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Insultare in videochat non è reato di diffamazione

Insultare in videochat non è reato di diffamazione
Le offese in video chat integrano la fattispecie depenalizzata di ingiuria, non il reato di diffamazione.
La Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 10905/2020, ha avuto modo di precisare, ancora una volta, la differenza tra il reato di diffamazione e la fattispecie, ora depenalizzata, di ingiuria, con specifico riguardo al caso in cui l’offesa sia stata pronunciata all’interno di una video chat.

La vicenda giudiziaria giunta all’attenzione dei giudici di legittimità vedeva come protagonista un uomo che, nell’ambito di una video chat sulla piattaforma Google Hangouts, aveva rivolto delle offese al suo interlocutore, la cui registrazione era, successivamente, era finita su YouTube, dove diverse persone avevano avuto modo di prenderne visione.

In seguito all’accaduto, l’uomo veniva condannato, in entrambi i gradi del giudizio di merito, per il reato di diffamazione, punito dall’art. 595 del c.p., per aver offeso un’altra persona in una video chat, poi visionata da un numero indeterminato di persone.

Di fronte alla propria condanna, l’imputato decideva di ricorrere dinanzi alla Corte di Cassazione lamentando, innanzitutto, la violazione e falsa applicazione dell’art. 595 c.p. Secondo il ricorrente, infatti, i giudici di merito avevano errato nel ritenere sussistente il delitto di diffamazione invece che la fattispecie depenalizzata di ingiuria. Tale erroneità, a suo parere, era da rinvenire nel fatto che gli insulti fossero stati indirizzati al solo destinatario attraverso una chat vocale sulla piattaforma Google Hangouts che, a differenza da altre piattaforme di chat digitali, non risulta leggibile anche da altre persone. Secondo l’uomo, dunque, sarebbe stato del tutto irrilevante, ai fini dell’imputazione, il fatto che, in seguito, quella stessa chat fosse stata ascoltata da terzi su YouTube.
Lo stesso ricorrente eccepiva, poi, come Tribunale e Corte d’Appello avessero errato anche nell’attribuire rilievo alla presenza di terzi ascoltatori, i quali, in realtà, non avevano preso parte alla conversazione incriminata, ma avevano solamente visto il relativo video su YouTube.

La Suprema Corte ha accolto il ricorso, annullando senza rinvio la sentenza impugnata.
Gli Ermellini, pur riconoscendo il fatto che l’imputato avesse effettivamente pronunciato delle espressioni offensive attraverso la comunicazione telematica diretta alla persona offesa, poi ascoltata anche da terzi, hanno comunque ribadito che sussiste una differenza sostanziale tra ingiuria e diffamazione. Come, infatti, già precisato dagli stessi giudici di legittimità, nell’ingiuria la comunicazione, qualsiasi sia il mezzo utilizzato, è diretta all’offeso. Nel caso della diffamazione, invece, l’offeso rimane estraneo alla comunicazione offensiva intercorsa con più persone e non è nella posizione di interloquire con il soggetto agente (cfr. Cass. Pen., n. 10313/2019).

Esaminando il caso di specie alla luce di tale principio, dunque, esso non può che essere qualificato come ingiuria aggravata dalla presenza di più persone, il che, tuttavia, trattandosi di una fattispecie depenalizzata ad opera del d.lgs. n. 7/2016, impone l’annullamento senza rinvio della sentenza di condanna impugnata, in quanto il fatto non è più previsto dalla legge come reato.


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