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Articolo 2104 Codice Civile

(R.D. 16 marzo 1942, n. 262)

[Aggiornato al 31/01/2024]

Diligenza del prestatore di lavoro

Dispositivo dell'art. 2104 Codice Civile

Il prestatore di lavoro deve usare la diligenza richiesta dalla natura della prestazione dovuta, dall'interesse dell'impresa e da quello superiore della produzione nazionale [1176](1).

Deve inoltre osservare le disposizioni per l'esecuzione e per la disciplina del lavoro impartite dall'imprenditore e dai collaboratori di questo dai quali gerarchicamente dipende [2086, 2090, 2094, 2106, 2236].

Note

(1) L'obbligo di diligenza si sostanzia nell'esecuzione della prestazione lavorativa secondo la particolare natura di essa nonché nell'esecuzione dei comportamenti accessori che si rendono necessari in relazione all'interesse del datore di lavoro a conseguire un'utile prestazione.

Ratio Legis

L'art. 2104 va letto in combinato con l'art. 2105 i quali prescrivono rispettivamente l'obbligo di diligenza e di fedeltà cui il lavoratore deve uniformarsi nello svolgimento delle sue mansioni.
La violazione dei suddetti obblighi attuata dal lavoratore che svolge la sua attività in contrasto agli stessi può comportare la causazione di danni patrimoniali al datore di lavoro.

Massime relative all'art. 2104 Codice Civile

Cass. civ. n. 24619/2019

In tema di licenziamento disciplinare, ai fini della valutazione di proporzionalità della sanzione rispetto all'infrazione contestata, il giudice di merito deve esaminare la condotta del lavoratore, in riferimento agli obblighi di diligenza e fedeltà, anche alla luce del "disvalore ambientale" che la stessa assume quando, in virtù della posizione professionale rivestita, può assurgere, per gli altri dipendenti dell'impresa, a modello diseducativo e disincentivante dal rispetto di detti obblighi.

Cass. civ. n. 26496/2018

Lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente, durante lo stato di malattia, configura la violazione degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà nonché dei doveri generali di correttezza e buona fede, oltre che nell'ipotesi in cui tale attività esterna sia, di per sé, sufficiente a far presumere l'inesistenza della malattia, anche nel caso in cui la medesima attività, valutata con giudizio "ex ante" in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la guarigione o il rientro in servizio.

Cass. civ. n. 22382/2018

In tema di licenziamento disciplinare, l'insubordinazione può risultare da una somma di diverse condotte, e non necessariamente da un singolo episodio, tali da integrare una giusta causa di licenziamento, poiché il comportamento reiteratamente inadempiente posto in essere dal lavoratore - come l'uscita dal lavoro in anticipo e la mancata osservanza delle disposizioni datoriali e delle prerogative gerarchiche - è contraddistinto da un costante e generale atteggiamento di sfida e di disprezzo nei confronti dei vari superiori gerarchici e della disciplina aziendale tale da far venir meno il permanere dell'indispensabile elemento fiduciario. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto legittimo il licenziamento del lavoratore che aveva abbandonato in plurime occasioni il proprio posto di lavoro prima della fine del turno, invocando un diritto al "tempo tuta", e si era rifiutato di riprendere il lavoro, pur espressamente invitato a farlo, rivolgendo minacce al capo reparto).

Cass. civ. n. 663/2018

In tema di rapporto di lavoro subordinato privato, il grado di diligenza dovuta dal lavoratore, variabile secondo le peculiarità del singolo rapporto, deve essere apprezzato secondo due distinti parametri, costituiti dalla natura della prestazione, ovvero dalla complessità delle mansioni svolte anche con riferimento all'assunzione di responsabilità alle stesse collegata, e dall'interesse dell'impresa, ovvero dal raccordo della prestazione con la specifica organizzazione imprenditoriale in funzione della quale è resa. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha rigettato il ricorso avverso una sentenza che, in relazione ad un responsabile di un ufficio postale in cui era avvenuta una rapina, aveva ravvisato la negligenza della condotta nella violazione delle disposizioni aziendali in materia di giacenza fondi ed utilizzo di casseforti).

Cass. civ. n. 7795/2017

La nozione di insubordinazione, nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato, non può essere limitata al rifiuto di adempimento delle disposizioni dei superiori, ma implica necessariamente anche qualsiasi altro comportamento atto a pregiudicare l’esecuzione ed il corretto svolgimento di dette disposizioni nel quadro della organizzazione aziendale. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha ritenuto atto di insubordinazione, suscettibile di legittimare il licenziamento, l’ingerenza indebita della lavoratrice nell’organizzazione aziendale, manifestatasi nell’imposizione ai dipendenti di direttive, non discusse né concordate con la direzione aziendale, con modalità comportamentali dirette a contestare pubblicamente il potere direttivo del datore di lavoro).

Cass. civ. n. 12696/2012

Il lavoratore adibito a mansioni non rispondenti alla qualifica può chiedere giudizialmente la riconduzione della prestazione nell'ambito della qualifica di appartenenza, ma non può rifiutarsi aprioristicamente, senza avallo giudiziario, di eseguire la prestazione richiestagli, essendo egli tenuto a osservare le disposizioni per l'esecuzione del lavoro impartite dall'imprenditore ai sensi degli artt. 2086 e 2104 c.c., da applicarsi alla stregua del principio sancito dall'art. 41 Cost., e potendo egli invocare l'art. 1460 c.c. solo in caso di totale inadempimento del datore di lavoro, a meno che l'inadempimento di quest'ultimo sia tanto grave da incidere in maniera irrimediabile sulle esigenze vitali del lavoratore medesimo.

Cass. civ. n. 18375/2006

Ai fini dell'affermazione della responsabilità del lavoratore verso il datore di lavoro per un evento dannoso verificatosi nel corso dell'espletamento delle mansioni affidategli, è, anzitutto, onere del datore di lavoro fornire la prova che l'evento dannoso è da riconnettere ad una condotta colposa del lavoratore per violazione degli obblighi di diligenza, e cioè in rapporto di derivazione causale da tale condotta. Solo una volta che risulti assolto tale onere, il lavoratore è tenuto a provare la non imputabilità a sé dell'inadempimento. (Nella specie, la S.C., in base all'enunciato principio, ha cassato con rinvio l'impugnata sentenza, siccome affetta da vizio di motivazione perché, in relazione ad una domanda di risarcimento intentata dal datore di lavoro nei confronti di un proprio dipendente per i danni cagionati ad un proprio autobus a seguito di incidente asseritamente causato per responsabilità dello stesso dipendente, aveva negato la responsabilità di quest'ultimo non già escludendo che del danno provocato all'automezzo fosse dimostrata la relazione causale con il sinistro ma affermando che non vi era prova che l'incidente fosse conseguenza della condotta colposa del lavoratore ).

Cass. civ. n. 1365/2002

Nel contratto di lavoro subordinato il lavoratore non è obbligato al raggiungimento di un risultato ma all'esplicazione delle proprie energie nei modi e nei tempi stabiliti; ne consegue che il datore di lavoro che intenda far valere l'insufficienza della prestazione lavorativa non può limitarsi a provare il mancato raggiungimento del risultato atteso, ma è onerato della dimostrazione di un colpevole inadempimento degli obblighi contrattuali da parte del lavoratore, quale fattispecie complessa per la cui valutazione — che è di competenza del giudice del merito ed è incensurabile in sede di legittimità se sorretta da motivazione adeguata e priva di vizi logici ed errori manifesti — deve concorrere anche l'apprezzamento degli aspetti concreti del fatto addebitato, tra cui il grado di diligenza richiesto dalla prestazione e quello usato dal lavoratore nonché l'incidenza dell'organizzazione dell'impresa e di fattori socio-alimentari.

Cass. civ. n. 12769/2000

Gli artt. 2104 e 1176 c.c. impongono al lavoratore di eseguire la prestazione — anche in assenza di direttive del datore di lavoro — secondo la particolare qualità dell'attività dovuta, risultante dalle mansioni e dai profili professionali che la definiscono, e di osservare, altresì, tutti quei comportamenti accessori e quelle cautele che si rendano necessari ad assicurare una gestione professionalmente corretta. (Fattispecie relativa all'esecuzione da parte di dipendente di banca, addetto al settore, di due bonifici di rilevante importo in base a un falso ordine pervenuto mediante telefax; la Suprema Corte ha annullato la sentenza di merito che aveva accolto l'impugnativa proposta dall'interessato contro l'irrogatogli licenziamento per giusta causa, rilevando la violazione del riportato principio di diritto e vizi di motivazione, consistenti, tra l'altro, nella rilevanza esimente attribuita alla semplice apposizione di un visto da parte del direttore della filiale).

Cass. civ. n. 1752/2000

L'aperta contestazione di direttive aziendali — specialmente se accompagnata da modalità comportamentali dirette a contestare pubblicamente il potere direttivo del datore di lavoro — configura una violazione del disposto dell'art. 2104, secondo comma, c.c. suscettibile di legittimare il licenziamento del lavoratore. (Nella specie la sentenza di merito, confermata dalla S.C., aveva ritenuto legittimo il licenziamento di un lavoratore che aveva impedito all'amministratore unico della società datrice di lavoro di affiggere nella bacheca aziendale disposizioni riguardanti l'organizzazione del lavoro e l'individuazione delle mansioni dei singoli dipendenti).

Cass. civ. n. 5643/1999

Gli artt. 2086 e 2104 c.c. che prevedono il potere gerarchico del datore di lavoro sul lavoratore vanno interpretati alla luce del generale principio secondo cui ciascuna parte contrattuale può pretendere e deve fornire soltanto le prestazioni previste nel contratto. Ne consegue che, da un lato, i superiori gerarchici non possono richiedere prestazioni che siano chiaramente escluse dal contratto medesimo e che, dall'altro, il lavoratore - che non voglia attendere l'esito del giudizio in sede sindacale o giudiziaria - ha diritto di rifiutare prestazioni di tale tipo, correndo il rischio, conseguente a tale comportamento, di essere successivamente ritenuto responsabile di inadempimento qualora venga eventualmente accertata la legittimità dell'ordine disatteso.

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Consulenze legali
relative all'articolo 2104 Codice Civile

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Francesco G. chiede
venerdì 19/01/2018 - Campania
“Senza alcun motivo ( potrebbe paradossalmente legittimarne la condotta ), un docente viene meno sistematicamente e unilateralmente al codice etico nei confronti della Dirigenza Scolastica e dell' Amministrazione Pubblica. Venendo meno anche al proprio dovere di RSU, eletta affinché assuma comportamenti costruttivi e collaborativi tra le organizzazioni sindacali e l'amministrazione, esercita procurato allarme adombrando irregolarità a carico della dirigenza creando un grosso clima di disagio. Cosa fare in questi casi per non dover subire, al colmo dell'assurdo, anche ricorso per mobbing?”
Consulenza legale i 30/01/2018
La Rappresentanza Sindacale Unitaria (RSU) è un organismo sindacale, rappresentativo di tutte le professioni, all'interno di ogni scuola.
E’ lo strumento finalizzato all'esercizio dei diritti sindacali, compresa la contrattazione, su importanti aspetti dell’organizzazione del lavoro del personale docente ed ATA.

La RSU è titolare delle relazioni sindacali, a partire dai diritti di informazione, ed esercita i poteri di contrattazione all'interno di ogni scuola sulle materie espressamente previste dal CCNL e sottoscrive con il Dirigente Scolastico il “contratto integrativo d’Istituto”, ricercando le soluzioni più confacenti alla migliore organizzazione del lavoro del personale in relazione al piano dell’offerta formativa.
Nel pubblico impiego la RSU è regolamentata dall’art. 42 del decreto legislativo 30 marzo 2001 n. 165.

Orbene, nel caso di specie e per quanto riguarda i quesiti di cui ai punti a) e b), sembra che il problema possa essere individuato nel rapporto tra il Dirigente Scolastico e un docente dell'Istituto Scolastico che riveste il Ruolo di RSU. Ciò che emerge dalla vicenda rappresentata che costituisce il presupposto dei quesiti proposti, è il "particolare" contegno del docente (anche Rappresentante Sindacale) che viene rappresentato come lesivo dei doveri di lealtà, imparzialità, diligenza, oltre che del rapporto di fiducia con il datore di lavoro, che è lo Stato e non il dirigente scolastico.

Una volta identificata e qualificata come censurabile disciplinarmente la condotta del dipendente pubblico, il responsabile della struttura presso la quale il dipendente lavora può dare inizio al procedimento disciplinare, ai sensi dell'art. 55 bis e seguenti del D. Lgs 165/2001 e, quindi nel rispetto delle rigide formalità ivi previste. Il fatto che il docente in questione rivesta anche il ruolo di rappresentanza sindacale unitaria non deve essere considerato ostativo del potere disciplinare del datore di lavoro. Deve essere evidenziato che nel procedimento disciplinare entra in discussione la violazione degli obblighi e dei doveri tipici del dipendente pubblico in quanto tale e che il ruolo di rappresentanza sindacale ricoperto dal lavoratore non riduce la portata degli obblighi e dei doveri tipici dello stesso dipendente pubblico.

Infatti, seguendo l'indirizzo del Ministero per la Semplificazione e la Pubblica Amministrazione, il dipendente pubblico nell'ambito dell’attività lavorativa deve attenersi ad obblighi che derivano dai principi costituzionali, quali principi di fedeltà alla nazione, imparzialità e buon andamento nonché a quelli contenuti nel codice civile, nelle norme nazionali sul pubblico impiego e nei contratti collettivi dei vari comparti.

Tra le disposizioni normative che dettano in modo più puntuale tali obblighi spicca il d.P.R. 16 aprile 2013, n. 62 ovvero il regolamento recante il codice di comportamento dei dipendenti pubblici a norma dell’art. 54 del d.lgs. n. 165 del 2001, che ciascuna amministrazione provvederà ad integrare adottando un proprio codice in base alle proprie specificità ai sensi del comma 5 del predetto art. 54.
Il decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150, ha innovato la materia delle infrazioni, sanzioni disciplinari, del procedimento disciplinare e dei rapporti con il procedimento penale ora prevista dagli articoli da 55 a 55octies del d.lgs. n. 165 del 2001.
La relativa disciplina riguarda tutto il personale contrattualizzato dipendente dalle pubbliche amministrazioni rientranti nel campo di applicazione del D.lgs. n. 165 del 2001 e reca norme imperative che non possono essere derogate dalla contrattazione collettiva.

Nei contratti collettivi, poi, sono regolati aspetti non riservati alla legge stessa quali le infrazioni e sanzioni, le procedure di conciliazione non obbligatoria e altri aspetti relativi al rapporto di lavoro inerenti alla materia.
Sulla disciplina in tema di infrazioni e sanzioni disciplinari e procedimento disciplinare all'indomani dell’entrata in vigore del .D.lgs. n. 150 del 2009, sono state fornite indicazioni applicative con circolare n. 14 del 2010.

Per quanto riguarda i quesiti di cui ai punti c) e d) è sempre preferibile segnalare, all'organizzazione sindacale di appartenenza del dipendente in questione, le "particolari" condotte poste in essere dal dipendente pubblico schermandosi con la propria qualità di RSU. E' consigliabile, comunque, mitigare il rischio di veder qualificata tale segnalazione quale prodromo di una condotta antisindacale, cioè condotta volta alla limitazione dell'esercizio e della libertà dell'attività sindacale.
L'art. 28 della Legge n. 300/70 (Statuto dei Lavoratori) stabilisce, infatti che, nel caso in cui il datore di lavoro si comporti in modo tale da impedire o limitare l'esercizio e la libertà dell'attività sindacale, il sindacato possa denunciare tale comportamento al Giudice del Lavoro e, nel caso in cui il giudice accerti che, effettivamente, vi è stata una lesione dei diritti sindacali, potrà ordinare al datore di lavoro di cessare dal comportamento ritenuto antisindacale e di rimuovere gli effetti dallo stesso.
La giurisprudenza rilevante, in particolare, ha ritenuto antisindacale il comportamento che incide, in modo diretto, su diritti sindacali espressamente riconosciuti dai contratti collettivi di lavoro, dalla legge o, addirittura, dalla Costituzione; con la precisazione che, la violazione dei diritti esplicitamente stabiliti da norme legali o contrattuali non esaurisca l'ambito dei comportanti antisindacali; infatti, si ritiene che il procedimento citato sia destinato a tutelare il sindacato da tutti quei comportamenti del datore di lavoro tali da ledere, ingiustificatamente, le prerogative del sindacato stesso, danneggiandone l'immagine.

Alla luce di quanto sopra, è necessario individuare con precisione le caratteristiche della condotta del lavoratore, al fine di valutarne la eventuale censurabilità in ambito disciplinare, in quanto posta in essere in palese violazione dei doveri e degli obblighi previsti dalle norme vigenti ed applicabili al caso specifico. Eventualmente, qualora invece la condotta del lavoratore, rappresentante sindacale, non avesse i requisiti della censurabilità disciplinare, ma fosse comunque da considerarsi ingiustificatamente ostruzionistica e pretestuosamente lesiva delle prerogative del Dirigente Scolastico, impedendo la buona gestione del servizio cui questi è preposto, è consigliabile portare a conoscenza di tali condotte l'Organizzazione Sindacale di appartenenza e sollecitarne i più opportuni provvedimenti nei confronti del lavoratore in questione.

Roberto F. chiede
martedì 12/07/2016 - Liguria
“Buongiorno Vi scrivo perché veramente non so come comportarmi relativamente alla legge 104; non sono riuscito ad essere più sintetico, spero però di essere riuscito ad esprimermi chiaramente.

Sono un dipendente pubblico, sono residente in Piemonte ma lavoro da sempre in Liguria a Genova, città dove abita mia madre e dove ero anch’ io residente anni addietro.
Ho da due anni la mamma disabile totale in condizioni di gravità, non deambulante (solo pochi passi in casa col girello) ed affetta da demenza senile (mia madre è vedova ed io sono l’ unico figlio superstite).
Da due anni è costantemente seguita dal sottoscritto e da una badante che io integro e alla quale mi alterno. Anche prima, però, mia madre aveva problemi che non la rendevano del tutto autosufficiente motivo per cui sul lavoro mi ero messo a par time per aiutarla e tale sono rimasto per alcuni anni compreso il primo dei due sopracitati.
Ho usufruito nel 2015 della L. 104 ad ore ridotta del 50% per via del par time e dal 2016 ne usufruisco a giornate e per intero, infatti da gennaio del 2016 sono rientrato al lavoro a tempo pieno perché non riuscivo più a far fronte alle spese ma poi mi sono accorto che non riuscivo più a far fronte alla stanchezza che il doppio impegno costituito da lavoro ed assistenza a mia madre comporta (ho 59 anni).
Conseguentemente ho chiesto (dopo aver attivato la residenza temporanea a Genova presso l’ abitazione di mia madre) di poter usufruire anche dei congedi retribuiti (D.Lgs n° 151 del 26-03-2001 art. 42 comma 5) che mi sono stati concessi.

Non utilizzo i due anni interi ma i 730 giorni a periodi secondo il seguente schema:
Martedì, Mercoledì, Giovedì e Venerdì art. 42; Sabato e Domenica riposo; Lunedi lavoro.
Ciò salvo piccole variazioni dovute a festività, recupero del turno del sabato lavorativo mensile o recupero di festività coincidenti con riposi).
IL turno di lavoro del lunedì, come da regolamenti, essendo un rientro lavorativo, determina discontinuità fra due periodi di permessi per cui il sabato e la domenica non vengono conteggiati nei 730 giorni a cui si ha diritto.

La situazione di mia madre mi ha sconvolto la vita: ho dovuto rinunciare a tutti i miei interessi in politica, nel sindacato, nello sport.
Ho dovuto interrompere la ristrutturazione di casa mia.
Non vorrei finire col vivere nel terrore di possibili errate interpretazioni della normativa da parte di eventuali controllori.
Non vorrei finire col dover buttare via tutto quel poco che ho guadagnato col sacrificio di anni solo per non rischiare di incorrere nel rigore di sentenze di licenziamento.

E vengo al punto che concerne le esigenze della mia vita:
1) Ho la necessità di recarmi (nelle giornate di sabato e/o domenica) una o due volte al mese (assentandomi un giorno, eccezionalmente due) a casa mia (in Piemonte a 130 Km circa di distanza da casa di mia madre) per verificare la posta, la situazione generale e attendere alla pulizia e piccola manutenzione (non ristrutturazione) della stessa e del giardino (come il taglio dell’ erba ecc.).
2) Avrei anche bisogno di recarmi(sempre al sabato e/o domenica)almeno due volte al mese (assentandomi due giorni, eccezionalmente uno) presso una casetta ed un piccolo vigneto che ho ereditato da mio padre sempre in Piemonte ma in altra località (a circa 60 Km da casa di mia madre); in particolare per quanto riguarda il vigneto non si tratta solo di bisogno ma anche di obbligo giuridico in quanto Decreti Ministeriali recepiti dalla Regione Piemonte impongono una adeguata manutenzione per contenere patogeni ed insetti nocivi (anche se non si tratta di azienda ma di una piccola vigna ad uso personale come nel mio caso).

3) In alcuni dei giorni in cui usufruisco della L. 104 e dei permessi retribuiti potrei avere necessità di recarmi a comprare i generi alimentari, le medicine, e quant’ altro necessario; ho necessità come tutti di recarmi in banca (bonifici, prelievi versamenti ecc.), di andare a pagare le bollette, di occuparmi dell’ amministrazione di casa, portare l’ auto alla revisione ecc. ecc.; insomma tutte quelle cose propedeutiche al sostentamento e alla conduzione della vita e delle sue strutture.
4) Avrei necessità altresì di attendere alla manutenzione del giardino di casa di mia madre e relativa vegetazione (non può certo farlo lei e credo oltretutto sia un obbligo condominiale legato alla decenza del condominio).
Altri piccoli lavori di manutenzione della casa (esempio: pittura agli infissi di legno o delle recinzioni).

Tutto ciò, ovviamente, senza far mancare a mia madre l’ assistenza per un numero di ore almeno pari a quelle dei turni che mi vengono retribuiti (in realtà l’ impegno medio giornaliero è più alto ancora).

La mia Amministrazione accertati i requisiti e concessi i benefici di legge non fornisce disciplinari sullo specifico da osservare.
Conseguentemente nel tempo ho provveduto a leggere tutto il materiale giuridico (circolari INPS e sentenze) che sono riuscito a reperire.
Da queste letture ho maturato la convinzione che (FERMA RESTANDO LA RESIDENZA ANAGRAFICA TEMPORANEA):

A) Nei giorni di riposo, festa, recupero posso fare per l’ intera giornata quel che credo e muovermi come credo (almeno nel limite dei 150 km, ferma restando la presenza di altra persona col disabile).

B) Nei giorni in cui usufruisco dei tre giorni di L. 104 e nei giorni in cui usufruisco dei permessi retribuiti devo essere a disposizione del disabile almeno per un numero di ore pari alla durata del mio turno di lavoro che in base al permesso mi viene retribuito, dopo di chè (o prima di chè) posso dedicarmi a ciò che credo e andare dove voglio (come nel suddetto caso A, naturalmente con gli stessi presupposti).

Ma sarà proprio così? Si tratta solo di mie convinzioni, anche se supportate da letture mirate.
Infatti certo è che le modalità di utilizzo di questi permessi non sono chiaramente normati e ciò secondo me crea non poche difficoltà a chi come il sottoscritto, essendo single, oltre alla necessità di assistere il disabile non ha il supporto della famiglia per assolvere a tutti gli altri obblighi e necessità di vita sia del disabile che personali.
Mi pare ne sia conseguenza che eventuali controlli parziali e non esaustivi (nonché eventualmente pretestuosi) lasciano mano libera a quei datori di lavoro pubblici e privati che volessero servirsene in modo strumentale a fini diversi dal verificare l’ effettiva assistenza al disabile come, ad esempio, ritorsioni o la riduzione del personale diversamente difficilmente raggiungibili.
Non solo lacune legislative e selve di circolari anche contrastanti succedutesi negli anni possono portare ad errori interpretativi, ma anche sentenze che appaiono contrastanti fra loro o con le circolari interpretative.
In questi giorni leggo su LeggiOggi.it delle novità che mi lasciano sconcertato e che riporto integralmente:

“Chi è titolare dei benefici della legge 104 perché assiste un familiare con invalidità non ha diritto ad utilizzare, per scopi personali, i giorni di permesso dal lavoro, ottenuti dalla propria azienda.
Si tratta di una proibizione che si estende all’intera giornata e non soltanto, come spesso frainteso, agli orari in cui il dipendente starebbe stato altrimenti impegnato a prestare servizio per la rispettiva attività lavorativa.
Lo si deduce da quanto stabilito nel merito dalla Corte di Cassazione, la quale ha ribadito come, nel corso dello svolgimento dell’intera giornata, inclusa quindi anche la notte, il familiare che risulta titolare dei benefici della legge 104 non abbia facoltà di poter attuare differenti mansioni rispetto a quelle attinenti la prestazione di assistenza nei confronti del parente disabile o malato.
COSA RISCHIA CHI ABUSA DEI PERMESSI DELLA LEGGE 104?
In difetto, è possibile che si configuri una giusta causa di licenziamento in virtù dell’avvenuta violazione della fedeltà al proprio datore di lavoro.
Abusare, quindi, dei permessi connessi alla legge 104 equivale all’instaurazione di un comportamento considerato grave da parte del lavoratore, in quanto recante danno sia al sistema previdenziale pubblico, dal momento che ad anticipare l’indennità provvede l’INPS, che alla stessa azienda ed organizzazione lavorativa interna, venendo meno una risorsa appunto all’interno dell’ordinario ciclo produttivo.
Sono proprio queste le ragioni che hanno portato i giudici della Cassazione a ritenere, nei casi di abuso dei permessi legati alla 104, che sia giustificato il licenziamento in tronco, cioè senza alcun preavviso, del dipendente inadempiente.
COME PROVARE L’INADEMPIENZA DEL DIPENDENTE?
La sussistenza dell’inadempienza da parte del dipendente titolare dei benefici della legge 104 può essere provata in diversi modi: o tramite fotografie appositamente scattate da un collega di lavoro, oppure dalla relazione di un investigatore privato, o ancora dalla dichiarazione di un soggetto terzo che possa testimoniare di aver visto il dipendente in questione prestare attività diverse dall’assistenza, a fini personali o ricreativi.
Ovviamente, in caso sussista una dimostrazione comprovante la necessità oggettiva da parte del dipendente di uscire di casa (ad esempio, per comprare i medicinali necessari al familiare disabile o malato) il giudice, a condizione che la circostanza sia adeguatamente provata, non potrà fare a meno di considerarla una ragione valida e ammissibile a giustificare l’assenza.”

1) Cosa significa? Se io prendo per certi giorni L. 104 o congedo retribuito (retribuito per 7 ore e 12minuti) durante l’ intera giornata degli stessi posso occuparmi solo di assistenza? Non posso uscire di casa? Ogni uscita deve essere comprovata anche se sono già stato in casa, o ci starò, per più tempo del turno che mi pagano? Comprovare la necessità di uscire di casa per ogni cosa della vita che lo richiede? Tale necessità è quasi una costante non un’ eccezione.
Il giardino di pertinenza è considerato casa? O se ci vado sono uscito?

2) Le feste e i riposi non conteggiati nei permessi retribuiti vengo assoggettati alla stessa disciplina per il solo fatto che si usufruisce dei permessi retribuiti?
Quando già uno dedica al disabile più tempo di quello che gli viene retribuito per via dei permessi di legge non è in regola? Si deve lasciar andare in malora tutto ciò che si ha e che ha il proprio congiunto disabile? Pagare una schiera di addetti non mi è certo possibile, ho lavorato e risparmiato tanto a suon di sacrifici per esser costretto a buttar via tutto?

3) Mi sento come se fossi agli arresti domiciliari, è costituzionale una simile ingerenza nella vita privata?

Se così fosse ogni datore di lavoro pubblico o privato per togliersi il peso di un dipendente che usufruisce della L. 104 può in pochi passi procedere ad licenziamento: mi pare veramente impossibile per chiunque riuscire sempre ad essere perfettamente allineato a quanto dice LEGGI OGGI pur assistendo pienamente il disabile.

La: Circolare INPS Direzione Centrale Prestazioni a Sostegno del Reddito, 23 maggio 2007 n. 90 "Permessi ex art. 33 legge 05 febbraio 1992, n. 104. Questioni varie." è da ritenersi obsoleta?
Quando in essa si parla, per la concessione dei permessi, che l’ assistenza non deve essere necessariamente quotidiana, purché assuma i caratteri della sistematicità e dell'adeguatezza rispetto alle concrete esigenze della persona con disabilità in situazione di gravità non si configura un forte contrasto con quanto scritto in LEGGI OGGI?

Mi scuso per esser stato prolisso.
Chiedo di non pubblicare nè questo scritto nè la consulenza, grazie.
Porgo i più cordiali saluti.


Consulenza legale i 25/07/2016
La questione principale riguarda la possibilità/legittimità o meno, da parte di chi usufruisce dei permessi di legge finalizzati all’assistenza al familiare disabile, di poter utilizzare il tempo del permesso per poter attendere anche ad incombenze che lo riguardino personalmente e che nulla abbiano a che vedere con l’assistenza in questione.

Per quanto riguarda la legge n. 104/1992 la risposta è, purtroppo, quella già individuata da chi pone il quesito: la legge richiede che le ore ed i giorni di permesso retribuiti siano dedicati all’assistenza, il che non significa, tuttavia, un obbligo di permanenza fisica continua accanto al disabile ma anche la possibilità di uscire di casa per occuparsi di tutte quelle incombenze che siano necessarie per garantire l’assistenza stessa (acquisto medicine, pagamento bollette, spese varie, ecc.).

E’ sulla base di questo presupposto che la Cassazione più recente ha ritenuto legittimo il licenziamento del dipendente che si comporti in maniera “abusiva”: “Il comportamento del prestatore di lavoro subordinato che, in relazione al permesso ex art. 33 legge n. 104 del 1992, si avvalga dello stesso non per l'assistenza al familiare, bensì per attendere ad altra attività, integra l'ipotesi dell'abuso di diritto, giacché tale condotta si palesa, nei confronti del datore di lavoro come lesiva della buona fede, privandolo ingiustamente della prestazione lavorativa in violazione dell'affidamento riposto nel dipendente ed integra nei confronti dell'Ente di previdenza erogatore del trattamento economico, un'indebita percezione dell'indennità ed uno sviamento dell'intervento assistenziale (nel caso in esame era stato accertato che l'assistenza non era stata fornita per due terzi del tempo dovuto o in base agli stessi riferimenti del ricorrente per metà del tempo dovuto con grave violazione dei doveri di correttezza e buona fede sia nei confronti del datore di lavoro che dell'Ente assicurativo)” (Cassazione civile, sez. lav., 06 maggio 2016, n. 9217).

Nessuna norma in effetti chiarisce nello specifico quanto tempo debba essere dedicato all’assistenza e le relative modalità di quest’ultima: la giurisprudenza valuta la conformità alla legge del comportamento del beneficiario del permesso caso per caso.
Ovviamente il tempo questi dedica all’assistenza ed a quanto si rende necessario per il disabile non necessariamente dovrà essere il 100%: tuttavia la giurisprudenza ritiene che la percentuale debba essere considerevole e, d’altro canto, costituirà sicuramente un abuso del diritto il dedicarsi ad attività totalmente estranee all’assistenza.
Di seguito qualche pronuncia indicativa sul punto:

- “Costituisce condotta truffaldina utilizzare i permessi retribuiti, chiesti ed ottenuti ai sensi all'art. 33 l. n. 104 del 1992, non per assistere il familiare disabile (unica ragione questa per cui l'ente pubblico concede il beneficio in esame), ma per attività personali proprie del lavoratore che ne usufruisce. (Nel caso di specie l'imputata ha utilizzato i giorni di permesso retribuito - ottenuti per l'assistenza ad uno stretto parente disabile - per effettuare un viaggio di piacere. Il giudice di merito, in motivazione, ha contraddetto la tesi difensiva secondo cui i permessi retribuiti ai sensi dell'art. 33 citato possono essere utilizzati dal lavoratore anche per il recupero delle energie psicofisiche spese per il costante lavoro di cura ed assistenza al disabile)”. (Tribunale Pisa, 04 marzo 2011, n. 258);
- “La condotta del lavoratore che abusa dei permessi per assistenza disabili – in quanto svolge attività assistenziali soltanto per il 17,5% del tempo totale dei permessi retribuiti – assume un carattere abusivo e, pertanto, è idonea a integrare una violazione dei canoni di correttezza e buona fede nell'esecuzione del rapporto tale da configurare una giusta causa di licenziamento.” (Cassazione civile, sez. lav., 22 marzo 2016, n. 5574);

- “Va escluso il diritto del figlio lavoratore che assista la madre handicappata di fruire dei permessi contemplati dall'art. 33 l. n. 104 del 1992, qualora l'assistenza non sia piena ed esclusiva, ma sia limitata a contatti telefonici e ad indicazioni logistiche e non sia continuativa nel tempo, ma circoscritta ad un arco temporale di quarantacinque giorni l'anno” (Cassazione civile, sez. lav., 22 aprile 2010, n. 9557).

- “resta il fatto che uno dei presupposti essenziali per l'applicabilità delle disposizioni dell'art. 33, l. n. 104 del 1992 è il requisito dell'assistenza continuativa la quale presuppone che il familiare, anche se non convivente, dimori in un luogo che gli consenta l'assistenza quotidiana al portatore di handicap, dovendosi trattare di soddisfare le quotidiane esigenze di vita di questi che non è in grado di provvedere a se stesso” (Tribunale Milano, 22 dicembre 2004).

- “Deve essere confermata la decisione dei giudici del merito che hanno ritenuto legittimo il licenziamento intimato ad un lavoratore che, durante la fruizione del permesso per assistere la madre disabile grave, aveva partecipato ad una serata danzante; la ragione fondante del "decisum" non è la mancata prova della avvenuta assistenza alla madre per le ore residue, ma l’utilizzazione, in conformità alla contestazione, di una parte oraria del permesso in esame per finalità diverse da quelle per il quale il permesso è stato riconosciuto.” (Cassazione civile, sez. lav., 30 aprile 2015, n. 8784).

Per quanto riguarda, invece, i congedi retribuiti ai sensi del D.Lgs n. 151 del 26/03/2001, l’art. 20, legge 8/3/2000, n. 53 prevedeva che la fruizione dei permessi e congedi fosse ammissibile purché il richiedente fornisse assistenza continua ed esclusiva al soggetto disabile. L’art. 24, c. 2, lett. b), legge 4/11/2010, n. 183, è poi intervenuta sul predetto art. 20, abolendo i requisiti della “continuità” e della “esclusività” quali presupposti necessari ai fini del godimento dei permessi da parte dei beneficiari (INPS, circ. 3/12/2010, n. 155).

Ora vi sono due soli casi in cui per l'accesso ai congedi retribuiti vengono richiesti i requisiti di continuità ed esclusività dell'assistenza (il primo caso è quello in cui il figlio sia maggiorenne e non convivente con i genitori; i secondo caso è quello in cui i congedi vengano richiesti dai fratelli o sorelle conviventi con il disabile, dopo la scomparsa dei genitori o nel caso in cui questi ultimi siano inabili totali. In entrambi i casi, il lavoratore deve dimostrare di assicurare l'assistenza in via esclusiva e continuativa).
Pertanto, nel caso di specie, non sarà necessaria la continuità nell’assistenza nei giorni di congedo, ben potendo il familiare che ne beneficia attendere anche a diverse attività: l’assistenza non dovrà, cioè, essere necessariamente quotidiana, purché assuma i caratteri della sistematicità e dell’adeguatezza rispetto alle concrete esigenze della persona con disabilità in situazione di gravità.

Quando si parla di giorni retribuiti, la legge fa riferimento al rapporto lavorativo di chi assiste il familiare disabile, pertanto “giorno” va inteso come giornata lavorativa (chi fa part time, per metà giornata assisterà il familiare, per il restante tempo della giornata potrà occuparsi di ciò che vuole).

Infine si precisa che laddove la Legge n. 104/1992 stabilisce che il lavoratore decade da ogni diritto qualora il datore di lavoro o l'INPS accerti l'insussistenza o il venir meno delle condizioni richieste per la legittima fruizione dei medesimi diritti, essa vuol riferirsi esclusivamente alla verifica dei presupposti di legge per l’ottenimento dei benefici normativi, presupposti riguardanti lo stato di salute e le condizioni fisiche del disabile.
Altra cosa sono le eventuali indagini che il datore di lavoro, per la giurisprudenza, è invece legittimato a svolgere privatamente per la verifica, come sopra detto, del corretto comportamento del dipendente che usufruisce dei permessi.