A distanza di oltre tre decenni dalla sua abolizione avvenuta il 31 luglio 1992, il fantasma della
scala mobile torna a materializzarsi nel panorama economico italiano. La bozza della
legge di bilancio attualmente in discussione contiene, infatti, una norma che richiama proprio quel
sistema di adeguamento automatico che, per anni, ha legato gli stipendi dei lavoratori all'andamento dell'inflazione. Il meccanismo proposto dal Governo prevede che,
qualora i contratti collettivi di lavoro non vengano rinnovati entro due anni dalla loro scadenza naturale, le retribuzioni dei dipendenti saranno automaticamente adeguate seguendo la variazione dell'Ipca, l'indice dei prezzi al consumo armonizzato per i Paesi dell'
Unione Europea.
L'adeguamento però non sarà illimitato come nella vecchia scala mobile, ma rispetterà un tetto massimo del 5% annuo, con decorrenza fissata al primo gennaio 2026. Questo significa che i lavoratori con contratti scaduti e non ancora rinnovati vedranno comunque crescere la propria busta paga in proporzione al carovita, anche se le parti sociali non dovessero raggiungere un accordo. Per sostenere questa riforma e favorire il rinnovo dei contratti, l'esecutivo ha stanziato due miliardi di euro per il triennio 2026-2028, risorse destinate alla detassazione degli aumenti contrattuali e pensate per sbloccare situazioni negoziali spesso ferme da anni.
Arretrati garantiti anche per il settore privato
La novità più significativa per milioni di lavoratori riguarda, però, l'
introduzione del riconoscimento automatico degli arretrati anche nel settore privato. La bozza della manovra stabilisce che, a partire dal 2026, ogni
contratto collettivo rinnovato dovrà necessariamente includere gli aumenti salariali maturati dal momento della scadenza del precedente accordo, indipendentemente dal momento effettivo in cui viene siglato il rinnovo.
Per comprendere meglio l'impatto concreto di questa misura,
si può fare un esempio pratico: se un contratto collettivo scaduto nel 2025 venisse rinnovato soltanto nel 2028, i lavoratori avrebbero comunque diritto a percepire gli aumenti retributivi, con decorrenza retroattiva a partire da gennaio 2026. Questo meccanismo, che rappresenta una pratica consolidata nel
pubblico impiego italiano da diversi anni, costituisce una vera e propria rivoluzione per il settore privato, dove finora gli aumenti decorrevano generalmente dalla data di firma del nuovo contratto.
L'obiettivo dichiarato è duplice: da un lato si vuole incentivare sindacati e associazioni datoriali a concludere le trattative nei tempi previsti, dall'altro si intende garantire ai dipendenti una piena copertura salariale, che compensi la perdita di potere d'acquisto accumulata durante i lunghi periodi di blocco contrattuale.
Le proposte alternative e le critiche dall'opposizione
Mentre il Governo lavora alla definizione finale della manovra, le forze di opposizione non stanno a guardare e avanzano proposte ancora più radicali.
Alleanza Verdi e Sinistra ha presentato un
disegno di legge battezzato
"Sblocca stipendi", che prevede l'aggancio automatico di tutte le retribuzioni, sia pubbliche che private, all'inflazione reale senza alcun limite percentuale. Per finanziare questa misura nel settore pubblico, la proposta suggerisce di
aumentare significativamente l'imposta sulle plusvalenze azionarie, redistribuendo così ricchezza dalle rendite finanziarie al lavoro dipendente.
Nicola Fratoianni, uno dei promotori dell'iniziativa, ha dichiarato che serve una "
terapia shock per restituire agli italiani il potere d'acquisto perduto" negli ultimi anni di alta inflazione. Il suo collega
Angelo Bonelli ha, invece, puntato il dito contro quella che definisce l'"
iniquità sociale" della manovra governativa.
Secondo le stime fornite dai due parlamentari, con la loro proposta i lavoratori con redditi fino a 20mila euro otterrebbero un incremento mensile di 125 euro, quelli nella fascia fino a 28mila euro vedrebbero crescere lo stipendio di 275 euro al mese, mentre per i redditi fino a 55mila euro l'aumento sarebbe di 343 euro mensili. Cifre che, a loro giudizio, risultano ben superiori ai benefici previsti dalla proposta governativa e che dimostrerebbero la necessità di un intervento più incisivo.
Il difficile equilibrio tra protezione salariale e rischio inflazione
Da Palazzo Chigi al momento non sono arrivati commenti ufficiali sulla misura contenuta nella bozza di bilancio, ma gli addetti ai lavori spiegano che l'obiettivo è quello di proteggere il potere d'acquisto dei salari senza, però, riaccendere quella pericolosa spirale prezzi-stipendi che l'Italia aveva faticosamente disinnescato proprio negli anni Ottanta. La vecchia scala mobile, pur garantendo ai lavoratori un adeguamento costante delle retribuzioni al costo della vita, aveva infatti contribuito ad alimentare un circolo vizioso: gli stipendi aumentavano per inseguire l'inflazione, ma questi aumenti si trasferivano sui prezzi dei beni e servizi, generando nuova inflazione che richiedeva ulteriori aumenti salariali. Un meccanismo che aveva portato l'Italia ad avere tassi di inflazione tra i più alti d'Europa.
La proposta attuale cerca di evitare questo rischio attraverso due accorgimenti fondamentali: il limite del 5% annuo all'adeguamento automatico e l'applicazione condizionata della misura, che scatta solo quando le parti sociali non riescono a rinnovare i contratti nei tempi previsti. Nonostante queste cautele, il principio di fondo rimane identico a quello della vecchia scala mobile: ricollegare nuovamente gli stipendi all'andamento dell'inflazione. Resta da vedere se questa soluzione di compromesso riuscirà davvero a tutelare i lavoratori senza innescare nuove dinamiche inflazionistiche, o se il ritorno a questo meccanismo degli anni Ottanta si rivelerà un'arma a doppio taglio per l'economia italiana.