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Istigazione all’odio raziale: può rilevare anche un like su facebook

Istigazione all’odio raziale: può rilevare anche un like su facebook
Per la Cassazione come grave indizio può valutarsi, insieme ad altri elementi, anche l’apprezzamento per un’ideologia espresso su un social network.
È noto che l’art. 604 bis c.p. prevede il reato di propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale etnica e religiosa, punendo chiunque propagandi idee fondate sulla superiorità o sull'odio razziale o etnico, ovvero istighi a commettere o commetta atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi nonchè chiunque istighi a commettere o commetta violenza o atti di provocazione alla violenza per le medesime ragioni.
La norma in esame vieta altresì ogni organizzazione, associazione, movimento o gruppo avente tra i propri scopi l'incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. È peraltro punito chiunque partecipi a tali organizzazioni o presti assistenza alla loro attività, per il solo fatto della partecipazione o dell'assistenza.
Tale norma, inserita nel Codice Penale nel 2018, è diretta a tutelare il rispetto della dignità umana e ovviamente del principio di uguaglianza etnica, nazionale, razziale e religiosa.

Tanto premesso, ci si può chiedere se un like posto, su facebook o su un altro social network, a un contenuto di carattere discriminatorio possa rivestire una qualche rilevanza in sede penale.
E a tale quesito ha recentemente fornito risposta la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 4534 del 9 febbraio 2022.

Ebbene, con la citata pronuncia la Suprema Corte ha precisato che possono costituire gravi indizi circa l’integrazione del reato di cui all’art. 604 bis c.p. non solo i rapporti di frequentazione con altri utenti di un gruppo avente come scopo l'incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, ma anche i like apposti a post discriminatori sui social network. Essi, infatti, secondo gli Ermellini costituiscono “plurime manifestazioni di adesione e condivisionedei contenuti dal chiaro contenuto discriminatorio confluiti sulle bacheche presenti nelle piattaforme social.

I “mi piace” apposti da un soggetto a tali post, dunque, possono essere valorizzati insieme ad altri elementi ai fini tanto dell'integrazione delle condotte di propaganda quanto della individuazione nell'incitamento all'odio quale scopo illecito perseguito del gruppo.
La Corte invero ha sottolineato l’importanza dei like per l’algoritmo che regola il funzionamento dei social: la diffusione di contenuti inseriti ad esempio nelle bacheche "Facebook", già potenzialmente idonei a raggiungere un numero indeterminato di persone, dipende proprio dalla maggiore interazione con le pagine interessate da parte degli utenti. La funzionalità "newsfeed" (cioè il continuo aggiornamento delle notizie e delle attività sviluppate dai contatti di ogni singolo utente) è, infatti, condizionata dal maggior numero di interazioni che riceve ogni contenuto: sono dunque le interazioni che consentono la visibilità del messaggio ad un numero maggiore di utenti i quali, a loro volta, hanno la possibilità di rilanciarne il contenuto.

Il caso di specie, in particolare, riguardava un soggetto che era stato sottoposto alla misura cautelare dell’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria ordine al reato di cui all'art. 604-bis c.p., comma 2 perché, all’esito delle investigazioni circa l’attività svolta su tre distinte piattaforme social (Facebook, Wathsapp e VKontacte), era emersa
  • la creazione di una comunità virtuale internet caratterizzata da una vocazione ideologica di estrema destra neonazista, avente tra gli scopi la propaganda e l'incitamento alla discriminazione per motivi razziali, etnici e religiosi;
  • la commissione di plurimi delitti di propaganda di idee on line fondate sull'antisemitismo, il negazionismo, l'affermazione della superiorità della razza bianca nonchè incitamenti alla violenza per le medesime ragioni;
  • l’adesione al gruppo da parte dell’indiziato, che aveva incontrato di persona alcuni dei principali esponenti e si era posto ripetutamente in contatto con le piattaforme social della comunità virtuale, attraverso l'uso di account a lui riconducibili, inserendo dei "like" così consentendo il rilancio di "post" dal contenuto negazionista ed antisemita.
Avverso l’ordinanza del Tribunale che aveva confermato la descritta misura cautelare, l’indiziato aveva dunque proposto ricorso, lamentando – per quanto qui di rilievo – la lacunosità del compendio indiziario a suo carico: l'inserimento di soli tre like poteva infatti costituire, al più, un'espressione di gradimento, non dimostrando invece l'appartenenza al gruppo.
Nel dichiarare l’impugnazione inammissibile, la Cassazione ha dunque precisato quanto sopra riportato.


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