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È reato rifiutarsi di fornire le proprie generalità anche se si è estranei ai fatti.

È reato rifiutarsi di fornire le proprie generalità anche se si è estranei ai fatti.
Anche qualora si sia estranei ai fatti che abbiano richiesto l’intervento delle forze dell’ordine è reato rifiutarsi di fornire le proprie generalità.
La Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 13731/2020, si è pronunciata in relazione alla fattispecie contravvenzionale di rifiuto di indicazioni sulla propria identità personale, ex art. 651 del c.p., chiedendosi, in particolare, se essa possa essere contestata anche ad una persona estranea ai fatti che abbiano richiesto l’intervento delle forze dell’ordine.

La questione sottoposta all’esame dei giudici di legittimità era nata dalla vicenda che aveva visto come protagonista una donna, alla quale, dopo essersi rifiutata di fornire le proprie generalità alle forze dell’ordine, intervenute per un episodio di disturbo alla quiete pubblica, a cui essa era estranea, era stato contestato il reato di rifiuto di indicazioni sulla propria identità personale, di cui all’art. 651 del c.p.
Il Tribunale, tuttavia, assolveva l’imputata, ritenendo che il fatto non costituisse reato. Secondo il giudice di prime cure, infatti, la fattispecie contestata alla donna non si poteva ritenere integrata, considerato che, essendo stati impegnati, gli agenti della polizia municipale, in attività che non interessavano direttamente l’imputata, e non avendo, quest’ultima, commesso alcun illecito, non esisteva, nel caso di specie, alcuna necessità di tutela dell’ordine pubblico.

Tale pronuncia veniva, però, impugnata, dinanzi alla Corte di Cassazione, dal Procuratore Generale presso la Corte d’Appello territorialmente competente, eccependo una violazione e falsa applicazione dell’art. 651 del c.p., nonché un vizio di motivazione. Secondo il ricorrente, considerato che, dalla ricostruzione dei fatti, era emerso con chiarezza il fatto che i vigili fossero intervenuti in seguito alla segnalazione di condotte di disturbo alla quiete pubblica, il giudice di primo grado aveva errato nel non ritenere soddisfatto il requisito della necessità di tutela dell’ordine pubblico. A suo avviso, infatti, nonostante l’imputata fosse estranea a tali fatti, essa aveva comunque contribuito a creare ulteriore confusione inveendo contro gli agenti intervenuti.

La Suprema Corte ha accolto il ricorso, ritenendolo fondato.

Gli Ermellini hanno, difatti, evidenziato come, sulla base della costante interpretazione fornita dalla stessa Corte di legittimità, la ratio dell’art. 651 del c.p. sia quella di salvaguardare l'esigenza di consentire al pubblico ufficiale una pronta e compiuta identificazione del soggetto in circostanze d'interesse generale, allo scopo precipuo di evitare intralci all'attività di soggetti istituzionalmente preposti all'assolvimento di compiti di prevenzione, di accertamento o repressione dei reati, o di semplice garanzia della quiete pubblica (cfr. ex multis Cass. Pen., n. 3764/1998).
Sempre secondo il costante orientamento della Cassazione, peraltro, ai fini della configurazione della fattispecie in esame è, poi, necessario che il soggetto che richieda ad altri di fornire le proprie generalità, eserciti, in concreto, delle funzioni pubbliche. La potestà del pubblico ufficiale di richiedere indicazioni sull’identità personale, sullo stato o su altre qualità personali, non è, dunque, circoscritta all’ipotesi in cui il soggetto attivo della contravvenzione sia responsabile di un reato o di un illecito amministrativo (Cass. Pen., 18592/2011).

Gli stessi giudici della Suprema Corte hanno, inoltre, sottolineato come la norma in esame non richieda nessun presupposto di necessità della richiesta di indicazione dei dati personali, essendo necessaria la sola contingenza dell’esercizio delle pubbliche funzioni. Da ciò deriva, dunque, che il sindacato del giudice sulla legittimità della richiesta possa e debba investire esclusivamente la sussistenza della qualifica soggettiva, della competenza del richiedente e dell’effettivo e concreto esercizio delle sue funzioni, non, invece, la discrezionalità della concreta iniziativa del pubblico ufficiale in relazione alla causa della richiesta.

Tali principi, tuttavia, secondo gli Ermellini, sono stati disattesi dal giudice di prime cure, laddove ha escluso che, nel caso di specie, fossero configurabili delle esigenze di ordine pubblico, che l’imputata fosse tenuta a fornire le proprie generalità, in quanto gli agenti erano impegnati in un’attività che non la interessava direttamente, nonché, che la richiesta formulata dalla forze dell’ordine fosse legittima poiché non connessa alla contestazione di alcun illecito.

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