo del vicino, esclude l'esistenza dell'obbligo di distanziarsi da detto fondo, atteso che solo con la costruzione del parapetto si realizza la «veduta». (Nella specie la S.C. ha rigettato la doglianza del ricorrente. secondo cui la corte di merito, nel ritenere violate le distanze, per avere egli costruito un parapetto a confine del lastrico solare della controparte, non aveva considerato che essendo il proprio fondo in posizione sopraelevata rispetto all'altro, la veduta sussiste indipendentemente dal parapetto).

Cass. civ. n. 15430/2006

In tema di limitazioni legali della proprietà, costituisce veduta diretta sul fondo del vicino ogni apertura che consenta di affacciarsi e guardare frontalmente su di esso da uno qualsiasi dei lati, essendo riservato al giudice di merito verificare, con accertamento di fatto insindacabile in sede di legittimità, se la stessa consenta lo sguardo frontale sul fondo del vicino.

Cass. civ. n. 15885/2005

Tenuto conto della ratio dell'art. 905 c.c., consistente nell'esigenza di salvaguardia della riservatezza del fondo del vicino, qualsiasi intervento umano di modifica dello stato dei luoghi che comporti condizioni oggettive stabili per esercitare un comodo affaccio sulla proprietà confinante può dar luogo, in concorso con le altre condizioni di legge, alla creazione di una servitù di veduta, a nulla rilevando che il fondo su cui l'intervento é stato realizzato sia sopraelevato rispetto all'altro ovvero che le opere eseguite non siano destinate in via esclusiva all'esercizio della veduta, laddove comunque le stesse, per ubicazione, consistenza e struttura, in luogo di una vista precaria e fugace, consentano il comodo affaccio, permettendo ad una persona di media costituzione fisica la sosta e l'osservazione, in modo normale ed in condizioni di assoluta sicurezza, verso la proprietà sottostante.

Cass. civ. n. 6576/2005

In materia di diritti reali, l'obbligo del rispetto delle distanze legali trova applicazione anche quando la veduta viene esercitata dal piano terreno di una costruzione (nella fattispecie, dal portico inserito nel fabbricato), non occorrendo che l'apertura sia in tal caso munita di parapetto, come richiesto dall'art. 905 c.c. soltanto con riferimento a «balconi o altri sporti, terrazze, lastrici solari e simili», essendo disagevole e pericoloso, avvenendo dall'alto, l'affaccio dai medesimi in assenza di protezione.

Cass. civ. n. 13261/2004

In tema di condominio, ciascun condomino è libero di servirsi della cosa comune, anche per fine esclusivamente proprio, traendo ogni possibile utilità, purché non alteri la destinazione della cosa comune e consenta un uso paritetico agli altri condomini. Ne consegue che l'installazione di una ringhiera (o parapetto) su di un lastrico solare che permetta di affacciarsi su spazi condominiali (nella specie, cortili comuni destinati a dare aria e luce agli appartamenti sottostanti che vi prospettano) costituisce esercizio del diritto di proprietà e non di quello di servitù, per cui non trovano applicazione le norme che disciplinano le vedute su fondi altrui (art. 905 c.c.), bensì quelle che consentono al condomino di servirsi delle parti comuni per il miglior godimento della cosa, senz'altro limite che l'obbligo di rispettare la destinazione, di non alterare la stabilità e il decoro architettonico dell'edificio e di non ledere i diritti degli altri condomini.

Cass. civ. n. 13485/2000

L'esenzione dall'obbligo del rispetto della distanza stabilita dall'ultimo comma dell'art. 905 c.c. per l'apertura di vedute dirette verso il fondo del vicino non è limitata al solo caso dell'inserimento tra i due fondi di una via pubblica, ma va estesa anche al caso in cui tra le due proprietà fronteggiantisi esista una strada privata soggetta a servitù pubblica di passaggio, al caso cioè in cui il pubblico transito si eserciti su una porzione di terreno appartenente ad uno dei. frontisti. Quindi ciò che rileva ai fini della esenzione, non è l'appartenenza del suolo, su cui il passaggio si esercita, ad un ente pubblico o ad un privato, mala pubblicità dell'uso al quale quel passaggio è destinato.

Cass. civ. n. 8341/1998

Perché si possa , parlare di strada pubblica ai fini dell'esonero dal rispetto delle distanze nell'apertura di vedute dirette e balconi, ex art. 905, terzo comma, c.c., occorre che la destinazione della strada all'uso pubblico risulti da un titolo legale, il quale può esser costituito oltreché da un provvedimento dell'autorità o da una convenzione con il privato anche dall'usucapione ove risulti provato l'uso protratto del bene privato da parte della collettività per il tempo necessario all'acquisto del relativo diritto, restando peraltro escluso che a tal fine rilevi un uso limitato ad un gruppo ristretto di persone che utilizzino il bene uti singuli essendo necessario un uso riferibile agli appartenenti alla comunità in modo da potersi configurare un diritto collettivo all'uso della strada e non un diritto meramente privatistico a favore solo di alcuni determinati soggetti.

Cass. civ. n. 4401/1997

A differenza dell'art. 873 c.c. che è inteso ad evitare la formazione di intercapedini dannose e a tutelare gli interessi generali dell'igiene, decoro e sicurezza degli abitanti, consentendo agli enti locali di stabilire distanze maggiori, secondo una valutazione particolare degli interessi collettivi, l'art. 905 c.c., che stabilisce le distanze per l'apertura di vedute dirette e balconi, è diretta a salvaguardare i fondi dalle indiscrezioni dipendenti dall'apertura di vedute degli edifici vicini e a tutelare interessi esclusivamente privati.

Cass. civ. n. 1261/1997

La veduta laterale, che ricorre quando il confine del fondo del vicino ed il muro dal quale si esercita la veduta formano un angolo di 180 gradi, può essere esercitata, oltre che di lato, anche in basso, verticalmente, assumendo, così, le caratteristiche della veduta in appiombo, che deve, perciò, considerarsi espressamente ammessa dal codice civile che, proprio per specificare i limiti normali di tale veduta (e della veduta obliqua in basso), impone a colui che vuole appoggiare la nuova costruzione al muro da cui si esercita la veduta di arrestarsi almeno a tre metri sotto la soglia della medesima (art. 907 c.c.). Ricorre, conseguentemente, la servitù di veduta in appiombo tutte le volte in cui, per i maggiori contenuti della zona di rispetto prevista nel caso concreto, essa determini, per il fondo sul quale si esercita verticalmente, una restrizione dei poteri normalmente inerenti al diritto di proprietà delineati dalle norme sulle distanze, risolvendosi così in un peso imposto a tale fondo per il vantaggio (utilità) del fondo dal quale la veduta si esercita, come nel caso delle vedute esercitate anche verticalmente dai proprietari dei singoli piani di un edificio condominiale dalle rispettive aperture fino alla base dell'edificio.

Cass. civ. n. 7511/1994

L'obbligo di rispettare le distanze stabilite dall'art. 905 c.c. per l'apertura di vedute dirette sussiste anche nel caso in cui lo spazio tra edifici vicini sia costituito da un cortile comune, la cui presenza impone a carico dei proprietari dei fabbricati frontistanti dei limiti ancora più severi di quelli fissati dalle norme sulle distanze, in quanto l'esecuzione di nuove costruzioni non può alterare la destinazione del cortile consistente nel dare luce ed aria agli edifici su di esso prospettanti.

Cass. civ. n. 6120/1994

Nell'ipotesi in cui una veduta sia aperta nella faccia interna di un muro perimetrale e cioè nel fondo dell'incasso parziale di un muro, la distanza di m. 1,50 prevista dall'art. 905 c.c. per l'apertura di vedute verso il fondo del vicino deve misurarsi dalla faccia esterna del muro e non da quella interna. Viceversa, nell'ipotesi di arretramento del muro perimetrale e cioè nel caso che l'incasso nel muro anziché essere parziale si estenda a tutta l'altezza del muro dal piano di calpestio sino all'estremità superiore, avendosi una vera e propria rientranza nell'originaria costruzione, la distanza di m. 1,50 deve essere misurata dalla faccia esterna del muro arretrato nel quale siano aperte le vedute.

Cass. civ. n. 4523/1993

Ai fini dell'osservanza delle distanze legali dal fondo vicino la qualificazione della veduta (diretta, obliqua o laterale) va fatta con riguardo alla possibilità che la conformazione obiettiva dell'opera offre di guardare frontalmente o meno sul fondo del vicino, non già in base alla posizione della persona che esercita la veduta rispetto alla parte in cui si apre la finestra o il balcone. Ne deriva che le vedute che si esercitano dal balcone sono diverse secondo le varie posizioni in cui è possibile guardare sul fondo del vicino, nel senso che è sufficiente per aversi veduta diretta che da uno dei lati del balcone sia possibile affacciarsi e guardare sul fondo altrui, onde la distanza da osservarsi dal confine da tale lato non può essere inferiore a m. 1,50 a norma dell'art. 905 c.c.

Cass. civ. n. 4755/1991

La norma dell'art. 905 c.c. la quale vieta l'apertura di vedute dirette sul fondo del vicino se non venga osservata la distanza di un metro e mezzo, è applicabile anche nel caso in cui la veduta sia limitata dal muro cieco del fabbricato del vicino.

Cass. civ. n. 4453/1991

Anche ai fini dell'applicazione della distanza legale stabilita dall'art. 905 comma secondo c.c. per le vedute ed i prospetti esercitati da balconi o da altri sporti, terrazze, lastrici solari e simili, muniti di parapetto che permetta di affacciarsi sul fondo del vicino, è necessario fare riferimento alla destinazione permanente e normale dell'opera mediante la quale si esercita la veduta, desumendola dalla natura oggettiva dell'opera stessa ed accertare inoltre se lo stato dei luoghi sia idoneo ad assicurare una normale inspectio e prospectio nel fondo del vicino mediante un comodo e non pericoloso affaccio.

Cass. civ. n. 7146/1990

Nel caso in cui il confine tra due fondi sia rappresentato da un muro comune, il punto d'arrivo nella misurazione della distanza di cui all'art. 905 c.c. per l'apertura di vedute verso lo stesso, è costituito dalla faccia del muro prospiciente l'immobile da cui la veduta è esercitata e non da quella opposta, dalla parte del fondo di proprietà esclusiva dell'altro comproprietario del muro, né dalla sua linea mediana.

Cass. civ. n. 741/1988

La norma di cui all'art. 873 c.c. relativa alle distanze tra fabbricati, in quanto intesa a tutelare interessi generali di igiene, decoro e sicurezza degli abitati, tale da consentire una valutazione più rigorosa in sede locale, non si pone in correlazione con la norma di cui all'art. 905 c.c. sulla distanza delle vedute dal confine, volta solo a salvaguardare il fondo vicino dalle indiscrezioni che possono essere attuate mediante l'uso di un'«opera obiettivamente destinata a tale scopo», sicché, ove la maggior distanza delle costruzioni non sia dai regolamenti riferita specificamente al confine, bensì imposta in assoluto, indipendentemente dalla dislocazione delle costruzioni nei rispettivi fondi, la distanza delle vedute dal confine deve intendersi regolata esclusivamente dalla norma dell'art. 905 c.c., ossia in misura pari ad un metro e mezzo.

Cass. civ. n. 3356/1987

Ai fini dell'obbligo delle distanze per l'apertura di vedute dirette e balconi, è del tutto ininfluente l'esistenza tra i due fondi vicini di una strada privata, non essendo questa in alcun modo equiparabile alla via pubblica (o soggetta a servitù di uso pubblico) cui fa riferimento l'ultimo comma dell'art. 905 c.c.

Cass. civ. n. 6269/1986

Quando il muro nel quale vengono aperte le vedute forma un angolo acuto con la linea di confine o con il muro dell'edificio esistente sul suolo contiguo, può esercitarsi — quale che sia il grado dell'angolo stesso — sia la veduta diretta che quella obliqua, con la conseguenza che la distanza da osservare a salvaguardia del fondo vicino è quella prescritta per la veduta diretta dalla norma dell'art. 905 c.c.

Cass. civ. n. 4384/1982

Mentre nel caso della distanza tra costruzioni è applicabile il principio della prevenzione – in base al quale il proprietario del fondo che costruisce per primo può ubicare la costruzione rispetto al confine nel modo ritenuto più opportuno – tale criterio non è utilizzabile nell'ipotesi prevista dall'art. 905 c.c., che disciplina la distanza fra l'apertura delle vedute, dovendo comunque il proprietario che costruisce per primo tenere le vedute dirette a distanza non minore di un metro e mezzo dal confine, anche del vicino fondo che sia inedificato.

Cass. civ. n. 3597/1982

L'apertura di una veduta verso il fondo del vicino, ai sensi ed agli effetti degli artt. 905 e seguenti c.c., sul fondo che già goda naturalmente di una vista panoramica, in conseguenza di posizione sopraelevata, è configurabile solo quando intervengano opere che aggravino la suddetta situazione naturale, consentendo la comoda inspectio e prospectio, e non anche, pertanto, in relazione ad un muro di cinta privo di tali caratteristiche.

Cass. civ. n. 1508/1982

L'esenzione dall'obbligo delle distanze legali, prevista dall'ultimo comma dell'art. 905 c.c. per il caso in cui tra i due fondi intercorra una strada pubblica, si riferisce alle distanze stabilite dai precedenti commi della norma medesima per l'apertura di vedute dirette e di balconi, e non può quindi interferire, nei rapporti fra proprietari di fondi contigui o frontistanti rispetto alla pubblica strada, sulle pretese che all'uno derivino, ai sensi degli artt. 871 e 872 c.c., dall'inosservanza da parte dell'altro delle disposizioni dei regolamenti edilizi che disciplinano e limitano lo jus aedificandi (sia pure mediante il divieto di creare sporti su detta strada).

Cass. civ. n. 319/1982

L'apertura di vedute in violazione del disposto dell'art. 905 c.c. sul tetto di proprietà esclusiva di un condomino, non esclude il pregiudizio degli altri condomini i quali, pertanto, possono agire in negatoria servitutis, in quanto i vincoli che derivano da una veduta non incidono soltanto sul proprietario del tetto, dal momento che come fondo servente deve essere considerato l'intero immobile condominiale, nel suo complesso e nella sua unità strutturale e funzionale.

Cass. civ. n. 3428/1981

La misurazione della distanza di una veduta dal fondo del vicino si effettua dalla faccia esteriore del muro in cui si aprono le finestre ovvero dalla linea estrema del balcone, o, in genere, del manufatto dal quale si esercita la veduta stessa.

Cass. civ. n. 3421/1981

La disposizione dell'art. 905 c.c., secondo cui per l'apertura di vedute dirette verso il fondo del vicino occorre osservare la distanza di un metro e mezzo, va posta in relazione con l'art. 873 dello stesso codice, che prescrive una distanza non minore di tre metri o quella maggiore stabilita dai regolamenti edilizi locali, per le costruzioni su fondi finitimi. Pertanto, ove, nel compiere la costruzione, non sia stata rispettata la distanza dal fondo del vicino fissata dal codice civile o, eventualmente, dal regolamento edilizio locale, non può aprirsi in detta costruzione una veduta iure proprietatis, che, se creata, è illegittima e, in quanto tale, insuscettibile di protezione con riferimento alla distanza delle costruzioni da essa.

Cass. civ. n. 2665/1978

L'esonero dall'obbligo di osservare le distanze per l'apertura di vedute, qualora fra i fondi vicini vi sia una via pubblica, è limitato alle vedute dirette, ai sensi dell'art. 905 terzo comma c.c. Pertanto, la veduta laterale od obliqua, da un balcone, sul fondo del vicino, è soggetta alla distanza stabilita dall'art. 906 c.c., anche se dal balcone medesimo sia possibile l'esercizio di una veduta diretta verso una via pubblica.

Cass. civ. n. 4797/1977

L'art. 905 c.c., nel prevedere la distanza minima di una veduta diretta, assume come base della misurazione la posizione più avanzata del piano verticale sul quale l'apertura è posta ed è disposizione inderogabile. (Nella specie, la corte del merito aveva invece assunto come base non già la faccia esterna del muro, ma la ringhiera apposta all'interno dell'apertura, nel vano retrostante).

Cass. civ. n. 4748/1977

Ai sensi dell'art. 905 terzo comma c.c., il venir meno dell'obbligo di rispettare le distanze legali, per l'apertura di vedute e balconi, non si verifica in ogni caso in cui fra proprietà contigue vi sia uno spazio pubblico, ma postula che tale spazio abbia caratteristiche e destinazione di «via».

Cass. civ. n. 3460/1977

Le distanze per l'apertura di vedute, e le distanze delle costruzioni dalle vedute, previste, rispettivamente, dagli artt. 905 e 907 c.c., non sono applicabili nel caso di presenza di una strada pubblica, sia che questa passi fra i due immobili interessati, rendendoli fronteggianti, sia che si ponga, rispetto alle vedute, ad angolo retto.

Cass. civ. n. 649/1975

Ai fini dell'osservanza delle distanze legali dal fondo vicino, costituisce veduta diretta quella che si esercita guardando di fronte a sé stesso, e cioè in direzione perpendicolare rispetto al piano del muro in cui si apre la finestra da cui si guarda. Vedute oblique o laterali sono, invece, quelle che si esercitano guardando, verso la propria destra o la propria sinistra, al di là dello spazio compreso fra le due parallele tracciate perpendicolarmente agli stipiti della finestra, vale a dire guardando in direzione obliqua rispetto al piano del muro in cui si apre la finestra o lungo la sua prosecuzione verso il confine. Di conseguenza, se il piano del muro in cui si apre la finestra è perpendicolare alla linea di confine ovvero forma con essa un angolo ottuso, non può aversi veduta diretta sul fondo posto al di là del confine, bensì soltanto vedute oblique o laterali. Se, invece, tale piano è parallelo a detta linea ovvero forma con essa un angolo più o meno acuto, dalla finestra possono esercitarsi, al tempo stesso, tanto una veduta diretta su una parte del fondo vicino, quanto vedute oblique o laterali su altre parti del fondo stesso. Se una finestra consente contemporaneamente sia la veduta diretta che la veduta obliqua o laterale sul fondo vicino, si devono osservare tanto la distanza di metri uno e cinquanta (da misurare tra la facciata esteriore del muro in cui si apre la finestra e la parte del fondo vicino rispetto alla quale essa forma veduta diretta) quanto la distanza di centimetri settantacinque (da misurarsi fra il lato più prossimo della finestra e le altre parti del fondo vicino), rispettivamente stabilito dagli artt. 905 e 906 c.c.

Cass. civ. n. 3873/1974

Quando i regolamenti edilizi prescrivono una distanza fra costruzioni maggiore di quella stabilita dal codice civile, l'apertura di vedute nel fabbricato costruito senza il rispetto di tale distanza, può costituire, ancorché sia osservata la distanza prescritta dall'art. 905 c.c., autonomo titolo di risarcimento di danno verso il vicino, se in concreto risultino compromesse le esigenze tutelate dalla norma regolamentare.

Cass. civ. n. 2827/1973

... La regola dettata dall'ultimo comma dell'art. 905, c.c. — secondo la quale la distanza per l'apertura di vedute dirette e balconi non si applica quando tra i due fondi vicini ci sia una via pubblica — è applicabile anche alle vie private gravate da servitù di uso pubblico, cioè alle cosiddette vicinali, ma non pure alle vere e proprie strade private, gravate da servitù di passaggio in favore di terzi uti singuli.

La giuridica impossibilità di costruire sul confine, in cui eventualmente versi il soggetto che lamenta il mancato rispetto delle distanze legali da parte del vicino, mentre determina il difetto di interesse ad agire con riguardo all'osservanza delle distanze nelle costruzioni, non produce alcuna conseguenza quando si lamenti l'illegittima apertura di vedute. La differenza di trattamento delle due ipotesi si spiega considerando che, mentre le regole sulle distanze fra costruzioni rispondono alla esigenza di garantire la misura dell'edificabilità del fondo - di guisa che la ragione della tutela viene meno quando quella misura di edificabilità sia già esclusa per altre ragioni - la imposizione di determinate distanze per le vedute realizza, invece, interessi del fondo limitrofo o dei suoi proprietari indipendenti dalla sua utilizzazione edificatoria, onde l'inesistenza di questa non esime il proprietario del fondo, nel quale le vedute devono venire aperte, dall'osservanza delle distanze prescritte.

Notizie giuridiche correlate all'articolo

Tesi di laurea correlate all'articolo

Hai un dubbio o un problema su questo argomento?

Scrivi alla nostra redazione giuridica

e ricevi la tua risposta entro 5 giorni a soli 29,90 €

Nel caso si necessiti di allegare documentazione o altro materiale informativo relativo al quesito posto, basterà seguire le indicazioni che verranno fornite via email una volta effettuato il pagamento.

SEI UN AVVOCATO?
AFFIDA A NOI LE TUE RICERCHE!

Sei un professionista e necessiti di una ricerca giuridica su questo articolo? Un cliente ti ha chiesto un parere su questo argomento o devi redigere un atto riguardante la materia?
Inviaci la tua richiesta e ottieni in tempi brevissimi quanto ti serve per lo svolgimento della tua attività professionale!

Consulenze legali
relative all'articolo 905 Codice Civile

Seguono tutti i quesiti posti dagli utenti del sito che hanno ricevuto una risposta da parte della redazione giuridica di Brocardi.it usufruendo del servizio di consulenza legale. Si precisa che l'elenco non è completo, poiché non risultano pubblicati i pareri legali resi a tutti quei clienti che, per varie ragioni, hanno espressamente richiesto la riservatezza.

L. D. F. chiede
martedì 12/12/2023
“Mi rivolgo a voi per aver chiarezza su questo quesito: abbiamo allungato una finestra del nostro appartamento fino al pavimento. Questa apertura è stata effettuata ad una distanza di metri 1,80 dal fondo del vicino. L'apertura ci permette l'accesso ad una pensilina esistente dal 1991 ed è in continuità col pavimento del nostro appartamento. Detta pensilina è mappata con il numero di matta del nostro appartamento. La pensilina è stata poi munita di ringhiera con autorizzazione del comune, questo per protezione degli animali che avevamo. Per buon vicinato e per non aver affaccio nel fondo vicino abbiamo messo una lunga serie di grosse piante grasse lungo la ringhiera. Si tenga presente che noi abbiamo ampia veduta sul fondo del vicino da due finestre. Il vicino chiede: la ricostruzione del muretto abbattuto; la rimozione della ringhiera ed infine il divide assoluto di calpestio della pensilina. Cosa stabilisce la legge in proposito? Resto in attesa e ringrazio”
Consulenza legale i 18/12/2023
La norma a cui occorre fare riferimento nel caso in esame è il secondo comma dell’art. 905 c.c., norma che disciplina appunto la distanza che va osservata per l’apertura di vedute dirette e balconi, ovvero quelle vedute che permettono di guardare direttamente e verticalmente verso il fondo del vicino senza doversi sporgere.
La veduta può essere costituita da una finestra, porta finestra, balcone, loggiato, vano aperto, lastrico solare con parapetto, sporti, ecc.

Tale norma, nel disporre che la linea più esterna della veduta deve trovarsi ad almeno metri 1,5 dal confine, va messa in relazione con la norma di cui all’art. 873 del c.c., la quale prescrive una distanza non minore di tre metri (o quella maggiore stabilita dai regolamenti locali) per le costruzioni su fondi finitimi.

Ebbene, nel caso in esame si ritiene che il confinante abbia ragione di pretendere il ripristino dello stato dei luoghi e ciò essenzialmente per due ragioni:
  1. innanzitutto la trasformazione della preesistente finestra in un balcone non può avere altro effetto che quello di aggravare la preesistente servitù di veduta;
  2. in secondo luogo, tralasciando ciò che possono disporre i regolamenti locali in tema di distanze (i quali potrebbero anche prevedere una distanza maggiore), la distanza di metri 1,80 a cui si fa cenno nel quesito è riferibile alla preesistente finestra, il che fa inevitabilmente presumere che detta distanza non possa più sussistere una volta che, trasformata la finestra in porta, si ha adesso possibilità di accesso a quella pensilina sulla quale è stata peraltro apposta una ringhiera.

A seguito di tale trasformazione edilizia, infatti, il calcolo delle distanze andrà fatto dalla linea più esterna della veduta, ovvero dalla pensilina e non più dalla parete esterna della originaria finestra.
Peraltro, si tenga presente che per la costituzione di una servitù di veduta è sufficiente la sussistenza di opere che, pur non essendo in via esclusiva destinate all’affaccio, siano obiettivamente idonee all’inspicio e al prospiciere in alienum, ovvero che per la loro ubicazione, consistenza e struttura risultino destinate in modo normale e permanente a rendere possibile l’affaccio sul fondo del vicino e ne determino lo stabile assoggettamento al peso della veduta (così Cass. n. 17341/2003).

Sul punto la Cassazione ha peraltro statuito che qualsiasi intervento umano di modifica dello stato dei luoghi che comporti condizioni oggettive stabili per esercitare un comodo affaccio sulla proprietà confinante può dare luogo, in concorso con le altre condizioni di legge, alla creazione di una servitù di veduta, a nulla rilevando che le opere eseguite non siano destinate in via esclusiva all’esercizio della veduta, laddove comunque le stesse, per ubicazione, consistenza e struttura, in luogo di una vista precaria e fugace, consentano il comodo affaccio, permettendo ad una persona di media costituzione fisica la sosta e l’osservazione, in modo normale ed in condizioni di assoluta sicurezza, verso la proprietà sottostante (così Cass. 15885/2005).

Pertanto, l’astratta possibilità di accedere alla pensilina e l’esistenza di una ringhiera che, fungendo da protezione, consente di affacciarsi, sono tutti elementi che connotano l’esercizio di una veduta diretta sul fondo altrui, la quale, si ripete, non verrebbe più ad essere esercitata dalla finestra, ma dalla pensilina, con palese aggravamento delle preesistente servitù.
Se a tutto ciò si aggiunge che con molta probabilità non vi è più la distanza minima di un metro e mezzo prescritta dall’art. 905 c.c. (considerato che adesso tale distanza va calcolata dalla linea esterna della pensilina), sussistono valide e fondate ragioni per dover ottemperare alle richieste del vicino (ricostruzione del muretto abbattuto, rimozione della ringhiera e divieto di calpestio della pensilina).


F. C. chiede
lunedì 23/10/2023
“Buongiorno,vorrei sapere se una finestra che da sul cortile proprio ha la veduta diretta con relative conseguenze su un fondo se questo è posto frontalmente oltre 5 metri dall'apertura e se lateralmente forma un angolo acuto con il muro su cui è posta la finestra ma solo oltre i 5 metri dalla veduta. Se serve allego un disegno.”
Consulenza legale i 30/10/2023
In tema di distanze legali tra finestre e proprietà altrui dobbiamo fare riferimento al disposto degli artt. 905 e 906 c.c.
La prima norma riguarda l’apertura di vedute dirette, nonché di balconi, e prescrive la distanza di un metro e mezzo, che deve sussistere tra il fondo del vicino e la faccia esteriore del muro in cui si aprono le medesime vedute dirette.
La stessa distanza di un metro e mezzo va rispettata nel caso di “balconi o altri sporti, terrazze, lastrici solari e simili, muniti di parapetto che permetta di affacciarsi sul fondo del vicino”, e va misurata tra il fondo del vicino e la linea esteriore di tali opere.

Quanto, invece, alle vedute laterali od oblique, l’art. 906 c.c. prescrive la distanza di settantacinque centimetri, che va misurata dal più vicino lato della finestra o dal più vicino sporto.

Va inoltre precisato che, come ha chiarito la Cassazione, la distanza minima da rispettare in tema di vedute è solo quella stabilita dalle citate norme del codice civile, per cui non vi è la possibilità che i regolamenti edilizi comunali stabiliscano una distanza maggiore (come invece avviene, secondo l’art. 873 del c.c., in materia di distanze tra costruzioni in generale).
Questo perché le regole generali sulle distanze tra costruzioni hanno la funzione di evitare la formazione di intercapedini dannose e quindi rispondono a esigenze di tutela di interessi collettivi quali igiene, decoro e sicurezza.

Invece le norme sulle distanze in tema di vedute svolgono la diversa funzione di proteggere il fondo confinante dalle "indiscrezioni" consistenti nel guardare nella proprietà altrui, rispondendo quindi a interessi di tipo privatistico.
Dunque - conclude Cass. Civ., Sez. II, sentenza 11/06/2018, n. 1507 - "non vi è spazio per una integrazione della previsione dell'art. 905 c.c. con quelle eventuali più restrittive in tema di distanze tra costruzioni contenute nei regolamenti locali, deponendo in tal senso anche l'assenza nel testo della norma di un rinvio - che è, invece, contemplato nell'art. 873 c.c. - ai regolamenti in questione”.

U. M. chiede
domenica 22/10/2023
“Spett. Brocardi,
desidero sapere se il danno per diminuzione della visuale e della privacy (conseguente all'apertura di nuove vedute in una costruzione in sopraelevazione abusiva, realizzata in violazione delle distanze ex artt. 905, 907 c.c., della normativa antisismica ma anche delle disposizioni contenute negli strumenti urbanistici locali relative all'estetica edilizia ) è in re ipsa e non richiede prova, trattandosi in primis di un asservimento de facto del fondo del danneggiato, in violazione di un diritto soggettivo. La sentenza Cass.24387/2010 riconosce il danno in re ipsa in riferimento alla violazione delle distanze tra edifici ex artt. 871/872 c.c. , vorrei sapere se esistono pronunciamenti in sul danno in re ipsa riguardo alla violazione delle distanze alle distanze in materia di vedute, ove l'asservimento è letterale trattandosi di diritti di servitù.”
Consulenza legale i 26/10/2023
L’esame delle pronunce giurisprudenziali ha evidenziato che il danno derivante dalla violazione delle norme in tema di vedute è, appunto, in re ipsa.
Al riguardo segnaliamo Cass. Civ., Sez. II, 15/10/2001, n. 12511: “L'art. 905 c.c., inteso a salvaguardare i fondi dalle indiscrezioni dipendenti dall'apertura di vedute negli edifici vicini, impone un divieto di carattere assoluto, da rispettarsi prescindendo dal danno in concreto verificatosi in conseguenza alla violazione delle norme in materia di distanze nella realizzazione di opere idonee all'inspectio e alla prospectio; il soggetto leso non è pertanto tenuto a fornire alcuna prova del danno subito, identificatosi quest'ultimo nella violazione stessa, che dà luogo ad un asservimento di fatto del fondo altrui”.
Ancora, si veda Cass. Civ., Sez. II, 24/02/2000, n. 2095: “Il danno conseguente alla violazione delle norme del codice civile (ed integrative di queste) relative alle distanze da rispettare in caso di costruzione di balconi o terrazze che permettano di affacciarsi sul fondo vicino si identifica nella violazione stessa, costituendo un asservimento "de facto" del fondo predetto, con conseguente obbligo di risarcimento danni senza la necessità di una specifica attività probatoria”.

M. S. chiede
mercoledì 17/05/2023
“Il mio vicino di casa ha un balcone che sovrasta la mia proprietà. Essendo questa situazione da molti anni penso abbia diritto di usucapione. Ora in fase di restauro della casa il balcone è stato demolito e poi ricostruito circa venti centimetri più in alto e 30 centimetri più largo.
L'usucapione del precedente balcone rimane o viene a meno? Inoltre la veduta da questo nuovo balcone dovrà essere oscurata ? Grazie”
Consulenza legale i 24/05/2023
Il quesito che si pone attiene a quella che si definisce servitù di veduta, la quale consiste nel diritto per il proprietario di un fondo (c.d. dominante) di osservare e affacciarsi sul fondo del vicino (inspicere e prospciere in alienum) a distanza inferiore di quella prescritta dagli artt. 905-907 c.c. (al cui testo si rimanda).
Tale servitù può essere costituita:
a) per contratto, nel qual caso occorre la forma scritta secondo quanto prescritto dal n. 4 dell’art. 1350 del c.c. (oltre che dal proprietario del fondo servente, tale servitù può essere convenzionalmente costituita dal nudo proprietario, dal superficiario e dall’enfiteuta);
b) per testamento: è questo l’unico modo di costituzione unilaterale delle servitù volontarie;
c) per provvedimento dell’autorità giudiziaria: la relativa sentenza avrà natura costitutiva ex art. 2932 del c.c. ed i suoi effetti sono subordinati al passaggio in giudicato;
d) per usucapione: è questo un modo di acquisto c.d. a titolo originario, il quale si perfeziona mediante il possesso continuato, pacifico e ininterrotto per venti anni e del quale ci si può avvalere soltanto nel caso di c.d. servitù apparenti, ovvero allorchè vi siano opere visibili e permanenti destinate all’esercizio della servitù.
Tali opere possono essere collocate nel fondo dominante, nel fondo servente o anche nel fondo di terzi, mentre la loro visibilità, atta a far presupporre la conoscibilità del peso da parte del proprietario del fondo servente può essere apprezzabile sia dal fondo servente che da altri punti di osservazione facilmente e liberamente accessibili dal proprietario dello stesso fondo servente;
e) per destinazione del padre di famiglia: si tratta anche in questo caso di un modo di costituzione della servitù a titolo originario, applicabile solo nel caso delle servitù apparenti.

Ebbene, nel caso in esame sembra evidente che, se sono trascorsi almeno venti anni, deve ormai considerarsi costituita per usucapione, in favore dell’immobile del vicino, la servitù di esercitare il diritto di veduta da quel balcone, sebbene lo stesso non rispetti i requisiti che la legge prescrive in tema di distanze dall’altrui proprietà.
Vi è, a questo punto, da considerare quali effetti può avere sul diritto così acquisito la demolizione del balcone e la sua successiva ricostruzione in posizione diversa da quella che lo stesso aveva prima della demolizione.
A tal proposito può richiamarsi l’ordinanza della Corte di Cassazione n. 14706 del 10.07.2020, con la quale la S.C., nell’affrontare un caso per certi versi analogo a quello qui in esame (si trattava nella specie di demolizione e successiva ricostruzione di un intero manufatto, per il quale era stato acquisito il diritto a mantenerlo a distanza inferiore rispetto a quella prevista dalla legge), detta alcuni principi che possono ben applicarsi anche nel caso di demolizione di un balcone.
In particolare, la S.C. afferma che la nuova opera non può porsi in continuità con la precedente, cosicchè se la prima aveva consentito di maturare l’acquisizione, per usucapione, del diritto a conservare il manufatto a distanza inferiore a quella legale, la nuova opera non può avvalersi dello stesso beneficio.

Sotto il profilo probatorio, si fa rilevare che il proprietario che lamenta la realizzazione di un manufatto su fondo limitrofo a distanza non regolamentare, deve dare prova solo del fatto della costruzione e della dedotta violazione, mentre il convenuto che affermi di avere acquisito per usucapione il diritto di mantenere il suo fabbricato a distanza inferiore a quella legale, deve dimostrare la sussistenza degli elementi costitutivi dell’acquisto a titolo originario, vale a dire la presenza per il tempo indicato dalla legge del manufatto nella stessa posizione e l’assoluta identità tra la nuova e la vecchia struttura (così Cass. sent. n. 15041/2018).

Applicando i suesposti principi al caso in esame, può dirsi che il vicino avrebbe potuto avvalersi della maturata usucapione (esercitando il conseguente diritto di veduta) solo allorchè il nuovo manufatto (ovvero il nuovo balcone) avesse costituito il prodotto di una mera ristrutturazione di quello preesistente.
Poiché, invece, l’opera si presenta come totalmente nuova rispetto alla precedente (presentando misure e posizione diverse), allora il diritto a conservare il balcone a distanza inferiore a quella legale deve considerarsi perduto con la demolizione del precedente.
Per tale ragione, il proprietario del fondo, in danno del quale viene esercitato il diritto di veduta, avrà il diritto di reagire, chiedendone la chiusura o quanto meno la messa a norma, ovvero lo spostamento alla distanza prevista dalla legge (artt. 905 e ss. c.c.).

E. M. chiede
lunedì 19/09/2022 - Lombardia
“Buongiorno,
io ed il mio vicino abbiamo le case che si uniscono in un angolo a 90 gradi.
Il mio vicino ha costruito un nuovo balcone sul tetto, vicino alla finestra del mio bagno.
Volevo sapere se le distanze da rispettare sono quelle dettate dall'articolo 905 o dall'articolo 907.
Grazie”
Consulenza legale i 25/09/2022
La norma che nel caso di specie deve trovare applicazione è l’art. 905 c.c.
L’attività che il vicino sta ponendo in essere, infatti, non può costituire e non va qualificata come realizzazione di una nuova costruzione, di cui si occupa specificatamente l’art. 907 del c.c. (come si dirà in seguito), bensì quale realizzazione di una nuova veduta, mediante costruzione di un balcone che consente di affacciarsi sul fondo altrui.
Con l’art. 905 c.c., infatti, il legislatore ha voluto assoggettare a particolari cautele l’apertura delle vedute (che in maniera più incisiva, rispetto alle luci, limitano la libertà del vicino ed in particolare la sua privacy, consentono l'inspectio e la prospectio in alienum), imponendo il rispetto di determinate distanze tra le stesse vedute ed il fondo del vicino.

In tal modo, peraltro, si è inteso anche contemperare, entro giusti limiti, le esigenze della migliore utilizzazione dei propri beni con quelle di libertà e riservatezza del vicino (così Cass. N. 6594/1983).
Nel particolare caso in esame, trattandosi di edifici tra loro in parte contigui e ponendosi le esigenze di tutela della riservatezza soltanto con riferimento alla finestra del vano bagno che si affaccia sul fondo del vicino, è da tale finestra che va calcolata la distanza di un metro e mezzo fissata dall’art. 905 c.c.

Diversa, invece, è la fattispecie astratta presa in esame dal successivo art. 907 c.c., ove si fa riferimento al caso in cui sia stato acquistato il diritto di avere vedute dirette verso il fondo del vicino, imponendosi al proprietario di quest’ultimo fondo di fabbricare ad una distanza non inferiore a metri tre da quella veduta, distanza ritenuta sufficiente per non ostruire la veduta esistente.
Ciò significa che il proprietario del fondo, sul quale è esercitata la veduta, non può avvalersi delle facoltà, proprie del diritto dominicale, di costruire sul confine del proprio fondo, o di chiedere la comunione del muro contiguo per costruirvi in appoggio, ma deve invece osservare, come si è detto, la distanza di tre metri dalla veduta.

Ai fini della disposizione in esame il termine "fabbricare" non va inteso nel suo significato rigoroso e letterale di elevare manufatti in calce e mattoni, ma in quello di compiere qualsiasi opera che, indipendentemente dalla forma e dal materiale con cui è stata realizzata, determini, secondo l'apprezzamento insindacabile del giudice di merito, un ostacolo, di carattere stabile, all'esercizio della veduta.

Nel caso di specie, seppure la realizzazione della veduta mediante opere murarie possa in linea teorica ed astratta farsi rientrare nel concetto di costruzione, di fatto non si tratta di costruzione destinata a frapporre un ostacolo, di carattere stabile, all’esercizio della veduta altrui esistente, con la logica conseguenza che l’unico interesse da tutelare rimane quella preso in considerazione dal legislatore all’art. 905 c.c. (tutela della privacy), per il quale si reputa sufficiente il rispetto di una distanza pari a metri 1,5.

A. F. chiede
giovedì 21/04/2022 - Lombardia
“Sto acquistando un abitazione ma ho un problema da risolvere ed il costruttore non mi riceve.
Ho una bella terrazza con una fioriera grande he confina con il muro del vicino. Il quale vicino ha fatto una veduta di circa 4 metri che si affaccia sulla fioriera e terrazzo. Come faccio a sapere se è legale? Mi pare che vada concordata con il fondo vicino in questa caso il costruttore. Da foto viste su Google prima Dell inizio lavori del costruttore il muro era integro. Non vi è distanza tra il suo muro con veduta e la mia fioriera più terrazzo. C'è invece distanza di 3 metri tra suo muro e mio muro Dell abitazione. A parte che non mi soddisfa questa apertura che consente ai vicini di entrare nel nostro terrazzo ma poi non vorrei firmare un rogito ed avere problemi con le distanze di Legge Se il Costruttore non mi riceve devo rivolgermi ad avvocato. Vorrei inviarvi foto. Grazie”
Consulenza legale i 28/04/2022
L’esame delle foto inviate a questa Redazione non sembra lasciare dubbi sul fatto che quell’incavo che si vede raffigurato nel muro di confine del vicino sia destinato a realizzare, a tutti gli effetti, una veduta diretta sull’immobile che si ha intenzione di acquistare.
Nel caso in esame le proprietà confinanti risultano separate da un muro divisorio, il quale si presume essere di proprietà esclusiva del vicino.
In linea generale la presenza di un muro sul confine non può dar luogo all’esercizio di una servitù di veduta, sia perché il muro per sua natura ha soltanto la funzione di demarcazione del confine e di tutela del fondo, sia perché, anche quando consente di “inspicere” e “prospicere” sul fondo altrui, è inidoneo ad assoggettare un fondo all’altro, a causa della reciproca possibilità di affaccio da entrambi i fondi confinanti (in tal senso si veda Cass. n. 6927 del 07.04.2015).

Tuttavia, un ulteriore elemento che caratterizza la situazione di specie, quale desumibile sempre dalle foto inviate, è dato dal fatto che il muro divisorio che vi è raffigurato sembra separare l’immobile del costruttore da un terrazzo del vicino.
Ebbene, in casi come questo, se il terrazzo o, comunque, il lastrico solare del vicino, presenta un accesso normale, allora per non potersi considerare costituita alcuna servitù di veduta occorre che il muro sia alto almeno due metri e che lo stesso non presenti fori, interstizi, feritoie attraverso cui si possa guardare verso l’altrui fondo.
Se, al contrario, quel terrazzo non ha un accesso normale e, pertanto, non può essere usualmente adibito a stenditoio, osservatorio, solarium, ecc. oppure è un terrazzo privo di parapetto, non si può configurare una veduta diretta verso l’altrui fondo.

Ebbene, la presenza di quel varco realizzato nel muro divisorio lascia supporre che il proprietario confinante abbia la palese intenzione di voler costituire in favore del proprio fondo una servitù di veduta, anche se, per poter asserire con certezza che sia proprio questa la sua intenzione, occorrerebbe verificare che le cd. "inspectio et prospectio in alienum", vale a dire le possibilità di "affacciarsi e guardare di fronte, obliquamente o lateralmente", siano esercitabili in condizioni di sufficiente comodità e sicurezza (si tratta, infatti, di elementi indispensabili per configurare gli estremi di una veduta ai sensi dell'art. 900 del c.c. conseguentemente soggetta alla regole di cui agli artt. 905 e 907 c.c. in tema di distanze),.
Di tale principio se ne trova conferma nella giurisprudenza della Corte di Cassazione ed, in particolare, si vuole qui citare Cass. n. 18910 del 05.11.2012, in cui la S.C. conferma la decisione del giudice di merito, la quale a sua volta aveva respinto la richiesta di arretramento del parapetto di un terrazzo risultato essere alto soltanto novanta centimetri, in quanto altezza corrispondente non a quella del “petto” ma del “basso ventre” di una persona di ordinaria statura e, quindi, insufficiente per garantire un affaccio sicuro.

Stando a quanto fin qui detto, dunque, si consiglia di prestare particolare prudenza nell’acquisto di tale immobile, in quanto si ritiene che sussistano tutti i presupposti per essere o poter divenire lo stesso gravato da una servitù di veduta, esercitabile da quella sorta di varco realizzato nel muro di confine.
Peraltro, l’opinione che si ha è che alla realizzazione di tale apertura vi sia stato il concorso della volontà del costruttore, il quale potrebbe essere stato indotto a prestare il proprio consenso in considerazione del fatto che tra la medesima apertura ed il fabbricato sussiste comunque una distanza di metri tre (come prescritto dall'art. 907 del c.c., nella parte in cui è detto che, una volta acquistato il diritto di avere vedute dirette sul fondo vicino, il proprietario di questo non può costruire a distanza minore di tre metri).
Se così fosse, e sempre che tra gli stessi non sia stato stipulato un atto costitutivo di servitù (anche se non si vede come si possa pensare di tener nascosto un atto pubblico), lo stato dei luoghi sarà, dunque, in grado di consentire al vicino di acquistare il diritto di servitù di veduta per usucapione, in quanto la visibilità delle opere, a cui si fa riferimento all’art. 1061 del c.c., è tale da escludere la clandestinità del possesso e da far presumere che il proprietario del fondo servente abbia contezza dell’obiettivo asservimento della proprietà a vantaggio del fondo dominante (cfr. in tal senso Cass. n. 24401 del 17.11.2014).

Pertanto, se il costruttore che dovrà procedere alla vendita dell’immobile non ha alcuna intenzione di rendere nota all’acquirente la reale situazione dei luoghi e, soprattutto, se non si vuole acquistare un immobile gravato da servitù di veduta, ciò che può consigliarsi, se ancora non è stato fatto, è quantomeno di stipulare un preliminare di vendita subordinato alla condizione risolutiva che l’immobile non risulti gravato da alcuna servitù in favore del fondo confinante.
Se, poi, dovesse risultare che in effetti tra il vicino ed il costruttore non è stato concluso alcun atto costitutivo di servitù volontaria e che quel varco è stato realizzato dal vicino in totale autonomia, una volta acquistato l’immobile non si avrà altra scelta che quella di agire giudizialmente contro lo stesso vicino per costringerlo a ripristinare il muro di confine o comunque ad innalzarlo quanto basta per non consentirgli di esercitare una veduta sul proprio fondo.

Infine, si ritiene che non possa essere di alcun ausilio, nella risoluzione della questione in esame, la verifica del rispetto della normativa urbanistica da parte del vicino nella realizzazione di tali opere, in quanto si tratta di lavori per i quali è sufficiente una SCIA, dalla cui eventuale mancata presentazione ne può soltanto derivare l’applicazione di una sanzione pecuniaria da parte dell’Ispettorato edilizio.

SM chiede
venerdì 31/12/2021 - Liguria
“Buongiorno, sono il proprietario di due appartamenti sovrapposti, situati al terzo e quarto piano di un condominio.
Ho intenzione di costruire due poggioli aggettanti (completamente aperti) sul prospetto laterale del condominio, ad uso dei due appartamenti, con apertura di porte finestre in sostituzione delle attuali finestre. A tal fine ho già presentato apposita SCIA al Comune (allego disegno dei poggioli). Le mie domande riguardando due aspetti:

1) il condominio: capisco che NON dovrei avere bisogno di una specifica autorizzazione ma è necessaria solo un’informativa al riguardo; è corretto ? L’art. 1122 c.c. prevede che le opere non devono recare danno alle parti comuni, determinare un pregiudizio alla stabilità e alla sicurezza ed al DECORO ARCHITETTONICO dell’edificio. Per quanto riguarda il decoro architettonico, valutazione di difficile inquadramento oggettivo, potrei avere problemi ? Segnalo che su un altro prospetto del condominio sono già stati realizzati, in passato, tre poggioli aggettanti sovrapposti, del tutto simili a quelli che avrei intenzione di costruire;

2) i singoli condomini degli appartamenti adiacenti ed il condomino dell’appartamento sottostante posto al secondo piano: questi possono impedirmi la realizzazione o impormi una eventuale successiva demolizione ? I poggioli sono, per loro stessa natura, posti ad una distanza inferiore a quanto previsto dagli Artt. 905, 906 e 907 del c.c. dalle finestre degli appartamenti adiacenti e sottostante, ed inoltre può essere invocato il fatto che possa essere limitata la veduta e la luce (o altro) ?

Grazie,
Cordiali saluti.
S.M.”
Consulenza legale i 12/01/2022
La giurisprudenza ammette la possibilità di costruire nuovi balconi sulla facciata del condominio senza la preventiva autorizzazione assembleare, in quanto considera tale opera non una innovazione ai sensi dell’art. 1120 del c.c. ma un uso individuale del bene comune ai sensi dell’art. 1102 del c.c. La Cass. Civ. n. 23459 del 16.12.2004 precisa, ad esempio, che il singolo proprietario può aprire sul muro comune nuove porte, finestre o ingrandire quelle esistenti se ovviamente tali opere non vadano a pregiudicare la stabilità la sicurezza dell’edificio e non alterino il suo decoro architettonico.

In merito a questo ultimo aspetto, a parere di chi scrive, se il nuovo balcone rispetterà le linee del fabbricato e soprattutto l’estetica dei balconi preesistenti, non potranno muoversi contro l’opera che si intende realizzare valide contestazioni. È anche giusto precisare però che non è l’avvocato condominialista il professionista deputato a valutare se un intervento nuovo in condominio sia lesivo del decoro: tale valutazione deve essere lasciata al tecnico edile e in particolare al professionista chiamato a progettare l’intervento.

Il fatto stesso che la realizzazione del poggiolo possa rientrare nelle facoltà previste dall’art. 1102 del c.c., rende meno gravoso il mancato rispetto delle distanze indicate dagli artt. 905 e ss. del c.c. Con l’ordinanza n. 31412 del 02.12.2019 la Sez.II della Corte di Cassazione ha precisato, infatti, che l’opera realizzata dal condomino nel proprio appartamento coinvolgendo anche beni comuni, deve considerarsi legittima nonostante il mancato rispetto della normativa delle distanze legali, a patto che si siano utilizzate le parti comuni dell’edificio entro i precisi confini indicati dall’art.1102 del c.c.

Nel caso specifico, se la realizzazione del poggiolo non travalicherà i limiti indicati dalle norme citate e rispetterà le linee architettoniche dell’edificio dovrà considerarsi legittima alla luce della vigente normativa. Ciò però non deve fare pensare che i vicini non possano tentare una qualche azione legale alla quale tuttavia si potranno opporre solide argomentazioni difensive.



Anonimo chiede
sabato 12/06/2021 - Lombardia
“Gentilissimi,

Abito in un “condominio orizzontale”: una serie di villette a schiera che condividono i muri perimetrali e accesso ai box auto.

La le villette hanno un giardino posteriore, tutte le villette hanno finestre con veduta obliqua sul giardino posteriore dei vicini.
Per conformazione del terreno, il giardino posteriore non è a livello dell’ingresso delle case, ma è di circa 1,7 m più basso e accessibile dai box che sono normalmente realizzati sotto le ville. Le ville sono di nuova costruzione e hanno le finestre tipo porte finestre.

La mia proprietà è leggermente diversa in quanto è l’ultima della schiera: per ragioni costruttive al posto del giardino posteriore ho il box auto. Il box si eleva da terra per circa 1,7 metri e la copertura del box arriva a livello delle porte finestre posteriori. (spero che la planimetria e le foto allegate aiutino a chiarire, la mia proprietà è un verde, i vicini in rosso)

La copertura del box è stata finita dal costruttore usando la stessa pavimentazione del resto del condominio ma non è registrata come “terrazzo”, ma come “copertura box” (senza specificare “non accessibile”)

Tempo fa abbiamo concordato con i vicini di poter mettere delle ringhiere alla copertura box che da tempo stiamo usando come area esterna, ma non abbiamo firmato nessun documento con loro.
Abbiamo quindi fatto comunicazione al comune tramite SCIA dell’installazione di ringhiere per la messa in sicurezza della copertura box.

Ora purtroppo il rapporto con i vicini si è deteriorato e ci hanno chiesto di smantellare le ringhiere, spostarle ad almeno 5 metri dal confine ed erigere una barriera di 2 metri per togliere ogni vista sulla loro proprietà.

Domanda #1
Vorrei sapere se la richiesta dei vicini spostare le ringhiere è corretta (credo di si!) e a quale distanza dovrei spostare la ringhiera dalla loro proprietà. Dipende dal confine o dal posizionamento delle nostre/loro finestre?
In ultimo, sono obbligato a creare una barriera per oscurare completamente la vista sulla loro proprietà? Ci sono requisiti per l’altezza minima/massima e la lunghezza?
(la richiesta della barriera mi sembra strana perché le finestre hanno già una veduta laterale)

Domanda #2, (fatemi sapere se devo effettuare un secondo pagamento, lo faccio volentieri)
I vicini hanno installato un balconcino e scale esterne per avere accesso diretto al giardino dal loro soggiorno, in rosso nell’allegato e nella seconda foto (come detto sopra, l’accesso al giardino c’è solo dai box, per cui le scale esterne sono molto comode).
Il balconcino dista 3,8 metri dalla linea di confine ed è alla stessa altezza della copertura del mio box.
La distanza che hanno mantenuto è corretta o ho diritto anche io a chiedergli un intervento?
(il balconcino e scale facevano parte dell’accordo verbale per mettere la ringhiera sul nostro balcone)

Domanda #3, (fatemi sapere se devo effettuare un terzo pagamento, lo faccio volentieri)
Ho letto che è possibile non richiedere permessi per gli interventi realizzati sul tetto del box qualora siano a carattere temporaneo, in particolare che possano essere rimossi entro un massimo di 90 giorni, e non modifichino la destinazione d’uso del lastrico solare, trasformandolo in un terrazzo permanente.
È un’informazione corretta? C’è una legge o sentenza a riguardo? È una via percorribile per mettere sedie e tavolo sulla copertura box per massimo 90 giorni?


Vedete allegati – che vi chiedo cortesemente di non pubblicare:
1. planimetria depositata in comune
2. foto delle proprietà appena prima della consegna (dove si vede il box confinante con il giardino dei vicini)
3. foto del balconcino e scala installati a 3,8 metri dal confine.

Grazie della consulenza”
Consulenza legale i 17/06/2021
L’art. 905 del c.c. al suo 2° comma dice in maniera molto chiara che non si possono costruire balconi o altri sporti, terrazze, lastrici solari e simili, muniti di parapetto che permetta di affacciarsi sul fondo del vicino, se non vi è la distanza di un metro e mezzo tra questo fondo e la linea esteriore di dette opere. Tale norma trova la sua giustificazione nella tutela della proprietà del vicino contro le molestie derivanti dall’altrui esercizio di veduta edificate a troppa breve distanza dal confine. La giurisprudenza ha chiarito che la distanza indicata dall’art. 905 del c.c. deve intendersi come la linea che va dalla ringhiera balaustra e simile da cui è possibile esercitare la massima veduta fino alla linea di confine (si veda Cass. Civ. n.1368 del 11.04.1975 e Cass. Civ. n.3428 del 25.05.1981).

Si tenga presente che in materia di costruzione di luci e vedute il codice civile si preoccupa soprattutto di dettare le distanze per la loro costruzione rispetto ai fondi finitimi non prevedendo l’obbligo di costruire barriere per impedirne l’affaccio, di cui tra l’altro si dubita della loro legittimità anche da un punto di vista di diritto edilizio ed urbanistico. Se quindi la distanza che corre tra la ringhiera e la linea di confine rientra nei limiti indicati dal codice civile le pretese dei vicini paiono non avere alcun fondamento.
In merito invece alle distanze nelle costruzioni l’art. 873 del c.c, ci dice che esse devono essere tenute ad una distanza non minore di tre metri se non unite o aderenti, salvo diversa disposizione dei regolamenti locali. Si tenga presente che la giurisprudenza ha più volte chiarito che per calcolare la predetta distanza non devono essere prese in considerazione quei manufatti o sporgenze che comunque non sono volte ad aumentare il corpo di fabbrica dell’edificio vicino, come mensole, sporti, canalizzazioni di gronda e loro sostegni, mentre sono al contrario rilevanti tutte quelle sporgenze di particolare proporzione tese ad ampliare il fronte dell’edificio e la sua abitabilità, idonee quindi ad incidere sulla consistenza volumetrica del fabbricato (Cass.Civ. n.9646 del 29.12.1987). Nel caso di specie la scala di accesso al giardino realizzata dal vicino, non può certo farsi rientrare nella definizione indicata dalla migliore e costante giurisprudenza. oltre ad essere perfettamente entro i limiti indicati dall’art. 873 del c.c.

Quanto al terzo quesito, si chiarisce anzitutto che, in termini urbanistici, la differenza tra un lastrico solare o un solaio di copertura e un terrazzo consiste nella circostanza che il primo si configura quale parte di un edificio che, pur praticabile e piana, resta un tetto, o comunque una copertura di ambienti sottostanti, mentre il terrazzo è inteso come ripiano anch'esso di copertura, ma che è anche dotato di opere che consentono l’affaccio e nasce già con la ulteriore ben precisa funzione di accesso e utilizzo per gli utenti (T.A.R. L'Aquila, sez. I, 24 luglio 2018, n. 305; T.A.R. Salerno, sez. II 3 gennaio 2018, n. 24).
La trasformazione da lastrico/solaio a terrazzo, quindi, richiede il rilascio di un permesso di costruire, in quanto determina un aumento della superficie utile e di conseguenza un aumento del carico urbanistico (ex multis, T.A.R. Cagliari, sez. I, 07 dicembre 2020, n. 684; T.A.R. Salerno, sez. II, 03 gennaio 2018, n. 24).

L’art. 6, c. 1, lettera e-bis), T.U. Edilizia, inoltre, include nell’attività edilizia libera, realizzabile previa semplice comunicazione di avvio dei lavori all'amministrazione comunale, le opere stagionali e quelle dirette a soddisfare obiettive esigenze, contingenti e temporanee, purché destinate ad essere immediatamente rimosse al cessare della temporanea necessità.
Il termine massimo per la rimozione dei manufatti è stato recentemente raddoppiato da 90 a 180 giorni.
Allo stesso regime di edilizia libera, ma senza l’obbligo di eliminare le opere entro un certo lasso di tempo, sono soggette pure le aree ludiche senza fini di lucro e gli elementi di arredo delle aree pertinenziali degli edifici, ai sensi dell’art. 6, c. 1, lettera e-quinquies), T.U. Edilizia (che appare più aderente alla fattispecie in esame).

Tanto premesso, si nota però che sia la giurisprudenza sopra richiamata, sia la norma del T.U. Edilizia, si riferiscono ad opere che possiedono intrinsecamente una certa stabilità e consistenza materiale, ossia che presentano perlomeno le caratteristiche minime per essere classificate come opere edilizie (ad es. la posa di pavimentazione, case mobili, tettoie e così via).
Peraltro, anche il glossario dell’edilizia libera approvato ex D.Lgs. n. 222/2016, quando tratta delle aree ludiche o pertinenziali di cui alla lettera e-quinquies, menziona manufatti come barbecue in muratura, fontane, gazebi, ripostigli per attrezzi e simili.
Il terzo quesito, invece, concerne meri elementi di arredo quali sedie, ombrelloni e vasi, che sono del tutto irrilevanti sotto il profilo edilizio-urbanistico e che quindi non interessano ad alcun titolo la P.A..
Vista la giurisprudenza sopra riportata, l’unico dubbio potrebbe invece sorgere per la ringhiera, che però, oltre a non essere oggetto del terzo quesito, è stata già assentita dal Comune e non dovrebbe quindi più rappresentare un problema.


Francesca M. chiede
martedì 15/10/2019 - Lombardia
“La vicina ha costruito un terrazzo senza rispettare le distanze dal confine durante dei lavori di restauro e ampliamento durati dal 2001 al 2007. Nel 2007 ha posto una recinzione che inglobava 11 metri di terreno fabbricabile appartenenti alla mia proprietà e tale porzione di terreno le consentirebbe di dimostrare di aver rispettato le distanza prevista per legge.
Resta il fatto che il terrazzo guarda sul mio giardino e proprietà.
Quando esattamente la vicina acquisisce per usucapione il diritto di veduta? Posso fare qualcosa ora per impedirglielo? fino a quando posso richiederle gli 11 metri di terreno? Una lettera dell'avvocato già scritta su questi temi può interrompere i termini dell'usucapione?
Grazie fm”
Consulenza legale i 24/10/2019
L’art. 900 del c.c. definisce le vedute (o prospetti) come aperture che permettono di affacciarsi sul fondo del vicino e di guardare di fronte, obliquamente o lateralmente.
Ai sensi dell’art. 905 del c.c., non si possono aprire vedute dirette verso il fondo chiuso o non chiuso e neppure sopra il tetto del vicino, se tra il fondo di questo e la faccia esteriore del muro in cui si aprono le vedute dirette non vi è la distanza di un metro e mezzo.
Inoltre non si possono costruire “balconi o altri sporti, terrazze, lastrici solari e simili, muniti di parapetto che permetta di affacciarsi sul fondo del vicino, se non vi è la distanza di un metro e mezzo tra questo fondo e la linea esteriore di dette opere”.

Quanto all’acquisto per usucapione di una servitù di veduta, occorre tenere a mente che, ai sensi dell’art. 1061 del c.c., possono acquistarsi per usucapione solo le servitù “apparenti”, cioè quelle che hanno opere visibili e permanenti destinate al loro esercizio.
In proposito, secondo la Cassazione (Sez. II, n. 24401/2017), “in tema di acquisto per usucapione, ai sensi dell'art. 1061, comma 1, c.c., di una servitù di veduta, le opere permanenti destinate al relativo esercizio devono essere visibili in maniera tale da escludere la clandestinità del possesso e da far presumere che il proprietario del fondo servente abbia contezza della situazione di obiettivo asservimento della sua proprietà, per il vantaggio del fondo dominante. Il requisito della visibilità, pertanto, può far capo ad un punto di osservazione non necessariamente coincidente con il fondo servente, purché il proprietario di questo possa accedervi liberamente, come nel caso in cui le opere siano visibili da una vicina pubblica via”.
Il tempo necessario ad usucapire è, normalmente, di venti anni ex art. 1158 del c.c., termine che in questo caso non risulta ancora decorso.


Lo strumento per impedire che la vicina continui ad esercitare la veduta è costituito dall’actio negatoria servitutis, l’azione negatoria di cui all’art. 949 del c.c., esercitabile finché non si sia compiuto l’acquisto per usucapione.
Infatti “il proprietario del fondo su cui si esercita una veduta illegale può proporre l'azione negatoria e chiedere l'accertamento dell'inesistenza della servitù e anche la sua eliminazione in ogni momento, purché non sia decorso il termine ventennale necessario per l'usucapione delle servitù apparenti, quale è quella di veduta” (Cass. Civ., Sez. II, n. 2159/2002).

Quanto allo sconfinamento operato dalla vicina nell’apporre la recinzione, il rimedio utilizzabile è l’azione di regolamento di confini, prevista dall’art. 950 del c.c.
Infatti la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che “l'azione di regolamento dei confini presuppone che l'incertezza, oggettiva o soggettiva, cada sul confine tra due fondi, non sul diritto di proprietà degli stessi, anche se oggetto di controversia è la determinazione quantitativa delle rispettive proprietà; essa, pertanto, non muta natura, trasformandosi in azione di rivendica, nel caso in cui il confinante sostenga che il confine di fatto non sia quello esatto per essere stato parte del suo fondo usurpato dal vicino” (Cass. Civ., Sez. VI , n. 3559/2016).
L'azione di regolamento di confini - come precisato da Cass. Civ., Sez. II, n. 5134/2008 - ha natura reale e petitoria ed è, dunque, imprescrittibile, salvi gli effetti dell’usucapione.

Purtroppo, per impedire il verificarsi dell’usucapione non è sufficiente una lettera di messa in mora, come costantemente affermato dalla giurisprudenza: in particolare, secondo Cass. Civ., Sez. II, n. 9682/2014, “gli atti di diffida e di messa in mora sono idonei ad interrompere la prescrizione dei diritti di obbligazione, ma non anche il termine utile per usucapire, potendosi esercitare il relativo possesso anche in aperto e dichiarato contrasto con la volontà del titolare del diritto reale, cosicché è consentito attribuire efficacia interruttiva del possesso solo ad atti che comportino, per il possessore, la perdita materiale del potere di fatto sulla cosa, oppure ad atti giudiziali diretti ad ottenere "ope iudicis" la privazione del possesso nei confronti del possessore usucapente” (conforme Cass. Civ., Sez. II, n. 15199/2011).
Pertanto, qualora la vicina non ottemperi spontaneamente all’invito ad eliminare la veduta/balcone illegale, nonché ad arretrare la recinzione, sarà necessario agire giudizialmente per impedire l’acquisto per usucapione tanto della servitù di veduta quanto della porzione di terreno ingiustamente “usurpata”.

Vittorio S. chiede
giovedì 02/05/2019 - Toscana
“Oggetto del quesito:
possibilità di aprire due vedute sulla parete di un edificio di proprietà dei Richiedenti, posto con tale parete, attualmente chiusa, sul confine con un terreno di altra proprietà su cui insiste un fabbricato
condominiale.

Premessa 1:
tale terreno, una volta di proprietà dei Richiedenti, fu venduto al costruttore con la condizione, posta in Atto, che i Richiedenti potessero aprire vedute sul fabbricato di confine rimasto di loro proprietà e che, per questo motivo, il costruttore si doveva impegnare ad edificare il nuovo edificio condominiale ad almeno 10 ml dal suddetto confine, cosa che peraltro è stata eseguita. Il costruttore ha poi trasferito tale accordo in tutti gli atti di compravendita stipulati coi vari privati che via via hanno acquistato gli appartamenti del nuovo edificio.

Premessa 2:
i Richiedenti presentarono al Comune una S.C.I.A. Avente per solo oggetto l'apertura delle due vedute. L'intervento non è poi stato eseguito per l'opposizione che ne seguì da parte del Condominio.
Ne è seguita una causa civile, alla fine della quale il Tribunale ha emesso Sentenza definitiva, non più appellabile per scadenza dei termini, con la quale si riconosceva sia l'esistenza di una servitù di
veduta sul confine da parte dei Richiedenti, sia l'esatta collocazione di tali vedute, già stabilita nell'originario Atto di Compravendita del terreno.
Dopo la conclusione della causa civile, i Richiedenti si apprestano a presentare una nuova S.C.I.A. A1 Comune, perché la prima è scaduta, sia per l'apertura delle due vedute, sia per la ristrutturazione
complessiva dell'edificio sul confine.
Ad una prima verifica informale preventiva alla presentazione ufficiale della S.C.I.A., il tecnico Comunale poneva il dubbio sulla possibilità di aprire vedute dirette sul confine, in quanto, secondo
lui, il divieto di aprire vedute sul confine deriverebbe sia dalle disposizioni di Codice Civile (e quindi superabili previo accordo tra i privati e, come in questo caso, rafforzate" da una sentenza
del Tribunale), sia però anche da disposizioni normative di natura Urbanistica non superabili da accordo privato tra le parti (e qui ha citato sia il D.M. 1444168, sia il locale Regolamento Edilizio,
che, a parer suo, vieta espressamente tale possibilità).

Quesito finale:
al di là dell'interpretazione del locale Regolamento Edilizio, peraltro molto dubbia, i Richiedenti hanno necessita di sapere se davvero il divieto di aprire vedute sul confine (diversamente dalla
norma dei distacchi tra pareti finestrate, che esistono e sono rispettati) abbia anche natura Urbanistica o solo Civilistica, e, in conclusione, se, alla luce di quanto esposto, abbiano o meno il
diritto di aprire tali vedute sul confine.

Consulenza legale i 24/05/2019
Ai sensi dell’art. 905 del c.c., non si possono aprire vedute dirette verso il fondo (chiuso o non chiuso), né sopra il tetto del vicino, se tra il fondo di questo e la faccia esteriore del muro in cui si aprono le vedute dirette non vi è la distanza di almeno un metro e mezzo.
Nel nostro caso, tale disposizione del codice civile è stata espressamente derogata per accordo delle parti intervenute nella stipula del contratto di compravendita del fondo, su cui poi è sorto l’edificio condominiale, le quali hanno costituito una vera e propria servitù di veduta, come peraltro riconosciuto dalla sentenza del Tribunale.
Il problema è sorto nel momento in cui il tecnico comunale, consultato - in via peraltro ufficiosa - in vista della formale presentazione della S.C.I.A., avrebbe avanzato dubbi in merito alla regolarità, sul piano urbanistico, delle aperture da realizzarsi, in quanto - sempre a detta del funzionario - l’apertura di vedute sul confine sarebbe vietata da una serie di norme urbanistiche.

In realtà, tale posizione espressa dal tecnico comunale è frutto di un palese equivoco, causato dalla confusione tra norme sulle distanze minime tra gli edifici, da un lato, e norme sulle finestre ed altre aperture, che sono di due tipi (luci e vedute), dall’altro.
Il primo gruppo di norme è costituito dagli artt. 873 ss. c.c. In particolare, ai sensi dell’art. 873, le costruzioni su fondi finitimi, se non sono unite o aderenti, devono essere tenute a distanza non minore di tre metri; tuttavia viene espressamente fatta salva la maggiore distanza eventualmente stabilita dai regolamenti locali.
Luci e vedute sono invece regolamentate dagli artt. 900 ss. c.c., che ne stabiliscono tipologie, caratteristiche e distanze rispetto al fondo confinante.
Ora, l’equivoco in cui sembra essere incorso il tecnico comunale riguarda la diversa ratio, ossia il fondamento e, in definitiva, la funzione delle rispettive norme.
La distinzione è stata ben delineata da consolidata giurisprudenza della Corte di Cassazione. In particolare, secondo Cass. Civ,, Sez. II, sentenza n. 15070/2018, “l'art. 905 c.c., che salvaguarda il fondo finitimo dalle indiscrezioni attuabili mediante l'apertura di vedute negli edifici vicini al fine di proteggere interessi esclusivamente privati, non ha correlazione alcuna con l'art. 873 c.c. che, diretto a tutelare, evitando la formazione di intercapedini dannose, interessi generali di igiene, decoro e sicurezza negli abitati, consente agli enti locali di stabilire distanze maggiori secondo una valutazione particolare dei detti interessi collettivi. Ne consegue che non vi è spazio per una integrazione della previsione dell'art. 905 c.c. con quelle eventuali più restrittive in tema di distanze tra costruzioni contenute nei regolamenti locali, deponendo in tal senso anche l'assenza nel testo della norma di un rinvio – che è, invece, contemplato nell'art. 873 c.c. – ai regolamenti in questione”.
Tali principi si trovano ben esplicitati anche nella più risalente Cass. Civ., Sez. II, sentenza n. 4401/1997): “a differenza dell'art. 873 c.c. che è inteso ad evitare la formazione di intercapedini dannose e a tutelare gli interessi generali dell'igiene, decoro e sicurezza degli abitanti, consentendo agli enti locali di stabilire distanze maggiori, secondo una valutazione particolare degli interessi collettivi, l'art. 905 c.c., che stabilisce le distanze per l'apertura di vedute dirette e balconi, è diretta a salvaguardare i fondi dalle indiscrezioni dipendenti dall'apertura di vedute degli edifici vicini e a tutelare interessi esclusivamente privati”.
Ed ancora: “la disciplina delle distanze tra fabbricati, in quanto diretta a tutelare interessi generali di igiene, decoro e sicurezza degli abitati, pur dettata in via generale dall'art. 873 cod. civ. (che richiede una distanza non minore di tre metri), può essere resa più rigorosa dalle disposizioni dei regolamenti locali, mentre la disciplina della distanza delle vedute dal confine, in quanto finalizzata alla tutela del mero interesse privato alla salvaguardia del fondo vicino dalle indiscrezioni dipendenti dalla loro apertura, trova la sua fonte esclusivamente nell'art. 905 cod. civ.” (Cass. Civ., Sez. II, sentenza n. 4967/2015).

Ad ogni modo, ad avviso di chi scrive, né il D.M. 1444/1968, né il vigente Regolamento Edilizio del Comune in cui si trovano gli immobili in questione pongono prescrizioni o divieti applicabili al caso in esame. Entrambe le normative si limitano, infatti, a dettare norme in tema di distanze, comprese quelle tra pareti finestrate (che, a quanto consta, risulterebbero comunque rispettate nel caso che ci occupa), e per lo più applicabili alle nuove costruzioni.
Alla luce delle considerazioni che precedono, le obiezioni formulate (allo stato, ricordiamo, in via del tutto informale) dall’ufficio tecnico comunale appaiono infondate.

MASSIMO M. chiede
sabato 02/06/2018 - Emilia-Romagna
“Il mio cortile-giardino confina con un cortile-giardino di un vicino, entrambi i fabbricati hanno accesso indipendente. Il confine è delimitato da un muretto in cemento armato alto circa 50 cm e una rete di protezione con oscurante, il tutto ad altezza dal piano del mio fondo di circa 2,3 metri. Il fondo del vicino è più basso di circa 40 cm rispetto al mio fondo. A circa 90 cm di distanza dal confine esiste nel fondo del vicino una costruzione adibita a deposito attrezzi, non abitabile. Recentemente il vicino, costruendo una scaletta esterna appoggiata alla predetta costruzione, si è costituito un accesso al solaio di quest’ultima e con una gettata di calcestruzzo ha poi pavimentato il tutto con erba artificiale e l’ha adibita a terrazza-solarium, con doccia esterna, piccolo pergolato con sedie e tavolo e sdraio. Non vi sono recinzioni ma soltanto delle ringhiere metalliche appoggiate a fioriere metalliche dove ha sistemato delle piante ornamentali.
Questo fatto nuovo ha permesso una veduta diretta sul mio fondo che prima non c’era, facendo venir meno ogni privacy reciproca.
Ho chiesto al vicino se intendesse oscurare almeno i lati che permettono la vista sul fondo, ma la risposta è stata che essendoci le piante ornamentali, e lui non potendosi affacciare al di sopra delle piante, starebbe a posto così. In realtà le piante non oscurano un bel nulla, né sono fitte e permettono tranquillamente la veduta da tutti i lati.
Io ho installato allora sul confine un frangivento in legno che oltre ad arredare svolge la funzione di rispetto della reciproca privacy. Il problema è che tale frangivento non potrebbe superare, mi dicono, i 3 metri di altezza e, peggio, che questi 3 metri di altezza andrebbero misurati a partire dal piano del fondo del vicino (che è più basso di 40 cm). Se così fosse verrebbe vanificato l’obiettivo privacy.
Quesito: il diritto di veduta è legittimo nel caso in parola, poteva il vicino adibire a solarium/veranda/terrazza aperta il solaio del deposito attrezzi? E se sì, ho diritto che vi sia un’effettiva protezione della privacy con oscuramento vero ad altezza di 2 metri dal piano della sua terrazza? Infine è vero che l’altezza dei 3 metri sul confine si calcola sul fondo del vicino e non sul mio?
Ringrazio e porgo distinti saluti.

Consulenza legale i 07/06/2018
Il primo problema che si ritiene opportuno affrontare è quello della legittimità o meno della installazione sul confine di un frangivento in legno, per il quale ci si pone il dubbio se possa superare o meno i tre metri di altezza, tenuto conto che il fondo del vicino è più basso di 40 cm (e, quindi, si arriverebbe ad una altezza complessiva dal lato del vicino di metri 3,40).
Un conforto positivo sulla legittima installazione di tale manufatto può trarsi dalla sentenza della Corte di Cassazione, Sez. II civile n. 12819 del 12.07.2004, in cui la S.C., essendo stata chiamata a pronunciarsi sulla sussistenza o meno dell’obbligo per il vicino di contribuire al pagamento della metà delle spese della realizzazione di un muro di cinta ex art. 886 c.c., si è soffermata sulla esatta qualificazione di muro di recinzione.

In particolare, il principio affermato è quello secondo cui un muro di cinta, perché possa essere qualificato come tale e non essere computato per il calcolo della distanza di cui all’art. 873 c.c., deve essere di altezza non superiore a tre metri e deve adempiere alla funzione di separare i fondi e garantire la sicurezza delle persone e dei beni.
Un muro di natura mista, come quello del caso che ci riguarda, costituito da una parte in cemento armato alta circa cm. 50 ed un frangivento in legno (o anche un solo frangivento in legno alto più di tre metri dal piano del fondo del vicino, non essendo chiaro se il frangivento sia stato posto o meno sul muro preesistente, su cui già si trovava la rete metallica con oscurante) non può qualificarsi secondo la S.C. come muro di cinta, con obbligo, dunque, di non dover superare l’altezza di tre metri, poiché di fatto non è in grado di adempiere alla funzione di separare i fondi e garantire la sicurezza delle persone e dei beni.

Secondo la Corte, infatti, non può qualificarsi come muro di cinta un muro di recinzione realizzato con rete metallica o, può aggiungersi, con materiale diverso dalla muratura, atteso che sarebbe facilmente superabile da chiunque, risultando così insufficiente a garantire le funzioni proprie del muro di cinta; inoltre, sarebbe oggettivamente diverso da quello che è il muro propriamente inteso, ciò che ricondurrebbe all’ipotesi di una applicazione analogica dell’art. 886 c.c., non consentita dalla natura eccezionale della medesima norma.
In tal senso viene anche richiamata la sentenza della Corte di Cassazione n. 7675 del 18.12.1986, nella quale viene espressamente affermato che non possono assumere natura di muro divisorio le costruzioni a carattere non stabile e quelle che non assicurino una chiusura efficiente, quali un fabbricato in legno, una siepe, una vetrata, o una recinzione realizzata con rete metallica.
Lo stesso principio, secondo cui il manufatto deve essere integralmente in muratura per poter assumere natura di muro di cinta, è stato fatto proprio anche dalla Corte di Cassazione con successiva sentenza n. 6174 del 26.03.2015.

Ad ogni modo, anche a voler considerare il frangivento in legno come muro di cinta, deve sconfessarsi la tesi secondo cui l’altezza dei tre metri va calcolata dal piano inferiore del fondo del vicino, essendosi su tale specifica ipotesi pronunciata sempre la Corte di Cassazione (sentenze nn. 359/1959 e 1058/1966), la quale ha affermato il principio secondo cui la limitazione dell’altezza prevista dall’art. 886 c.c. è applicabile solo nell’ipotesi in cui il muro di cinta divida due fondi allo stesso livello e non è quindi estensibile al caso del muro tra fondi a dislivello, che deve anche svolgere la funzione di contenere e sorreggere la scarpata e il declivio.
Questo, pertanto, può elevarsi oltre il limite massimo previsto dall’art. 886 c.c. quando la sua concreta funzionalità e strumentalità, in stretta aderenza allo stato dei luoghi, lo esiga.

Chiariti questi aspetti, che intanto consentono di ritenere correttamente e legittimamente apposto il frangivento in legno onde tutelare la propria privacy dalla vista indiscreta del vicino, passiamo adesso ad analizzare il problema della veduta dal solarium che il confinante ha realizzato.
Norme di riferimento, in questo caso, sono gli artt. 900 e 905 c.c..
La prima di esse dà la nozione di veduta, definendo tale quelle aperture che consentono l’inspectio e la prospectio in alienum e che, in quanto limitano in maniera più incisiva rispetto alle luci la libertà del vicino ed in particolare la sua privacy, assoggetta la loro apertura a particolari cautele, che sono quelle fissate dall’art. 905 c.c. (per le vedute dirette ed i balconi, ossia il tipo di veduta che qui ci interessa), e che consistono nel rispetto di determinate distanze tra le vedute ed il fondo del vicino (un metro e mezzo).
Solo se vengono rispettate le distanze, il vicino non può vantare più alcuna pretesa giuridicamente rilevante all’adozione di ulteriori cautele atte ad impedire invasioni altrui nel suo fondo attraverso la veduta.

Nel nostro caso risulta alquanto palese che la distanza non sia stata rispettata, trovandosi il solarium a poco meno di un metro dal confine, ma la domanda a cui occorre adesso dare una risposta è questa: ci troviamo realmente di fronte ad una veduta?
Anche per rispondere a quest’ultimo interrogativo un utilissimo aiuto ci viene dato dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione, in particolare da quelle sentenze che si sono occupate della servitù di veduta; sostiene la S.C. che per potersi parlare di veduta devono sussistere delle opere che, pur non essendo in via esclusiva destinate all’affaccio, siano obiettivamente idonee all’inspicere e al prospicere in alienum, ossia che risultino destinate in modo normale e permanente a rendere possibile l’affaccio sul fondo del vicino (cfr. Cass. nn.1256/1987 e 17341/2003).
Così, si avrà veduta nel caso di un terrazzo munito di parapetto che permetta di affacciarsi sull’altrui fondo per una normale inspectio e prospectio e senza pericolo, mentre lo stesso non può dirsi allorché al posto del parapetto vi sia una ringhiera con funzione divisoria.
Da ciò se ne deve dedurre che la sola presenza delle ringhiere metalliche, appoggiate a fioriere con piante ornamentali, di fatto non può ritenersi idonea a consentire il comodo affaccio, in modo normale ed in condizioni di assoluta sicurezza, verso l’altrui proprietà, potendo solo permettere una vista precaria e fugace.

In considerazione delle superiori osservazioni, dunque, deve escludersi che nel caso di specie possa parlarsi di una vera e propria veduta, dovendosi ritenere corretto quanto asserito dal vicino, ossia che la presenza delle ringhiere metalliche e delle piante ornamentali devono ritenersi elementi sufficienti a garantire il rispetto della privacy invocato.
Peraltro, il diritto alla privacy viene ad essere garantito anche dalla presenza sul confine del frangivento in legno, per il quale, come detto nella prima parte della risposta, non può farsi valere il principio secondo cui i tre metri debbono misurarsi dal piano del fondo del vicino, inferiore rispetto al proprio di 40 cm.


Anonimo chiede
venerdì 21/04/2017 - Puglia
“Salve, sono proprietario di una villetta disabitata con giardino, costruita ante 1940, che ho deciso di ristrutturare.
Premetto che sulla villetta non esiste alcun tipo di vincolo.
Sul piano rialzato della villetta vorrei trasformare una finestra in porta e sul giardino far costruire una scalinata di 3 o 4 gradini per accedevi. La porta e la scalinata in questione distano dalla strada privata di confine a 3,5 metri circa (5 metri è la distanza minima prevista dal regolamento edilizio comunale) e a meno di 10 mt. da un fabbricato giacente oltre la stradina. La proprietà della strada è diversa da quella del fabbricato. Tra la strada privata e la villetta c'è un muro di mia proprietà alto circa 2 metri che delimita il confine.
La domande sono:
1) I vicini, proprietari della strada privata e quelli proprietari del fabbricato possono chiedere il ripristino della finestra e l’abbattimento della scalinata rivendicando la distanza minima di 5 metri o 10 metri?
2) In deroga al regolamento edilizio, è possibile applicare le norme del codice civile sulle distanze minime (1,5 mt.) in virtù della data di costruzione della villa?
3) Nel caso in cui le risposte alle domande precedenti siano sfavorevoli, esiste una procedura (es. accordo con i vicini) per effettuare l’apertura della finestra e la costruzione della scalinata? Se l’accordo legittima quanto sopra, sarà effettuato solo con il proprietario della strada privata o anche con il proprietario del fabbricato?
NB. Il proprietario della strada privata è una S.p.A.. Nel caso di accordo, chi me lo deve firmare? L’Amministratore delegato?
4) Siete a conoscenza di qualsiasi cavillo legislativo che mi possa legittimare nella costruzione della scalinata e l’apertura della finestra?

Grazie e saluti”
Consulenza legale i 22/05/2017
Costituisce principio di recente affermato dalla Corte di Cassazione (sentenza n. 4967 del 12.03.2015) quello secondo cui, mentre la disciplina delle distanze tra fabbricati, poiché diretta a tutelare interessi generali di igiene, decoro e sicurezza degli abitati, risulta dettata in via generale dall'art. 873 C. C. (che richiede una distanza non minore di tre metri), ma può essere resa più rigorosa dalle disposizioni dei regolamenti locali, ciò non sempre vale per la disciplina della distanza delle vedute dal confine.

Infatti, quest’ultima disciplina, in quanto finalizzata alla tutela del mero interesse privato alla salvaguardia del fondo vicino dalle indiscrezioni dipendenti dalla loro apertura, trova ordinariamente la sua fonte esclusivamente nell'art. 905 C. C. (che richiede una distanza di un metro e mezzo); soltanto nell’ipotesi in cui, invece, la maggiore distanza delle costruzioni, prevista dai regolamenti locali, non sia imposta in assoluto, ossia indipendentemente dalla dislocazione delle costruzioni nei rispettivi fondi, ma sia riferita specificamente al confine, allora in questo caso le norme regolamentari varranno a disciplinare anche la distanza delle vedute dal confine.

Va poi chiarito che, in tema di distanze legali fra edifici, mentre non sono a tal fine computabili le sporgenze estreme del fabbricato che abbiano funzione meramente ornamentale, di rifinitura od accessoria di limitata entità, come la mensole, i cornicioni, le grondaie e simili, rientrano nel concetto civilistico di "costruzione" quelle parti dell'edificio, quali “scale”, terrazze e corpi avanzati (cosiddetti "aggettanti") che, seppure non corrispondono a volumi abitativi coperti, sono destinate ad estendere ed ampliare la consistenza del fabbricato.

Per quanto riguarda il concetto di veduta, invece, va detto in generale che questa può essere costituita non solo da una finestra, ma anche da una porta finestra, balcone, loggiato, lastrico solare con parapetto, sporti, ecc., e che, ai sensi dell’art. 9, D.M. 2 aprile 1968 n. 1444 (e di tutti i regolamenti edilizi locali che ad esso si richiamano), devono intendersi per “pareti finestrate”, non solo le pareti munite di “vedute”, ma più in generale tutte le pareti munite di aperture di qualsiasi genere verso l’esterno, quali “porte”, balconi, finestre di ogni tipo (così TAR Abruzzo, Sez. I, 20 novembre 2012, n. 788; TAR Puglia, Lecce, Sez. III, 28 settembre 2012, n. 162).

Da quanto sopra riportato, dunque, se ne deduce che la porta in cui si vuole trasformare l’originaria finestra manterrà pur sempre la sua natura di veduta (per la quale sussiste l’obbligo del rispetto delle distanze legali), mentre la gradinata che si intende realizzare ex novo deve farsi rientrare nel concetto di costruzione, con obbligo anche per essa di rispetto delle distanze legali.
Tuttavia, poiché una veduta già era esistente, seppure come finestra, si ritiene che sia pienamente legittima la sua trasformazione in porta, non venendosi di fatto a realizzare una nuova veduta.

Allorché, però, dovessero insorgere delle contestazioni al riguardo, occorre prestare attenzione a quanto stabilito dal regolamento edilizio, ossia occorrerà verificare se le distanze ivi fissate valgano anche per le vedute o soltanto per le costruzioni, poiché soltanto nel primo caso sussisterà l’obbligo di osservarle, mentre nel secondo caso varrà la norma generale di cui al sopracitato art. 905 c.c. (che richiede la minor distanza di un metro e mezzo).

Altra verifica che occorrerà svolgere è quella di esaminare la disciplina dettata dal Piano regolatore vigente del Comune interessato, essendo possibile che questo preveda che gli edifici edificati prima di una certa data possano essere risanati e/o ristrutturati nel rispetto dei caratteri tradizionali, e quindi nel rispetto delle distanze all’epoca previste.
Ciò, tuttavia, non può valere per la realizzazione della gradinata che, come visto prima, rientra nel concetto di nuova costruzione, per la quale dunque dovrà rispettarsi la distanza fissata dal vigente regolamento comunale.

Su quanto sopra osservato, poi, nessuna influenza può avere il fatto che tra le costruzioni frontiste vi si trovi una strada privata di proprietà di terzi, non potendo trovare applicazione l’ultimo comma dell’art. 905 c.c.
Costituisce orientamento consolidato, infatti, quello secondo cui, ai fini dell'obbligo delle distanze per l'apertura di vedute dirette e balconi, è del tutto ininfluente l'esistenza tra i due fondi vicini di una strada privata, non essendo questa in alcun modo equiparabile alla via pubblica cui fa riferimento l'ultimo comma dell'art. 905 c.c (così Cass. 7.4.87, n. 3356; Cass. 9.6.99, n. 5672).
E’ stata più volte affermato in giurisprudenza che, pur se l'esenzione dall'obbligo del rispetto della distanza stabilita dall'ultimo comma dell'art. 905 c.c. per l'apertura di vedute dirette verso il fondo del vicino non debba intendersi limitato al solo caso dell'inserimento tra i due fondi di una via pubblica, essa è stata al più estesa anche al caso in cui tra le due proprietà fronteggiantisi esista una strada privata soggetta a servitù pubblica di passaggio.

Quindi, ciò che rileva ai fini della esenzione, non è l'appartenenza del suolo, su cui il passaggio si esercita, ad un ente pubblico o ad un privato, ma la pubblicità dell'uso al quale quel passaggio è destinato, e ciò si giustifica in virtù della considerazione che la disciplina delle distanze legali fra edifici trova la propria "ratio" nella finalità di proteggere la riservatezza del proprietario frontistante, esigenza che non può più ritenersi meritevole di tutela ove sussista una strada soggetta ad uso pubblico, pur rimanendo essa privata (Cass. n. 13485 del 10.10.2000).

A questo punto, sulla base di quanto finora dedotto, volendo dare risposta alle prime due domande poste nel quesito, può dirsi che:
  1. sulla trasformazione della finestra in porta nulla possono obiettare i vicini, trattandosi, in ambedue i casi, di una veduta già esistente.
Legittime potrebbero essere, invece, le doglianze per la realizzazione della gradinata, trattandosi di nuova costruzione, per la quale va rispettata la distanza stabilita dal regolamento edilizio (5 metri dal confine con la strada privata e 10 metri dalla costruzione frontista).
  1. La data di costruzione della villa potrà avere il suo rilievo solo per quanto riguarda un eventuale intervento di risanamento e/o ristrutturazione (ed in ciò vi si può far rientrare la trasformazione della finestra in porta), ma non per la realizzazione di nuovi elementi strutturali, quale può essere la gradinata.
In ogni caso, per avere certezza di ciò, occorrerebbe esaminare il Piano regolatore generale del Comune ove la villa si trova ubicata.

Passando adesso ad occuparci della domanda n. 3, ossia quella relativa ad un eventuale accordo derogatorio con i confinanti, va precisato che purtroppo le norme integrative, ossia quelle contenute nel regolamento edilizio, sono dettate a tutela sia dell’interesse del privato proprietario del fondo finitimo sia, ed in modo ancora più pregnante, dell’interesse pubblico, che trascende quello dei privati, essendo espressione del potere che è dato all’Ente locale di adottare, nell’interesse generale, norme preordinate all’ordinato sviluppo urbanistico del territorio comunale.
La conseguenza di ciò è che una eventuale convenzione tra i privati per la costruzione dei loro edifici in deroga alle distanze prescritte dalle norme integrative contenute nei regolamenti edilizi o piani urbanistici, essendo invalida perché in contrasto con norme imperative, non può comportare l’acquisto per usucapione di una servitù avente ad oggetto il mantenimento di una costruzione a distanza inferiore a quella fissata da norme inderogabili, non potendo l’ordinamento accordare tutela ad una situazione che, attraverso l’inerzia del vicino, finisce per aggirare l’interesse pubblico, rendendo legittima la permanenza di un manufatto edificato in maniera da contrastare tale interesse.

In ogni caso, qualora via sia il consenso delle parti e si voglia egualmente correre il rischio di consacrare in una scrittura privata un accordo di tal tipo, va detto che per la strada privata, di proprietà della S.P.A., legittimato alla sottoscrizione sarà il suo legale rappresentante, che potrà coincidere con l’amministratore delegato qualora dichiari di avere il relativo potere di firma.

Giungendo, infine, alla richiesta contenuta nell’ultima domanda del quesito, può dirsi che, in virtù di quanto già più sopra esposto, gli unici inconvenienti potrebbero sussistere soltanto per realizzare la gradinata da porre a servizio della porta, la quale, ovviamente, senza la gradinata non avrebbe alcuna ragione di essere realizzata.

Ora, onde evitare anche di concludere un accordo invalido con i vicini, ciò che ci si sente di suggerire (ma è solo uno spunto di riflessione da approfondire) è di realizzare l’accesso con gradini alla porta mediante una pregevole, leggera, struttura prefabbricata amovibile, la quale, non costituendo nuova costruzione, non sarà soggetta al rispetto di alcuna distanza legale.

Paolo G. chiede
giovedì 03/11/2016 - Piemonte
“Quattro anni fa ho acquistato una casa singola con giardino all’interno di un borgo antico. Il giardino confina con un’altra casa; già al momento della compravendita avevo notato un’apertura che affacciava direttamente sul giardino a filo proprietà. Essendo sempre chiusa avevo immaginato che si trattasse di una semplice luce.
Dopo l’acquisto invece ho scoperto che è una vera e propria finestra, infatti il vicino può affacciarsi direttamente sulla mia proprietà, dentro cui talvolta è anche entrato utilizzando proprio questa apertura.
Ne è nata una discussione, io gli ho chiesto di adeguarla a quanto prevede il Codice Civile, nello specifico a quanto prescritto per una luce (non essendoci le condizioni per tale adeguamento, ho proposto la soluzione di sostituire l’attuale infisso con uno basculante a vetro opaco, e con l’installazione sull’apertura nel muro di una grata fissa in metallo) a tutela delle reciproche proprietà e riservatezze. Il vicino pretende di lasciarla così com’è in virtù di una scrittura privata di 25 anni fa, invero mai registrata, fatta con un precedente proprietario di cui nemmeno gli eredi (da cui ho acquistato la casa) erano a conoscenza. Nella scrittura il precedente proprietario autorizzava l’apertura di una finestra benché non vi fossero le distanze regolamentari, specificando che tale concessione non garantiva alcun diritto futuro. Non solo, il vicino ha avanzato un diritto di veduta di tre metri (che non credo avrebbe in caso di luce), quando la finestra non rispetta la distanza minima di 1,5 metri.
Presso il Comune il progetto depositato presenta l’apertura, ma non sembra specificare se trattasi di finestra (manca il tratteggio verticale che solitamente indica il senso di apertura) o di semplice luce.
La domanda è: sono obbligato a farmi carico di questa scrittura privata? Posso pretendere dal vicino l’adeguamento di tale apertura al Codice Civile? E ancora: se non è obbligato ad adeguarla, debbo ugualmente rispettare il diritto di veduta di tre metri, per una finestra che di fatto ne guadagna già 1,5 metri da dove dovrebbe essere posta?”
Consulenza legale i 08/11/2016
Va innanzitutto specificato che la differenza tra luce e veduta dipende dalla funzione effettiva dell’apertura: se quest’ultima, infatti, offre al proprietario un comodo e normale affaccio sul fondo del vicino (come nel caso di specie) dovrà qualificarsi come veduta, indipendentemente dalle sue caratteristiche.

Se si tratta di veduta, si dovrà innanzitutto tenere conto di quanto prescritto dall’art. 905 cod. civ. sul rispetto delle distanze di legge dal fondo del vicino: in base a questa norma, in effetti, il vicino che gode di veduta a distanza inferiore ad 1 metro e mezzo non è in regola con la legge.

E’ certamente corretto e doveroso porsi il problema della validità della scrittura privata costituita a suo tempo dal vecchio proprietario: quest’ultima, infatti, può qualificarsi a tutti gli effetti come valido contratto costitutivo di servitù.
Lo conferma la giurisprudenza in materia, la quale specifica che una servitù volontaria può essere validamente costituita a mezzo di atto negoziale scritto tra vivi che rispetti il requisito della forma scritta a pena di validità: “In tema di vedute, l'esonero dall'osservanza delle distanze legali dalle costruzioni esistenti dà luogo a un rapporto di carattere non già obbligatorio bensì reale, in quanto, comportando un peso a carico di uno degli immobili e una corrispondente utilitas immediatamente fruibile a vantaggio dell'altro, configura un diritto di servitù, che non può essere convenzionalmente costituito se non per atto scritto”. (Cassazione civile, sez. II, 26/04/2006, n. 9576) ed ancora “Il consenso espresso verbalmente del proprietario di un fondo alla costruzione da parte del vicino di una terrazza a distanza illegale è inidoneo alla costruzione di un vincolo di natura reale essendo prescritta per la costituzione delle servitù la forma scritta ad substantiam (art. 1350 n. 4 c.c.)” (Cassazione civile, sez. II, 18/07/1994, n. 6712).

Va poi detto che, sempre secondo i Giudici, non è necessario che il contratto in questione utilizzi delle formule specifiche per la costituzione della servitù: “Ai fini della costituzione convenzionale di una servitù prediale non si richiede l'uso di formule sacramentali, di espressioni formali particolari, ma basta che dall'atto scritto si desuma la volontà delle parti di costituire un vantaggio a favore di un fondo mediante l'imposizione di un peso o di una limitazione su un altro fondo appartenente a diverso proprietario, sempre che l'atto abbia natura contrattuale, che rivesta la forma stabilita dalla legge ad substantiam e che da esso la volontà delle parti di costituire la servitù risulti in modo inequivoco, anche se il contratto sia diretto ad altro fine.” (Cassazione civile, sez. II, 28/04/2011, n. 9475) ed ancora “Per l'esistenza di una valida volontà costitutiva di servitù non è necessaria alcuna formula sacramentale, essendo sufficiente che detta volontà sia deducibile da una dichiarazione scritta da cui risultino, anche implicitamente, i termini precisi del rapporto reale tra vicini. Pertanto, l’accordo fra questi ultimi che deroghi, in favore di uno di essi, alle distanze legali delle costruzioni non può essere che un contratto costitutivo di servitù, dato che in tal caso, col venir meno del limite legale, si acquista, come diritto reale, la facoltà di invadere la sfera esclusiva di un fondo, per l'utilizzazione di un altro fondo” (Cassazione civile, sez. III, 29/01/1982, n. 577).
Pertanto “L’accordo tra vicini per derogare, in favore di uno di essi, alle distanze legali è un contratto costitutivo di servitù e, come tale, per essere valido, deve essere redatto per iscritto.” (Cassazione civile, sez. II, 09/10/1979, n. 5240).

Ciò detto, però - si noti bene - è altrettanto vero che la mancata trascrizione della scrittura in questione può costituire un problema ai fini della valida costituzione della servitù; infatti, per essere validamente opposta ai terzi, o la servitù viene trascritta , oppure – se non trascritta – la sua costituzione ed esistenza devono essere menzionate nel successivo atto di trasferimento dell’immobile: “Sono inopponibili verso i terzi i vincoli di natura reale quando il contratto non è trascritto nei pubblici registri immobiliari (…)“ (Cassazione civile, sez. II, 18/07/2013, n. 17634); “Per aversi costituzione volontaria del diritto reale di servitù deve esservi un negozio posto in essere dal titolare del fondo servente; in ogni caso, intanto la servitù sarà opponibile ai successivi acquirenti del detto fondo, in quanto essa sia stata debitamente trascritta a norma dell'art. 2643 n. 4 c.c.” (Tribunale Roma, 16/01/2006, n. 815);Le servitù costituite negozialmente sono opponibili ai terzi acquirenti del fondo servente, non soltanto nell'ipotesi in cui il titolo della servitù sia stato trascritto, ma anche quando, mancando tale trascrizione, si faccia espressa menzione della servitù nell'atto di trasferimento al terzo del fondo servente.” (Cassazione civile, sez. II, 21/02/1996, n. 1329); infine “La servitù non trascritta è vincolante per il terzo acquirente del fondo servente solo se è chiaramente indicata nel titolo con cui la proprietà dell'immobile gravato è stata trasferita al medesimo, non essendo sufficiente che, in luogo della descrizione della servitù esistente, l'atto di trasferimento contenga frasi generiche ed indeterminate, ricorrenti nei formulari notarili, che restano prive di effetti giuridici, atteso che siffatte espressioni, in mancanza della legale certezza della conoscenza della servitù da parte del terzo acquirente, derivante dalla trascrizione dell'atto costitutivo, non danno neppure la certezza reale di tale conoscenza, che si consegue soltanto mediante la specifica indicazione dello ius in re aliena gravante sull'immobile oggetto del contratto.” (Cassazione civile, sez. II, 03/02/1999, n. 884).

Pertanto, se – come pare di capire – tale atto, nella sostanza costitutivo di servitù, non è stato trascritto né è stata menzionata specificamente l’esistenza della servitù nel successivo atto di trasferimento dell’immobile, questa non è più opponibile al vicino che subisce l’affaccio sul proprio fondo da parte del vicino invadente.

Attenzione, tuttavia, alla possibile sussistenza di una diversa ipotesi: l’acquisto della servitù per usucapione.
Infatti, l’apertura a distanza irregolare di una veduta che abbia caratteristiche tali da rivelare la normale e permanente destinazione alla vista ed all’affaccio sul fondo altrui può dare origine ad una servitù di veduta, essendo una servitù apparente (caratterizzata, cioè, da opere visibili e permanenti destinate al suo esercizio).
Essendo l’ordinaria usucapione di durata ventennale, il diritto di servitù – nel caso di specie – pare sia stato ampiamente acquisito per il decorso del tempo, salvo – evidentemente – che nel frattempo non sia intervenuto qualche atto del vicino, che ora pretende la regolarizzazione della veduta, che rappresenti una turbativa tale da modificare in modo apprezzabile le modalità del possesso e procurare l'interruzione dell'usucapione.

L’unica opzione pare in ogni caso essere quella della proposizione di una domanda giudiziale volta a contestare l’esistenza della servitù: “Il termine per usucapire una servitù viene interrotto dalla proposizione di actio negatoria della servitù medesima. Infatti, agli effetti della interruzione del termine utile per l'usucapione si richiede che il titolare del diritto notifichi al possessore l'atto giudiziale diretto alla riaffermazione del suo diritto sul bene” (Cassazione civile, sez. II, 01/03/2016, n. 4049) e “l’interruzione dell'usucapione di una servitù può avvenire, oltre che nell'ipotesi di interruzione naturale di cui all'art. 1167 c.c., solo mercé proposizione di una negatoria "servitutis" (art. 2943 comma 1, 2 e 3 c.c.) essendo inapplicabile alla usucapione l'ipotesi di cui all'ultimo comma dell'art. 2943 c.c., la quale prevede l'interruzione della prescrizione in base ad ogni atto che valga a costituire in mora il debitore.” (Cassazione civile, sez. II, 10/01/1980, n. 228).

Se in conclusione, come pare a chi scrive, il vicino invadente ha maturato il diritto a mantenere la veduta, benché irregolare, non solo non si potrà – evidentemente – costringerlo al rispetto delle distanze o alla regolarizzazione della medesima, ma egli avrà altresì il diritto già vantato di cui all’art. 907 cod. civ., ovvero il diritto a che non si costruisca davanti alla sua veduta ad una distanza inferiore a tre metri.

Hai un dubbio o un problema su questo argomento?

Scrivi alla nostra redazione giuridica

e ricevi la tua risposta entro 5 giorni a soli 29,90 €

Nel caso si necessiti di allegare documentazione o altro materiale informativo relativo al quesito posto, basterà seguire le indicazioni che verranno fornite via email una volta effettuato il pagamento.