La
sentenza n. 11347/2025 della Corte di Cassazione rappresenta una svolta nelle relazioni tra datori di lavoro e
dipendenti. I giudici di piazza Cavour hanno stabilito un principio che cambierà molte dinamiche aziendali:
l'astensione dal lavoro organizzata spontaneamente dai lavoratori è legittima, anche senza la proclamazione ufficiale da parte delle organizzazioni sindacali. Questo significa che i dipendenti che decidono di protestare insieme per rivendicare diritti comuni non possono essere licenziati, a patto che rispettino determinate condizioni.
La decisione affonda le radici nell'
art. 40 Cost., che garantisce il
diritto di sciopero, e nell'
art. 15 dello st. lav., che
vieta qualsiasi atto discriminatorio nei confronti di chi esercita diritti sindacali. La Cassazione ha voluto chiarire definitivamente che questo diritto fondamentale appartiene direttamente ai lavoratori e non può essere esercitato esclusivamente attraverso le sigle sindacali tradizionali.
Il potere di protestare collettivamente per la tutela di interessi comuni è una forma di libertà sindacale e autodeterminazione che nessuna azienda può comprimere o sanzionare.
La storia che ha cambiato tutto: tre lavoratori contro il datore
Il caso esaminato dalla Suprema Corte riguardava
tre dipendenti di un'azienda privata che avevano deciso di astenersi dal lavoro per un'ora in modo completamente autonomo. La loro protesta nasceva da una motivazione economica concreta: ritenevano il proprio
salario inadeguato rispetto all'impegno richiesto e all'inquadramento contrattuale. Non avevano consultato nessun sindacato, non avevano rilasciato comunicazioni formali, semplicemente avevano deciso insieme di fermarsi per far sentire la propria voce.
La reazione aziendale fu drastica: licenziamento per giusta causa. Il
datore di lavoro sosteneva che l'assenza fosse ingiustificata e dannosa per l'organizzazione produttiva. Uno dei tre lavoratori colpiti dal provvedimento decise, però, di non arrendersi e impugnò il
licenziamento davanti al giudice del lavoro, denunciando il carattere ritorsivo e discriminatorio della decisione aziendale. Sia il Tribunale di prima istanza che la Corte d'Appello gli diedero ragione, riconoscendo che
qualsiasi comportamento del datore che punisca o scoraggi la partecipazione a uno sciopero viola i principi costituzionali. L'azienda tentò l'ultima carta ricorrendo in Cassazione, ma i giudici supremi confermarono l'orientamento dei gradi precedenti, stabilendo la nullità assoluta del licenziamento.
Le tre condizioni per uno sciopero spontaneo legittimo
La Cassazione ha individuato con precisione i requisiti che rendono legittima un'astensione dal lavoro anche senza il coinvolgimento dei sindacati. Prima di tutto, la protesta deve essere collettiva: non può trattarsi di un'assenza individuale mascherata da rivendicazione, ma deve coinvolgere più persone unite da un interesse comune. Nel caso esaminato, i tre lavoratori agivano insieme per lo stesso obiettivo, configurando quindi un'azione collettiva genuina. In secondo luogo, lo sciopero deve essere finalizzato alla tutela di interessi comuni dei dipendenti: la richiesta di un miglioramento salariale, di condizioni di lavoro più dignitose, o di altre questioni che riguardano il gruppo rappresentano motivazioni legittime. Infine, l'astensione deve rispettare i limiti costituzionali, non andando a compromettere altri diritti fondamentali di pari rango.
La Corte ha precisato che
non è richiesto alcun preavviso al datore di lavoro, salvo nei servizi pubblici essenziali dove si applica la
legge n. 146/1990 con le sue garanzie specifiche. Questo significa che, nel settore privato, i lavoratori possono organizzarsi autonomamente senza dover seguire procedure formali, purché la loro protesta non provochi danni irreparabili all'impresa o metta a rischio beni fondamentali come la vita, la sicurezza o la produttività in modo permanente.
Le conseguenze per chi licenzia illegittimamente e i nuovi equilibri
Quando un'azienda licenzia un lavoratore che ha partecipato a uno sciopero spontaneo legittimo, scatta la tutela reintegratoria piena. Ciò significa che il dipendente ha diritto alla reintegrazione immediata nel posto di lavoro, oppure può optare per un'indennità sostitutiva. Ma non finisce qui: l'azienda deve pagare tutte le retribuzioni perdute dal momento del licenziamento fino alla reintegrazione, con un minimo garantito di cinque mensilità. Vanno inoltre riconosciuti tutti i contributi previdenziali e assistenziali relativi al periodo di ingiusta estromissione, come se il rapporto di lavoro non si fosse mai interrotto. Si tratta di conseguenze economiche molto pesanti per le imprese che decidono di reprimere le proteste spontanee.
La sentenza ha un impatto particolarmente significativo in quegli ambienti di lavoro dove la rappresentanza sindacale è debole o assente, e dove le rivendicazioni nascono direttamente dalla base dei lavoratori. La Cassazione ha voluto mandare un messaggio chiaro: la libertà sindacale non è monopolio delle organizzazioni tradizionali. Il diritto di protestare appartiene ai lavoratori stessi ogni volta che agiscono per tutelare interessi comuni, nel rispetto delle regole di convivenza civile e produttiva. Le imprese sono quindi richiamate a un maggiore rispetto dei diritti collettivi, evitando di confondere la mancanza di formalità con l'illiceità. Uno sciopero può considerarsi illegittimo solo se compromette irreparabilmente la produttività aziendale, causa la distruzione di impianti, mette a rischio la vita o la sicurezza delle persone, o determina un pregiudizio grave e permanente per l'attività economica. In assenza di questi effetti nocivi, l'astensione collettiva resta pienamente legale, anche senza proclamazione sindacale o comunicazione preventiva.