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Vietate le catene per gli animali del circo

Vietate le catene per gli animali del circo
Il gestore di un circo che detiene animali in catene ovvero in condizione non compatibili con la loro natura commette reato di "abbandono di animali" ex art. 727 c.p. secondo comma.
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 25805 del 22 giugno 2016 ha emesso una interessante pronuncia in tema di tutela degli animali.

Nel caso esaminato dalla Cassazione, il Tribunale di Milano aveva condannato l'imputato per il reato di cui all’art. 727, comma 2, codice penale, “per avere, nella sua qualità di gestore di un circo, detenuto due elefanti in condizioni incompatibili con le loro caratteristiche etologiche, in quanto legati con corte catene limitative dei più elementari movimenti, in una situazione produttiva di gravi sofferenze”.

Con la medesima sentenza, inoltre, l’imputato veniva condannato al risarcimento del danno nei confronti della Lega Antivivisezione, che si era costituita come parte civile nel procedimento penale.

L’imputato, ritenendo la sentenza ingiusta, proponeva ricorso in Cassazione, richiamando la normativa di settore, in base alla quale “l'uso di catene per il contenimento degli elefanti deve essere evitato, ma è concesso nei casi in cui occorra provvedere ad esigenze di cura sanitaria e di benessere dell'animale, oltre che di sicurezza degli operatori e, comunque, per il solo periodo nel quale a tali incombenze si debba procedere”.

Secondo l’imputato, poi, il Tribunale avrebbe fondato la propria decisione su di un “video girato dalla trasmissione televisiva «Striscia la Notizia», inerente ad un isolato accesso effettuato da una troupe televisiva”, senza considerare “che la veterinaria del circo aveva precisato che la struttura era pienamente regolare e che, in ogni caso, non vi era prova dell'effettivo superamento della soglia di sopportabilità”.

La Corte di Cassazione, tuttavia, non riteneva di poter aderire alle argomentazioni svolte dall’imputato, rigettando il relativo ricorso, in quanto inammissibile.

Osservava la Corte, infatti, come il ricorso fosse “basato su una ricostruzione alternativa dei fatti”, senza alcun riferimento critico alla motivazione della sentenza impugnata.

Secondo la Cassazione, in particolare, “l'art. 727, secondo comma, cod. pen. punisce la condotta di chi detiene animali in condizioni incompatibili con la loro natura e produttive di gravi sofferenze, avuto riguardo, per le specie più note (quali, ad esempio, gli animali domestici), al patrimonio di comune esperienza e conoscenza e, per le altre, alle acquisizioni delle scienze naturali”.

Inoltre, la Corte precisava che “la disposizione in questione non si riferisce a situazioni contingenti che provochino un temporaneo disagio dell'animale, in considerazione della sua formulazione letterale, che fa riferimento al duplice requisito delle condizioni di detenzione dell'animale e della produzione di gravi sofferenze”.

Ebbene, nel caso di specie, secondo la Cassazione, il Tribunale aveva evidenziato “con chiarezza che la situazione nella quale gli elefanti erano stati trovati non era passeggera e contingente, né dettata dalla necessità di operare per la pulizia e la cura degli animali. Infatti, nell'immediatezza del fatto i responsabili del circo non avevano richiamato esigenze contingenti, ma avevano affermato di essere convinti di poter mantenere gli animali legati con catene corte che ne impedivano i movimenti per l'orario notturno. E, del resto, la struttura stessa del circo era tale da rendere inverosimile che gli animali potessero essere tenuti in altro modo, per la mancanza di protezioni esterne che ne impedissero la fuga in orario notturno”.

Tale ricostruzione dei fatti, peraltro, trovava conferma “nel fatto che, a seguito dei servizio televisivo girato nell'ambito della trasmissione «Striscia la Notizia», i responsabili del circo avevano poi adottato una soluzione tecnica idonea a consentire il riposo in sicurezza degli animali all'interno di un recinto posto nella struttura, dove gli stessi erano finalmente liberi di muoversi”.

Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione dichiarava inammissibile il ricorso, condannando il ricorrente al pagamento delle spese processuali.


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