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Offende il capo e viene licenziato

Lavoro - -
Offende il capo e viene licenziato
Legittimo il licenziamento del lavoratore che pronuncia frasi offensive e minacciose nei confronti del datore di lavoro.
E’ del 28 gennaio 2016 una nuova sentenza della Corte di Cassazione in materia di licenziamento per giusta causa (Cass. civ., sentenza 28 gennaio 2016, n. 1595).

Nel caso esaminato dalla Cassazione, la Corte d’appello di Catania riformava la sentenza resa dal giudice di primo grado, il quale aveva ritenuto di dover annullare il licenziamento intimato ad un lavoratore, con conseguente condanna della società datrice di lavoro al risarcimento del danno dal medesimo subito.

Nel caso di specie, in particolare, il lavoratore era stato licenziato per aver assunto “un atteggiamento ostile e minaccioso nei confronti dell’amministratore della società”, mentre, invece, secondo il lavoratore, non sussisteva alcuna giusta causa di licenziamento.

In proposito, la Corte d’appello, rilevava che dalle testimonianze assunte nel corso dell’istruttoria era emerso che il lavoratore, in un’occasione, “aveva avuto una discussione con l’amministratore della società, durante la quale aveva proferito frasi offensive e minacciose (fra cui “io ti distruggo”, “ti spacco il fondoschiena”)”.

Secondo la Corte di secondo grado, dunque, tale condotta integrava gli estremi “dell’insubordinazione e dell’offesa al datore di lavoro” e, come tale, appariva idonea a compromettere il rapporto di fiducia tra datore di lavoro e lavoratore, “costituendo grave negazione del dovere di diligenza di cui ai commi 1 e 2 dell’art. 2104 codice civile, anche tenuto conto del contesto nel quale era maturato l’episodio, preceduto dalle legittime rimostranze dell’azienda per non avere il dipendente prontamente informato la direzione aziendale di un asserito infortunio sul lavoro”.

Ritenendo la sentenza ingiusta, il lavoratore proponeva ricorso in Cassazione, il quale, tuttavia, non veniva ritenuto meritevole di accoglimento.

Secondo il ricorrente, la Corte d’appello non avrebbe dato corretta applicazione all’art. 2119 codice civile, ravvisando una violazione dell’elemento fiduciario da parte del lavoratore, “senza tener conto degli elementi concreti inerenti la natura del singolo rapporto di lavoro, la mansione affidata ed il grado di affidabilità richiesto al lavoratore”.

Evidenziava il ricorrente, infatti, che, svolgendo egli le mansioni di autista, l’elemento fiduciario doveva considerarsi attenuato.

La Corte di Cassazione, tuttavia, non riteneva di poter aderire alle argomentazioni svolte dal ricorrente, precisando che “per giustificare un licenziamento disciplinare, i fatti addebitati devono rivestire il carattere di grave violazione egli obblighi del rapporto di lavoro, tale da lederne irrimediabilmente l’elemento fiduciario”.

Osservava la Corte che la valutazione della gravità dell’inadempimento da parte del lavoratore deve essere effettuata “con riferimento agli aspetti concreti afferenti alla natura e alla qualità del singolo rapporto, alla posizione delle parti, al grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni del dipendente, al nocumento eventualmente arrecato, alla portata soggettiva dei fatti stessi, ossia alle circostanze del loro verificarsi, ai motivi e all’intensità dell’elemento intenzionale e di quello colposo”.

Ebbene, nel caso di specie, secondo la Cassazione, la Corte d’appello aveva correttamente applicato tali principi, “in quanto la motivazione ha esaminato più aspetti, riguardando sia la condotta minacciosa ed ingiuriosa in sé, che il contesto dei rapporti nei quali si è inserita, che la sua valutazione nel codice disciplinare”.

Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso proposto, condannando il ricorrente al pagamento delle spese processuali.


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