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Le frasi offensive, per integrare il reato di minaccia, devono provocare un danno ingiusto

Le frasi offensive, per integrare il reato di minaccia, devono provocare un danno ingiusto
Non integra il reato di minaccia inviare al vicino delle buste contenenti frasi di scherno, senza riferimenti ad un male ingiusto idoneo ad intimidire seriamente la parte lesa.
La Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 6756/2020, sia è pronunciata in merito alla possibilità di ritenere responsabile del reato di minaccia, ex art. 612 del c.p., chi invii al proprio vicino di casa delle buste contenenti frasi di scherno, con il solo intento di prenderlo in giro.

La vicenda giudiziaria vedeva come protagonista un uomo che, dopo aver inviato al proprio vicino, ex maresciallo della Guardia di Finanza, delle buste contenti frasi di scherno finalizzate a prenderlo in giro, si era visto condannare per il reato di minaccia in entrambi i gradi del giudizio di merito, nonostante dalle suddette frasi non emergesse alcuna minaccia di danno nei confronti del destinatario.

L’imputato, rimasto soccombente in primo e secondo grado, ricorreva dinanzi alla Corte di Cassazione, lamentando, in particolare, come la Corte d’Appello avesse non solo fornito una motivazione illogica alla propria decisione, ma anche travisato i fatti.
Secondo il ricorrente, infatti, il giudice di secondo grado non aveva considerato come la diatriba tra lui e la parte civile non era altro che un banale dissidio tra condomini, con la conseguenza che le scritte contenute nelle buste inviate non erano altro che mere prese in giro. L’uomo evidenziava, altresì, come la stessa parte civile, in qualità di ex maresciallo della Guardia di Finanza, fosse perfettamente in grado di comprendere la natura meramente canzonatoria e tutt’altro che intimidatoria delle frasi a lui indirizzate, considerato che contenevano anche un'invocazione all'intercessione divina. La stessa modalità con cui le missive erano state recapitate al destinatario evidenziavano, peraltro, l'intento puramente canzonatorio del mittente.

La Suprema Corte ha accolto il ricorso, annullando senza rinvio la sentenza impugnata per insussistenza del fatto.
Secondo gli Ermellini, infatti, i giudici della Corte territoriale non hanno preso in considerazione in modo adeguato quella che era l’effettiva portata delle frasi scritte dall’imputato ed il loro effetto sulla psiche della vittima, omettendo totalmente di prendere in considerazione anche il contesto in cui aveva avuto luogo la consegna della lettera incriminata.
Secondo il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, infatti, ai fini della configurazione del reato di minaccia, costituisce elemento essenziale "la limitazione della libertà psichica del soggetto passivo, da valutarsi con criterio medio, attuata mediante la prospettazione di un male potenzialmente idoneo ad incidere sulla libertà del soggetto passivo, senza che sia necessario che uno stato di intimidazione si verifichi concretamente, ma risultando necessario che il male ingiusto minacciato sia intrinsecamente idoneo ad intimidire la parte lesa, desumendo detta idoneità dalla situazione contingente." (Cass. Pen., n. 21684/2019; Cass. Pen., n. 44128/2014).

Nel caso di specie, invece, concordemente a quanto evidenziato dalla difesa, l’invio delle missive è avvenuto in un contesto, quello dei rapporti condominiali, in cui è comune la nascita di dissidi, e da esse non sono, peraltro, seguite azioni concrete ai danni della parte civile.
Oltre a non aver avuto alcuna conseguenza concreta, secondo il parere dei giudici di legittimità, le frasi considerate minacciose non appaiono, peraltro, idonee ad arrecare un danno ingiusto alla parte offesa, non contenendo alcun riferimento ad un male minacciato e non producendo alcun effetto intimidatorio. Le frasi indirizzate alla persona offesa, infatti, facevano genericamente riferimento ad una conseguenza negativa, senza indicare direttamente l'offeso stesso, né esplicitando il male minacciato.

Alla luce sia di queste precisazioni, sia del fatto che la stessa parte lesa, durante la sua deposizione, aveva dato atto di come l'agente l'avesse voluto metterlo in ridicolo, la Corte non ha potuto che escludere la configurazione del delitto di minaccia, accogliendo il ricorso.


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