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Genitore, se insulti tuo figlio commetti maltrattamenti in famiglia, al pari della violenza fisica: nuova sentenza

Genitore, se insulti tuo figlio commetti maltrattamenti in famiglia, al pari della violenza fisica: nuova sentenza
La Cassazione ha confermato la condanna di un padre per maltrattamenti in famiglia, chiarendo che anche insulti e frasi denigratorie reiterate possono integrare il reato di maltrattamenti in famiglia, al pari delle violenze fisiche
La Corte di Cassazione penale, con la sentenza n. 30780 del 15 settembre 2025, ha statuito che i maltrattamenti in famiglia non si consumano soltanto attraverso percosse o atti di violenza fisica, ma possono realizzarsi anche attraverso frasi denigratorie e atteggiamenti di disprezzo ripetuti nel tempo.
La vicenda oggetto della pronuncia della Corte riguardava un padre, accusato di aver rivolto alla figlia adolescente ripetuti insulti legati al suo aspetto fisico, utilizzando frasi come “cicciona, fai schifo, susciti repulsione in me e in chi ti guarda”. Un comportamento che, secondo i giudici, aveva creato un clima familiare degradante e umiliante, incidendo in maniera profonda sulla sensibilità della minore, particolarmente vulnerabile in quella fase della crescita.

In primo grado e poi in appello, l’uomo era stato condannato per maltrattamenti in famiglia ai sensi dell’art. 572 del c.p., per condotte commesse tra gennaio e luglio 2020. La Corte d’Appello di Venezia, nel novembre 2022, aveva confermato la decisione, ritenendo che la gravità e la frequenza degli insulti rivolti alla figlia integrassero il reato contestato.
Il padre, però, aveva deciso di ricorrere in Cassazione, sostenendo che la sua condanna fosse viziata da errori di diritto e da una non corretta valutazione delle prove.
Nel ricorso, la difesa aveva articolato quattro motivi principali: la mancanza del requisito dell’“abitualità”, l’assenza di fatti concreti che dimostrassero una reiterazione delle condotte, l’uso improprio di un messaggio inviato anni dopo i fatti e, infine, un presunto travisamento delle dichiarazioni della figlia. In particolare, la difesa dell’imputato si era appuntata sul requisito dell’abitualità, ritenuto incompatibile con il tempo di convivenza tra padre e figlia piuttosto ridotto in quel periodo, dato che l’imputato si trovava in Svezia per lavoro in piena pandemia da COVID-19 e aveva trascorso con la minore solo alcuni fine settimana.

La Suprema Corte ha però rigettato tutti i motivi di ricorso.

In primo luogo, gli Ermellini hanno chiarito che integrano il reato di cui all’articolo 572 c.p. “le condotte di reiterata denigrazione messe in atto da un padre nei confronti della figlia adolescente tali da arrecarle un clima di vita svilente e umiliante perché riguardanti un tema, l'aspetto esteriore di un soggetto in piena pubertà, rispetto al quale la fragile sensibilità del soggetto passivo funge da chiave di lettura inequivoca dell'intensità delle sofferenze patite dalla persona offesa allorquando, come nella specie, le frasi offensive, oltre che gratuite, hanno contenuti di estrema gravità rispetto al fisiologico percorso di crescita della minore, perché manifestazione di un evidente disprezzo”.

In poche parole, secondo la Corte, le frasi offensive, proprio perché rivolte a una ragazza nel pieno della pubertà e incentrate su aspetti legati alla sua fisicità, avevano assunto una gravità tale da ledere in profondità la sua dignità e la sua autostima.
Inoltre, secondo la Cassazione, si trattava di una forma di denigrazione non episodica, ma ripetuta, idonea a creare un contesto di vita familiare segnato da mortificazione e disagio costante. L’abitualità richiesta dalla norma penale, dunque, risultava pienamente integrata.

Quanto alla ricostruzione probatoria, la Corte ha sottolineato che il giudizio non si era basato unicamente sulle testimonianze della figlia, ma era stato corroborato anche dalle dichiarazioni della madre, della zia, nonché dalla relazione dei servizi sociali. Particolarmente rilevanti sono state proprio le dichiarazioni della mamma, che avevano confermato la ripetitività delle offese da parte dell’uomo.

Confermando la condanna e respingendo il ricorso, la Cassazione ha ribadito un principio ormai consolidato nella giurisprudenza: i maltrattamenti non presuppongono necessariamente condotte violente sul piano fisico. Anche le parole, quando assumono carattere denigratorio e vengono ripetute nel tempo, possono costituire strumenti di vessazione, capaci di minare la serenità psicologica e lo sviluppo equilibrato della vittima.


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